1677_PROCESSES, Polonia, 2023. Regia di Andrei Kashperski
Presentata
in alcuni festival cinematografici come opera unica, Processes di Andrei
Kashperski è stata in precedenza una sorta di miniserie in quattro episodi
trasmessa dal canale Belsat TV. Qui è utile, anche per comprendere meglio il
film e le sue finalità, spendere giusto due parole per presentare questa
interessante piattaforma televisiva in lingua bielorussa: fondata nel 2007 in
collaborazione con la rete polacca Telewizja Polska e il Ministero degli Esteri
di Varsavia, Belsat TV <pagina web https://belsat.eu/79795897/пра-нас
visitata l’ultima volta il 26 ottobre 2024> propone un
palinsesto indipendente dal governo di Minsk e, verrebbe da dire «di
conseguenza», dal Cremlino. Le posizioni critiche nei confronti di Lukashenko,
presidente bielorusso, e di Putin, suo corrispettivo russo, nonché in proposito
all’invasione armata in Ucraina, hanno fatto finire Belsat TV all’indice sia di
Minsk che di Mosca. Nonostante ciò, l’emittente continua il suo lavoro e un’opera
intelligente e interessante come Processes è certamente un bel biglietto
da visita per questo atipico canale. Come detto, l’opera in questione si
compone di quattro episodi e si parte subito col botto: Fostering [si
utilizzeranno i titoli scelti dai distributori per l’edizione internazionale,
onde evitare equivoci con le traduzioni dall’originale; per questo primo
episodio, in italiano, il significato è Affidamento]
è un racconto spassoso, demenziale e terribilmente caustico. Nikolai (Andrei
Novik), un agente della OMON, la polizia antisommossa bielorussa, nello zelante
adempimento dei suoi doveri, cattura tre manifestanti che protestano contro la
guerra. Una volta arrivato al comando, gli comunicano che non c’è posto nelle
patrie galere e che deve quindi portarseli a casa e lì tenerceli per la durata
prevista dalla prigionia. Qui sorgono i problemi per Nikolai: che non sono però
connessi alla palese illegalità della cosa, al fatto che il suo appartamento
non sia certo spazioso come una reggia o che i suoi due figli piccoli si possano
trovare ad avere a che fare con tre sconosciuti in ambito domestico. Il punto
dolente è «Kitten»
(Valentina Gartsueva), ovvero la moglie del poliziotto, che, sul momento, non
sembra certo entusiasta, per usare un eufemismo, di trovarsi per casa i tre
manifestanti. È evidente che le premesse del soggetto siano in pieno
surrealismo e gli autori –Mikahail Zuy oltre allo stesso Kashperski– nello
svolgimento della trama, ne alimentino adeguatamente l’assurdità. Alcune
pennellate sono memorabili, a cominciare dalla paciosa donna che incita i
poliziotti a menar di manganello, nella scena iniziale, e poi ne diviene
vittima, assurdamente scambiata per una dimostrante. Oppure il mutamento di
opinione di Kitten, che prima mal sopporta i tre «ospiti» e poi coglie gli
aspetti vantaggiosi della situazione, facendoli sgobbare ai mestieri di casa. O
la curiosa e tenera amicizia che si stipula tra i tre, assai presunti,
facinorosi e i due figli della coppia, sebbene nella scena più assurda Kashperski
e Zuy si permettano perfino una sorta di autoironia che, data la situazione
bielorussa, è una doppia nota di merito. Si è detto di come la produzione
dell’opera sia parte di un movimento critico nei confronti del regime
totalitarista di Minsk e tutta quanta l’impostazione di Fostering –e di
tutto Processes, naturalmente– lo lasci palesemente intendere. In questo
senso i tre manifestanti sono, per deduzione, facenti parte di questo stesso movimento:
la natura non violenta e l’indole docile, evidenziano la loro differenza dalla
brutalità della milizia –ben incarnata da Nikolai, il protagonista– e anche
dalla più che opportunistica indifferenza di molti –che può essere colta nell’atteggiamento
di Kitten. Ad un certo punto, uno dei figli di Nikolai ha bisogno di essere
aiutato nei compiti scolastici; vista la difficoltà con attività che non siano
fisiche, il poliziotto ha la brillante idea di costringere uno dei manifestanti
a farlo al posto suo. Vuoi per la natura mansueta del giovane, vuoi per la
paura di prendere manganellate, vuoi per l’amicizia istaurata col bambino, in
ogni caso il nostro baldo giovanotto ben si presta al compito. Qui sembra
evidenziarsi quella diffusa e convinta «superiorità intellettuale» che
caratterizza le persone progressiste nei confronti dei beceri e reazionari difensori
dei poteri forti. Sennonché c’è in agguato la citata ironia degli autori:
difatti, proprio questi compiti saranno la causa di un sonoro voto negativo per
il ragazzino. Nikolai, furibondo, ricorre quindi al manganello per ringraziare
l’eppur volenteroso manifestante. Alla fin fine, il periodo di reclusione
termina, e i tre giovani vengono rilasciati dall’agente; ma l’episodio si
chiude con una scena sostanzialmente analoga a quella dell’incipit, se non
fosse che il poliziotto cattura una persona palesemente estranea a qualsiasi
–seppur legittimo– corteo di protesta. Come prima, peggio di prima: questa
sembra proprio un’affermazione che riassuma lo stato delle cose bielorusso.
