445_INNO DI BATTAGLIA (Battle Hymn); Stati Uniti, 1957. Regia di Douglas Sirk.
Nel 1957 Douglas Sirk era nel suo periodo d’oro del
melodramma e questo si ritrova anche in opere apparentemente poco conciliabili
con il tenore tipico dei melò: è il caso di Inno
di battaglia, film bellico e biografico ambientato durante la Guerra di Corea. La vicenda
vera raccontata è quella dell’eroe Dean D. Hess, colonnello dell’aviazione
militare americana passato alla storia per aver salvato quasi mille piccoli
orfani sudcoreani. Il militare, sullo schermo interpretato da Rock Hudson,
soffriva di pesanti sensi di colpa per aver bombardato un orfanotrofio tedesco
(per errore, naturalmente), durante la seconda guerra mondiale. Si era fatto
quindi pastore protestante ma, allo scoppio della guerra in Corea, ritiene di
dover andare al fronte per espiare compiutamente il suo errore. Come si vede
gli eventi fortemente emozionali sono già più d’uno: il bombardamento
dell’orfanotrofio, i tormenti interiori di Hess, le disavventure occorse ai
piccoli coreani, il tutto nel bel mezzo di una guerra. Sirk, che era perfetto
con il suo stile melodrammatico nell’incendiare la vita borghese di tutti i
giorni, alzandone i toni per stilizzarne la messa in scena, in un contesto già
così intriso di pathos non funziona altrettanto bene. Se da una parte prova a
sorreggere la vena lirica con i canti religiosi che sembrano svolgere anche da
inni bellici, (lasciando forse intendere la missione pacifica di Hess come una
sorta di una guerra alla guerra),
dall’altro lato Sirk cerca di stemperare l’eccesso di sentimentalismo con
l’umorismo, deputato al ruolo del sergente Herman (Dan Dureya).
Se in questo
aspetto il sottoufficiale riesce a cavarsela, grazie anche alla sponda offerta
dalla simpatia dei piccoli orfanelli, tra i quali si distingue il paffuto Chu,
più controverso è il concetto pacifista che cerca di interpretare Hess.
Dapprima il suo ruolo dovrebbe essere solo quello di istruttore, con il divieto
di impegnare battaglia col nemico, per non sprecare i preziosi aeroplani
destinati ad istruire i piloti sudcoreani; poi il colonnello si cimenta
nell’istituzione di una specie di orfanotrofio e in seguito addirittura nel
trasferimento di tutti i bambini dell’improvvisata struttura in un’area sicura.
Ma si trova comunque in zona di guerra e, anche se è fermamente deciso a rispettare
gli ordini e non partecipare attivamente agli scontri, ad un certo punto il
conflitto finisce per coinvolgerlo. Hess, tra l’altro, nella seconda guerra
mondiale, era soprannominato Killer,
per la sua abilità nell’abbattere i nemici: così, eccolo di nuovo in sella al
suo P51 Mustang, per alcune sequenze
belliche di grande impatto scenico. Su questa traccia narrativa, oltretutto,
c’è il rapporto con il vecchio commilitone, il capitano Skidmore (Don DeFore)
che non si capacita di come il vecchio Killer possa essere diventato pastore
protestante nella vita civile. Poi c’è anche un intreccio sentimentale, per
altro solo platonico, con la dolce En SonnYang (Anna Kashfi) ragazza coreana
che bada ai piccoli orfani; il problema è che Hess è sposato con Mary (Martha
Hyer) e, proprio mentre è al fronte, apprende che la donna è in dolce attesa.
Insomma, una trama troppo articolata, d’altronde si basa su una biografia e non
su un copione scritto ad hoc per il
cinema. Tuttavia, a questo punto, i risvolti intensi della vicenda
cominciano a essere troppi per il solo protagonista: il ritorno in guerra, la
crisi di coscienza come pastore dopo quella avuta come militare, i bambini da
salvare, l’amico con lo riconosce più come il killer dei cieli, la moglie a casa ad aspettare, la ragazza
coreana, il figlio in arrivo, l’amico che muore in battaglia… Va detto che
Sirk, pur mantenendo la sua cifra stilistica melodrammatica che alimenta
ulteriormente il tenore della storia finendo per andare un po’ fuori giri, riesce comunque a cavarsela perché il film
nel complesso è godibile. Ma, visto il contesto, di più era davvero difficile
chiedergli.
Anna Kashfi
Martha Hyer
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