436_FOGLIE D'AUTUNNO (Autumn Leaves); Stati Uniti 1956. Regia di Robert Aldrich.
Nel 1956 la Columbia Pictures cerca di
rilanciare Joan Crawford, diva del cinema che, anche per motivi d’anagrafe,
sembra aver perso l’abbrivio dei tempi migliori. La Craword , al tempo, aveva
superato la cinquantina e poteva contare una carriera sterminata alle spalle,
oltre settanta titoli. A dirigerla in Foglie
d’autunno (questo il film che lo studio della Torch Lady mette in cantiere per il suo rilancio) trova un regista
nemmeno quarant’enne e con solo sei regie all’attivo. Ma si tratta di un tipo
tosto; e non così inesperto, visto che ha già partecipato come aiuto regista ad una trentina di film, e
nella manciata delle sue pellicole ha
diretto gente del calibro di Gary Cooper e Burt Lancaster. Il suo nome è Robert
Aldrich, e la sua carriera lo confermerà come uno dei migliori di sempre. Come
detto, il giovane regista aveva già avuto a che fare con attori di primissimo
livello, ma la Craword
era oggettivamente un’altra cosa. Forse, al tempo, trovarsi alle prese con una
diva di quel calibro lo fece sentire come trovarsi di fronte all’incarnazione
stessa del cinema. Perché, con la sua proverbiale autorevolezza dietro alla
macchina da presa, Aldrich trasforma una romantica storia d’amore vagamente sdolcinata,
in un’opera metalinguistica con la quale fa una sorta di manifesto
programmatico del suo cinema. La storia prevede Milly, una zitella quasi
sfiorita, ma ancora piacente (la
Crawofrd , ovviamente) che si innamora di un uomo molto più
giovane, Burt (un allucinato Cliff Robertson).
Su questo canovaccio Aldrich
innesta una serie di sterzate metalinguistiche che lasciano spiazzato lo
spettatore: se il tono della prima parte è decisamente da storia sentimentale,
in un secondo momento ne tinge la trama di melodrammatiche tinte forti, incestuose
e morbose, per poi virare bruscamente sul thriller, con passaggi di violenza
davvero imprevedibili all’inizio. In mezzo a tutto ciò ci sono anche sporadici
riferimenti ancora di natura metalinguistica: dall’abitazione di Milly in Hollywood Boulevard, al cinema dove
proiettano L’uomo di Laramie, al
cartone animato dell’intervallo dello stesso film, al lavoro di dattilografa
della protagonista che ricorda una possibile collaboratrice alla stesura di
soggetti cinematografici, fino all’uso della musica che, nella bella canzone Autumn Leaves di Nat King Cole, è sia elemento narrativo del
racconto filmico che colonna sonora dell’opera.
Nella natura dei due
protagonisti, Milly e Burt, e soprattutto nei loro alter-ego metalinguistici,
troviamo forse la chiave di lettura di questo Foglie d’autunno. Il cinema classico, quello della grande
Hollywood, si approssimava, dopo la metà degli anni 50, ad una sorta di viale
del tramonto. Del resto Viale del
tramonto, il meraviglioso film di Billy Wilder era addirittura del 1950, e
anche lì come protagonista c’era una diva del cinema dei tempi andati, Gloria
Swanson. Aldrich prende la
Crawford , un’altra incarnazione del cinema classico e,
calandosi nei panni del protagonista maschile più giovane di lei, il Burt
interpretato da Cliff Robertson, le chiede fiducia.
Con Foglie d’autunno è come se Aldrich chiedesse al vecchio, classico e
un po’ stanco cinema hollywoodiano un atto di fiducia. Il tema della fiducia di
Milly in Burt è centrale nel film ed è anche molto bello, perché si può vedere
cosa davvero significa il termine. Spesso si fraintende il senso di ‘aver
fiducia in qualcuno’, perché lo si usa quando l’oggetto della fiducia è
talmente affidabile che non si tratta più di fiducia ma di semplice
costatazione della’affidabilità di questi. Al contrario si può parlare di
fiducia quando questa è contro le apparenze: quella è vera fiducia. O quella
che Milly decide di avere in Burt, un tipo dal temperamento spesso sopra le
righe, violento, ma certamente vitale e necessario per dare una scossa al
rassegnato declino della donna.
Come la brutale ma energetica forza di Aldrich farà con il
cinema hollywoodiano.
Joan Crawford
Vera Miles
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