Dreamed [Sognato, in italiano] è il terzo episodio e propone un’altra situazione assurda: tutti i funzionari di un non meglio specificato ministero governativo fanno lo stesso identico sogno, in continuazione, tutte le notti. Nel sogno, il presidentissimo, muore. Inizialmente, sembra una preoccupazione inconscia del solo Nikolai Ivanovich (Oleg Garbuz) ma, ben presto, si scopre che anche gli altri membri del ministero ne soffrono. Persino la segretaria, Yulechka, è tormentata dallo stesso incubo: tra i vari funzionari, si comincia a temere che si tratti di un sogno profetico. A Nikolai e ai suoi collaboratori appare chiaro che si tratti di un attacco della propaganda occidentale, ma occorre chiarirsi meglio le idee per decidere il da farsi. Il sogno, una volta condiviso tra i vari membri del ministero, viene meglio definito: ci sono fiori, del resto c’è un funerale, e, soprattutto, piove. Una bizzarra coincidenza legata ad una prossima celebrazione nazionale convince tutti quanti che il sogno sia davvero una premonizione: il presidente, la Prima Persona, morirà proprio in quell’occasione. Ma che fare? Avvertirlo del pericolo? Adducendo ai sogni profetici come fonte di informazione? Sarebbe come ammettere di essere spie al soldo del nemico. Allo stesso modo sarebbe rischioso farsi trovare nei paraggi durante la celebrazione, se capitasse qualcosa di brutto al presidente. Yulechka fa notare che nel sogno piove e, secondo le sue esoteriche conoscenze sulle interpretazioni dei sogni, la pioggia significa cambiamento. Forse poteri superiori sono al lavoro e ai nostri funzionari non resta che assecondarli: e, sorpresa, la cosa non sembra poi dispiacere molto a Nikolai e colleghi. Arriva il fatidico giorno: una scusa sull’emergenza epidemiologica ha giustificato la loro assenza, e così, mentre il presidente va incontro al suo destino, i nostri si preparano a festeggiare degnamente la sua prevista dipartita, non prima di aver registrato una confessione in cui denunciano le atrocità del regime e la loro ferma opposizione ad esso. Stappato lo spumante, sono pronti a brindare al nuovo corso, quando finalmente giunge Yulechka con l’atteso comunicato stampa. Dal quale, tuttavia, si apprende che il sogno non era affatto profetico. Il presidente, felice dell’ottima riuscita della celebrazione, ringrazia tutti i presenti; e anche gli assenti.
