439_LA LEGGE DEL PIU' FORTE (The Sheepman); Stati Uniti 1958. Regia di George Marshall.
Il titolo originale di La
legge del più forte è The Sheepman,
qualcosa che, in slang americano,
suona più tipo il pecoraio piuttosto
che il pastore (termine che in
inglese è infatti sheeperd). In ogni
caso, essendo un western, salta subito all’occhio quanto questa professione sia
fuori posto: la frontiera è terra di bovini e le pecore sono sempre state
malviste. George Marshall, il regista, è però autore versatile, a suo agio con
le commedie e i film comici tanto quanto con i temi avventurosi. E in questo
caso il suo intento è evidente sin dal titolo, ovvero l’utilizzo dello scambio di posto, uno stratagemma tipico
della commedia, che condizionerà tutto il clima
del lungometraggio. Che ci fa infatti un pecoraio nel far west, viene da
chiedersi? La risposta è materiale buono a Marshall per farci il film. Pur se
il tono della storia non è certo troppo serio, nel west effettivamente ci fu il
problema della convivenza tra ovini e
bovini, con i primi che ostacolavano il più diffuso allevamento di vacche. In La legge del più forte non sono però approfonditi
questi temi: quello che Marshall sfrutta è la cattiva reputazione degli
allevatori di pecore nella frontiera per mettere pepe nella sua storia. E’ un
semplice pretesto narrativo, anche perché lo stesso Jason Okay, lo sheepman interpretato da Gleen Ford, non
è un allevatore di pecore convinto, anzi. E’ un pistolero e deve saldare un
conto in sospeso, forse proprio col suo vecchio compare Johnny (Leslie
Nielsen), che ora ha cambiato nome e si fa chiamare colonnello Stephen Bedford,
spacciandosi per cittadino ricco e rispettabile.
Glenn Ford è uno dei migliori
interpreti western di Hollywood, per cui la vicenda si dipana anche tra passaggi
che sono credibilmente seri: del resto l’impostazione generale, dalla
fotografia alla colonna sonora, è da western classico. Tuttavia, per connotare
ulteriormente in modo anomalo la storia, viene aggiunto un tocco di rosa, nella
spumeggiante figura di Shirley MacLaine (deliziosa) nei panni di Dell Payton.
Dell è la fidanzata del colonnello ma, come prevedibile, dopo le peripezie di
rito, darà vita all’inevitabile flirt con il nostro protagonista. Le forze
centrifughe, rispetto ad un lineare e serio film d’avventura, sono quindi molte
ma la bravura di Marshall è proprio nel dosarle per mantenere la barra del
racconto sempre in una sua coerenza interna.
Il protagonista è il tipico eroe
western che sembra essersi preso una sorta di vacanza: è un cowboy convinto, ma
ha vinto il gregge di pecore a poker e allora lo usa a pretesto per scombinare
la vita agiata che il suo vecchio amico John, ora sedicente colonnello, si sta
spassando. Gli stereotipi delle piccole comunità sono qui dipinti in modo
farsesco: c’è il tipo che pensa di essere sempre il più furbo (Edgar Buchanan è
Milt, venditore di cavalli), c’è il classico bullo un po’ tonto (Mickey
Shaughnessy è Jumbo) e c’è anche il messicano da film comico (Pedro Gonzalez
Gonzalez è Angelo, il vero pastore).
Queste macchiette
danno il cambio al colonnello o alla dolce Dell nella funzione di sparring partner al protagonista che,
mantenendo il centro del ring, con la sua statura
da eroe classico riesce ad ingannare
lo spettatore, almeno per il tempo necessario a godesi lo spettacolo. Anche se,
con un curioso incipit, Marshall mette subito le cose in chiaro: è finito il
tempo del Far West e ci avviamo in
quello della commedia se non addirittura della farsa. Il film si apre, infatti,
su un carretto che porta via, verso lo sfondo dello schermo, un’indiana,
proprio mentre arriva un treno. Il western classico, quello che verteva sulla
conquista del west a danno degli indiani, è finito; ora dal treno scende un
tizio, il nostro sheepman che, lungi
dall’essere agghindato da pastore è, al contrario, ben vestito e provvisto di
una elegante borsa che, tra l’altro, non ha nulla a che vedere nemmeno con il classico
bagaglio del cowboy (la sella del cavallo).
Sembra piuttosto una borsa da
signora, visto che è in tessuto ricamato. E’ quindi finita l’era del west,
sebbene Jason dimostri di saperci ancora fare, spadroneggiando in preventivo, sbertucciando il furbo del
paese o pestando in modo pretestuoso il bullo. A detta sua, lo fa a priori,
sapendo che poi verrà osteggiato per via delle pecore e, essendo da solo contro
un’intera comunità, si prende almeno il vantaggio dell’attacco a sorpresa. Il
film è volutamente semiserio, lo si è detto, ma questo, la scorrettezza di
attaccare l’avversario (sia anche un intero paese) senza preavviso, si unisce
ad altri segnali poco edificanti. Ad esempio, sia Jason che il colonnello,
ammettono reciprocamente che, ai bei tempi, in piena era del mitico selvaggio west, non si presentarono al
duello che li doveva mettere di fronte. E dire che entrambi pensarono vicendevolmente
che l’altro si fosse presentato, invece il luogo dello scontro andò deserto.
Non una grande figura, in fatto di coraggio ed onore, per quelli che
apprendiamo essere due prodi pistoleri, al di là delle attuali apparenze di
signorotto locale e finto pecoraio. E poi, oltre alla doppiezza generale, ivi
compresa quella dolorosa (per lo
spettatore) di Dell che si presta ad un vile inganno ai danni di Jason, è
assolutamente ridicola e marginale la figura dello sceriffo. Insomma, il film è
una mezza farsa, ma funziona per
davvero. E le stoccate lasciano anche qualche segno.
Shirley MacLaine
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