452_OMBRE BIANCHE (The Savage Innocents); Francia, Italia, Regno Unito, 1960. Regia di Nicholas Ray.
Generalmente inteso come il primo segnale del declino del
regista Nicholas Ray, Ombre Bianche è
in effetti un film irrisolto. Coadiuvato in regia da Baccio Bandini, per alcune
riprese in esterni girate in Canada di cui, per altro, pare che la maggior
parte andò perduta, Ray si propone un progetto assai ambizioso. The Savage Innocents, questo il titolo
originale dell’opera, è un film d’avventura ambientato tra i ghiacci artici e
ha come protagonista Inuk (Anthony Quinn: eschimese improbabile ma prestazione
efficace). Si intuisce il tentativo di riequilibrare, o di valutare con occhi
nuovi, il rapporto tra selvaggi e colonizzatori, laddove i primi erano le
popolazioni primitive ed ingenue e i secondi erano i rappresentanti del mondo
occidentale, prevalentemente incarnanti lo spirito anglosassone. E questo, al
cinema, non può che far venir in mente l’epopea del Far West. In effetti gli
eschimesi sono considerati parte del popolo dei nativi americani e quindi una
certa analogia con il genere western si può imbastire. Spostare il terreno
d’azione fuori dai confini tradizionali del genere, unitamente ad altre
significative differenzazioni, sembrano indizi che ci dicono che Ombre bianche (titolo italiano che, per
una volta, funziona nel suo ricordare il celebre capolavoro di John Ford, Ombre rosse) è però una sorta di western
alternativo. Gli inuit in luogo dei
pellerossa, le distese artiche al posto delle praterie, mentre, in fondo, i
canadesi, predicatori o agenti di polizia che siano, sono gli stessi visi pallidi della conquista del west.
Che Nicholas Ray può riscrivere dal principio, visto che gli eschimesi non
conoscevano ancora l’uomo bianco.
E’ qui che il regista, probabilmente, azzarda
un paragone che finisce per funzionare poco ed inficia la resa complessiva del
film. La figura del giovane inesperto, ingenuo, puro, già vista più volte nelle
opere di Ray, è qui destinata a Inuk che non è però un personaggio credibile
(già Quinn non aiuta, in questo, non assomigliando in nulla ad un eschimese),
quanto un simbolo di un intero popolo. Allo stesso modo le controparti bianche, specialmente il predicatore, (mentre l’agente
interpretato da Peter O’Toole sembra meno grezzamente stilizzato) sono figure
monodimensionali se non poco credibili, certamente non interessanti nella loro
completa ottusità.
La stilizzazione delle figure, funzionale quando si resta in
ambito individuale, rischia di produrre meri stereotipi se viene proposta per
rappresentare interi popoli o culture. E’ infatti qui che Ombre bianche segna il passo: la contrapposizione tra il buon selvaggio, l’ingenuo Inuk, e
l’arrogante e supponente predicatore (Marco Guglielmi) è eccessivamente
schierata a favore del primo. Cioè, lo è da un punto di vista narrativo, per
essere ancora interessante nel 1960; per assurdo è possibile che non sia poi
così distante dalla realtà storica ma, rappresentarla all’alba degli anni
sessanta, sembra piuttosto una faziosa, e per la verità un po’ infantile,
difesa oltranzista delle ragioni dei nativi contro ogni realistica,
approfondita e sfaccettata, ricostruzione degli avvenimenti. Curiosamente, in
questo senso, i toni scelti da Ray anticipano la moda dei controwestern, che raggiungeranno uno degli apici con Soldato Blu (regia di Ralph Nelson), dieci
anni più tardi. In questi film, per criticare la politica bellica americana in
Vietnam, si raccontò l’epopea western con una divisione manichea tra buoni e
cattivi come non si vedeva da decenni ma, cosa cruciale, con i ruoli
completamente ribaltati: gli indiani erano i buoni e i bianchi i cattivi. Che
poi, in buona sostanza, era anche la visione più prossima alla verità di ciò
che accadde, se vogliamo dare un carattere etico e morale alla Storia.
I
bianchi invasero di fatto le terre abitate dai pellerossa, provando,
riuscendoci, ad imporsi sul territorio, sia fisicamente che culturalmente. Che
peraltro è quello che avviene normalmente durante una conquista, ed è quello
che, in parte, racconta Ray nel suo Ombre
bianche, anche se, a vederlo oggi, sembra un tantino troppo semplicistico.
In questo senso il film del regista americano paga un po’ il suo essere ingenuo, nel raccontare banalmente quello
che accadde per sommi capi, mentre lo spettatore moderno ha forse bisogno di
trovare torto e ragione maggiormente frammentati, e non sbilanciati a senso
unico come nel caso di Ombre bianche.
E’ però un peccato che tale aspetto vanifichi, almeno in parte, il lavoro di
Ray, che invece era molto valido e degno di nota sotto molti altri punti di
vista. Innanzitutto è da lodare la stessa idea di mettere al centro dell’opera un
popolo in genere ignorato e di esaltarne alcune peculiarità non solo
pittoresche ma, soprattutto, molto interessanti: dal linguaggio che non prevede
l’uso della prima persona, all’incapacità di comprendere il concetto di
menzogna. E poi la messa in scena di Ray è eccellente, al di là di qualche
scena girata palesemente coi trasparenti; probabilmente a causa del fatto che alcuni
degli esterni girati da Bandini in Canada finirono in mare insieme all’aereo
che li trasportava. Ma nel complesso la cura formale è notevole, ad esempio
l’uso del colore in un paesaggio dominato dal bianco, come anche il modo in cui
il cinemascope venga esaltato dalle distese orizzontali ghiacciate dell’artico.
In un film con un cast ridotto all’osso, le figure femminili hanno un discreto
spazio: tra queste va ricordata soprattutto Yōko Tani che interpreta Asiak, ragazza simpatica e
acuta oltre che carina, scelta da Inuk dopo un eccessivo cincischiare. Pare
invece che nei panni di sua madre Hiko, una coraggiosa vecchietta, ci sia solo
un’omonima della leggendaria star cino-americana Anna May Wong (ma l’interprete
chiamata in causa fornisce per altro una prestazione affidabile). L’opera ha
alcuni limiti, questo va riconosciuto, del resto è una produzione anglo, italo
francese e, pur essendo tre scuole di primissimo livello, la capacità
organizzativa hollywoodiana, in un film da girare in ambiente ostile, non
poteva essere certo eguagliata facilmente. Però, forse, il limite maggiore dell’opera
è, come detto, nello spettatore: troppo smaliziato, per credere ad un eroe
onestamente ingenuo come Inuk. O ad un regista ingenuamente onesto come Ray.
Yōko Tani
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