770_DELIRIOUS - IL BARATRO DELLA FOLLIA (Tales that witness madness). Regno Unito; 1973. Regia di Freddie Francis.
L’anno successivo a Racconti dalla Tomba, Freddie Frances tornò a dirigere un horror ad episodi, stavolta per la World Film Services e non per la Amicus Productions, vera specialista nel filone. La produzione era ambiziosa: furono ingaggiate Rita Hayworth, Joan Collins, Suzi Kendall oltre a Donald Pleasence e John Hawkins; un cast di tutto rispetto per il tipo di pellicola. E quando la Hayworth dovette rinunciare, si ripiegò su un’altra star hollywoodiana, Kim Novak, a testimonianza che non si voleva che l’opera perdesse un grammo di fascino. Naturalmente è difficile ipotizzare che un film ad episodi che si inseriva in un filone già abbastanza codificato, tra gli altri proprio da Freddie Francis, si potesse rivelare un capolavoro della settima arte, ma i presupposti per un risultato ragguardevole c’erano tutti. Le attese, purtroppo, vengono leggermente deluse anche se è innegabile che nella sua ora e mezza scarsa Delirious – Il baratro della follia si disimpegni senza troppa fatica; ma, come detto, siamo al minimo sindacale a dispetto degli altisonanti nomi assoldati. La cornice narrativa vede all’opera due studiosi, il Dr. Tremayne (Pleasence) e il Dr. Nicholas (Hawkins), con il primo che pare abbia scoperto una sorta di chiave della follia di quattro suoi pazienti: l’analisi dei casi in questione è il pretesto per mettere in scena gli episodi che vanno a comporre il film. Il capitolo con cui si comincia ricorda un racconto di Cronache Marziane di Ray Bradbury: qui un bambino ha come amica immaginaria una tigre che finisce per divorare i genitori del piccolo, rei di continuare a litigare tra loro. La famiglia, si sa, non è poi quel posto idilliaco se prendiamo come testimonianza gli horror inglesi degli anni settanta, e anche Delirious – Il baratro della follia non fa (in nessuno degli episodi) eccezione. Peraltro, il rimando ad un grande autore come Bradbury non è valorizzato a dovere, questo va chiarito senza indugio.
Il successivo episodio è una bizzarra e ironica storia in cui un quadro (che raffigura lo zio Albert) riesce a soggiogare Timoty (Pete McEnery) e a costringerlo a salire su un vecchio biciclo che è in realtà una macchina del tempo. La storia è anche curiosa ma si ricorda più che altro per lo spreco di Suzy Kendall che, pur avendo a disposizione un doppio ruolo (come del resto anche McEnery), nel presente e nel passato, non riesce ad incidere in nessuno dei due. Peccato capitale perché la Kendall lascia comunque intendere tutto il suo potenziale scenico. Questi due veloci segmenti narrativi lasciano ora il posto ai due episodi più corposi, che risolleveranno solo in parte le sorti di Delirious – Il baratro della follia.
Il titolo originale dell’opera è Tales that Witness Madness (letteralmente racconti che testimoniano la follia) e il significato appare chiaro nel capitolo che vede in scena Joan Collins. Per una volta che la splendida Joan interpreta una moglie tutto sommato devota e relativamente tranquilla, il marito le preferisce uno strano ceppo di un albero dalle vaghe sembianze femminee e che, naturalmente, si rivelerà dotato di una magica e malefica vita propria. Bella, nome quanto mai appropriato del personaggio della Collins, si ricorderà di che stoffa è fatta l’attrice che le dà vita e si presenterà sulla scena, al momento cruciale, armata di machete per sistemare l’orribile arbusto che il marito le ha piazzato nel salotto. Ovviamente il risultato dello scontro (non mostrato) sarà l’opposto di quello che qualunque persona sana di mente avrebbe previsto, d’altro canto si tratta di racconti che testimoniano la follia. Come appunto seppellire Joan Collins in giardino per andare a letto con un tronco di legno, soluzione con cui si ritrova lo sciagurato marito. L’ultimo episodio, potenzialmente il migliore e comunque quello più accurato, vede all’opera Kim Novak ed è un po’ troppo insolente nei confronti della star per convincere del tutto. Sembra in effetti evidente che la storia fosse prevista per la Hayworth, come riportano le cronache, che nel 1973 aveva 55 anni, e avrebbe dovuto interpretare il ruolo, poi andato alla Novak, di Auriol, disinibita agente letteraria.
Il punto è che Kimo (Michael Petrovich) il bel tenebroso che la donna crede un nuovo cliente e cerca di sedurre, forse per stipulare un buon contratto, le preferisce spudoratamente la figlia Ginny (Mary Tamm). D’accordo, la Tamm aveva all’epoca 23 anni mentre la Novak quaranta ma per una star del calibro di Kim, comunque ancora affascinante, è un affronto che si poteva anche evitare. Insomma, un altro passaggio che testimonia la follia di questa produzione, in un certo senso. Tuttavia poi la vicenda ha una sua coerenza, all’interno del filone horror esotico (riti, maledizioni, idoli, ecc.) ed è un ulteriore tocco bizzarro che la povera Ginny finisca per essere la pietanza con cui si festeggia in un cannibalesco banchetto finale. Nella cornice conclusiva Frances gioca un po’ a rimpiattino, con i due dottori che si rimpallando realtà e follia lasciando, purtroppo, l’idea che sia il classico finale ambiguo di routine. Ma sono quisquiglie, rispetto agli svarioni precedenti: comunque, rimpianti a parte, il film si lascia guardare.
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