La guerra, finora, è stato un tema appena sfiorato, dal film –si sentono alcune grida dei dimostranti, all’inizio del primo episodio– ma per il resto la graffiante ironia di Processes è stata rivolta al governo di Minsk e ai suoi apparati di potere, la polizia antisommossa, il servizio segreto o i ministeri pubblici. Eppure la guerra, nello specifico quella russo-ucraina, coinvolge direttamente il popolo bielorusso in un sanguinoso conflitto in cui, da quelle parti, è ancora più arduo orientarsi. Anche perché, almeno se diamo retta a Program schedule [in italiano, Programma orario] in Bielorussia non si parla della guerra; logico visto che non c’è nessuna guerra. Almeno stando all’informazione di regime, che è l’unica messa ufficialmente disposizione dei cittadini. E, quindi, figuriamoci se i militari bielorussi possano venire coinvolti in qualcosa che nemmeno esiste. Impossibile; o no? Zoya (Yana Troyanova) riceve una telefonata da suo figlio: strano, il ragazzo è all’esercitazione militare. La comunicazione cade immediatamente ma Zoya fa in tempo ad udire alcuni scoppi. I rumori della guerra? La donna prova a richiamare, ma il telefono del figlio non è più raggiungibile. Che siano vere le voci che si sentono sussurrare in giro? Che davvero i ragazzi bielorussi siano mandati a combattere in una guerra di cui ufficialmente si nega perfino l’esistenza? Zoya è una commessa ma, turbata com’è da questo pensiero, comincia ad essere meno efficiente sul lavoro e confida alla bizzarra collega le sue preoccupazioni. Poi ha la malsana idea di telefonare ad un programma televisivo per cercare aiuto o informazioni a proposito di suo figlio. La sua richiesta ha come primo risultato una sinistra ispezione da parte di due ragazze mandate dall’autorità. In seguito, Zoya viene invitata a partecipare al programma televisivo citato: una trasmissione surreale ma, in fin dei conti, nemmeno troppo diversa dalla classica televisione spazzatura che si può vedere al pomeriggio sui nostri canali. E la donna sembra rientrare nei ranghi: ora è convinta non solo che la guerra sia un’invenzione, ma pure che suo figlio lo sia. Il finale, naturalmente, considerato la natura di Processes, rimescola di nuovo le carte, con Zoya che si trova a tu per tu con Nikolai, l’agente della OMON del primo episodio, per una sorta di «ricominciare dal principio», quasi fossimo al gioco dell’oca, ma con alcuni presupposti diversi. Stavolta la polizia antisommossa rimane a mani vuote, Zoya rompe la cortina –di cellophane!– e sparisce, non prima di aver infilato una specie di spillone in un occhio a Nikolai.
La guerra è un altro elemento che –seppur in modo indiretto e mai realmente messa sullo schermo– alimenta la circolarità della trama: le prime parole che si odono nell’episodio che apre Processes sono “no alla guerra” gridate dai manifestanti e nell’ultimo il tema è il tentativo del regime bielorusso di negarne l’esistenza. Per la verità non si può sapere quanto siano pianificati, questi dettagli, dal momento che l’opera venne trasmessa originariamente come serie televisiva e non come lungometraggio diviso in episodi. In ogni caso, l’impressione complessiva è quella di un mondo chiuso che ristagna perennemente nella medesima condizione. Ad alimentare quest’idea ci sono i personaggi e le situazioni ricorrenti trasversalmente ai vari episodi: ad esempio, Nikolai, inteso sia come il poliziotto della Omon, sia come nome, curiosamente comune anche al funzionario protagonista del terzo; la giudice che si interrompe per bere mentre legge la sentenza di condanna; le mani che si sporcano d’inchiostro; i personaggi che dormono sul pavimento, accanto al letto; i bizzarri cappellini fioriti della commessa in Program schedule o il refrain di ripetere da quanto tempo si conoscono tra loro i protagonisti di Dreamed. Tra le scene che incarnano il versante assurdo dell’opera si può citare poi quella della sala fumatori, in quest’ultimo episodio: Nikolai sta discutendo con un collega e vediamo che sono seduti ad una certa distanza. Il collega è nervoso, per via dei sogni ricorrenti, e non riesce ad accendersi la sigaretta: Nikolai, stando seduto, allunga il braccio con l’accendino e, a sorpresa, riesce ad arrivare fino alla sigaretta del collega! L’immagine successiva chiarisce che Nikolai è ancora seduto al suo posto. Nel montaggio di questa piccola sequenza è racchiuso non solo il senso dell’episodio ma di tutto Processes e, addirittura, della situazione bielorussa: si fa finta di niente, si assembla il filmato come fosse tutto normale, senza curarsi che la situazione non lo è affatto. È un passaggio assurdo, Nikolai non può accendere la sigaretta del collega stando seduto a tre quattro metri di distanza; ma la cosa più assurda è che il filmato cerchi –e, in buona sostanza, riesca, perché l’incongruenza, per lo spettatore, non è così clamorosa– a spacciare la cosa come credibile. Più che le visite domestiche di sorridenti ma inquietanti funzionarie dell’autorità, della suadente dialettica delle presentatrici televisive, del brutale zelo della OMON, della persuasiva «cordialità» degli agenti del KGB, ad incarnare al meglio la propaganda di regime d’oltrecortina è la spudorata capacità di fingere ciò che non è possibile fingere. Al punto che, per averne ulteriori conferme, basta guardare un qualunque social network e cercare quelli che –nei nostri lidi, tra i nostri «contatti»– fanno proprie questa improbabili e surreali bugie per smentire la propaganda occidentale. Da cui si può ben desumere che l’assurdità di Processes non è solo specchio della situazione bielorussa.
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