451_RULLO DI TAMBURI (Drum Beat); Stati Uniti 1954. Regia di Delmer Daves.
A Delmer Daves dobbiamo la regia di L’amante indiana (1950), quello che viene spesso considerato il
primo film di successo che dava spazio anche alle ragioni degli indiani nella
controversa conquista del west. E non
è un merito da poco, visto che, incautamente, per troppi la svolta filo indiana
del genere western avvenne solo con la
corrente revisionista degli anni 70. Al
contrario, il successo di L’amante
indiana fu significativo, tanto che già nei successivi anni 50 si sprecano
gli esempi di film che ristabilirono ragioni e torti bilanciandoli a favore
delle popolazioni native. Tuttavia Daves, solo quattro anni dopo il suo film spartiacque, aveva già in serbo un’altra
sorpresa. E’ infatti il 1954 quando scrive il soggetto, sceneggia, coproduce e
infine dirige Rullo di tamburi, già
eccellente come western ma che merita il titolo di capolavoro per la maturità
di cui è intriso. Qui gli indiani non sono più né buoni né cattivi ma
unicamente una delle parti in causa. Il personaggio di Capitan Jack, storico
leader della tribù Modoc, interpretato da un Charles Bronson forse nella sua
migliore interpretazione, è davvero memorabile. Non è un eroe positivo, proprio
per nulla, anzi. Sembra piuttosto una sorta di criminale, ma ha certamente una
sua coerenza che gli merita il rispetto del protagonista ufficiale del film, Johnny MacKay (Alan Ladd). Questi è il classico
eroe western, svelto di mano e di pistola ma, in questo caso, costretto dalla
Storia (che gli parla nelle vesti del presidente degli Stati Uniti), a deporre
le armi e cercare una soluzione pacifica alla questione indiana.
C’è, e qui potrebbero insorgere delle criticità
nell’opera, una eccessiva idealizzazione della nazione americana, con il
presidente Grant (Hayden Rorke) e tutti i politici e gli ufficiali coinvolti,
dipinti come uomini di buon senso e pacifisti. Ma, da questo punto di vista,
forse Daves fa un’operazione consapevole tratteggiando una nazione non come è
nella realtà ma come dovrebbe essere da un punto di vista teorico. L’arrivo di
Johnny a Washington, i bambini di colore che giocano fuori dalla Casa Bianca, il militare nordista,
mutilato di guerra, che li osserva benevolo, l’assoluta mancanza di ostacoli,
barriere o formalità burocratiche per conferire con il Capo dello Stato a stelle e strisce, infine MacKay, il cacciatore
di indiani vestito da cacciatore di indiani, che viene accolto nel salotto
buono dal presidente Grant e dai suoi famigliari a discutere amichevolmente:
può essere ritenuta una sequenza credibile? C’è una didascalia, ad inizio
pellicola che, nel reclamare una generica attendibilità complessiva del
racconto, ammette alcune imprecisioni storiche, per finalità narrative: forse la
sequenza iniziale descritta è una di quelle. Ma più in generale dovremmo dire
che a non rispettare una ricostruzione credibile dei fatti sono tutte quelle
inclinazioni positive sparse a piene mani da Daves, prevalentemente sul versante bianco ma non negate nemmeno ai
Modoc.
In questo film sembra infatti che l’opinione politica ufficiale degli
Stati Uniti, dalla presidenza ai generali dell’esercito, voglia risolvere la questione indiana pacificamente; anche tra
i Modoc c’è chi, come la dolce Toby (Marisa Pavan) o il valoroso e mite Manok
(Anthony Caruso), vuole far cessare le ostilità, ma sembrano poco numerosi. C’è
quindi uno sbilanciamento, in quanto sembra che la pace sia un obiettivo che
prema maggiormente ai bianchi piuttosto che agli indiani: il che potrebbe
essere anche un fatto storicamente credibile, visto che nel 1872, anno di
ambientazione degli eventi, i pellerossa in questione erano già stati confinati
nelle riserve e l’accettazione dello status
quo era perciò logicamente allo stesso modo sbilanciato a favore degli
occupanti. Del resto Capitan Jack non fa che ripeterlo: egli vuole per se tutta
la valle del Lost River che, se possono essere vere tutte le osservazioni di
natura pratica che Johnny cerca di fargli comprendere (dai trattati stipulati,
al lungo lasso di tempo che vede i coloni aver occupato queste terre), nessuna
di queste può smentire il fatto che per lo stile di vita dei nativi quello
spazio sia indispensabile. La figura di Capitan Jack assume via via, nel corso
del lungometraggio, una tridimensionalità insospettabile all’inizio: bellicoso,
violento, scaltro, poco incline al rispetto delle regole (anche a quelle
morali, si veda la questione della divisa e delle medaglie al valore usurpate
agli ufficiali uccisi), ha però una sua forte coerenza interiore.
Di fronte al
patibolo che lo attende, non si preoccupa della propria vita ma nemmeno ripensa
con rimpianto alle scelte dissennate che lo hanno portato a quel punto. E’ anzi
orgoglioso di aver dato battaglia agli invasori bianchi, ma rispetta il valore
di Johnny: addirittura si offre di raccomandarlo al Dio degli indiani per
consentire, quando sarà il momento, al suo valoroso nemico bianco il libero
accesso a quello che, secondo i suoi convincimenti, è il paradiso esclusivo dei
pellerossa. Non è che Daves stia
ritirando la mano dopo aver tirato il sasso, ovvero edulcorando un po’ il
finale per non far sembrare il suo film troppo critico con gli indiani. Questo
modo semplice di tratteggiare la psicologia di Capitan Jack, che forse non è
nemmeno troppo distante dall’essere credibile, serve a far comprendere
l’estrema difficoltà nella quale si trovarono le popolazioni native al cospetto
dell’invasione bianca. Abituati a risolvere in modo sbrigativo le controversie,
visto che l’enorme spazio a disposizione permetteva la convivenza non
necessariamente del tutto pacifica, i pellerossa furono travolti dall’arrivo
dei bianchi che li misero di fronte a problemi irrisolvibili se affrontati
seguendo il pensiero indiano. In questo senso non sembra affatto fuori posto
l’ottusità di Capitan Jack che rivuole la sua valle oppure una guerra totale;
Toby e Manok si dimostrano più ragionevoli, perché sembrano essersi evoluti nel
senso di un’integrazione coi bianchi, la ragazza addirittura vorrebbe sposarsi
con Johnny. Ma si tratta di un’evoluzione forzata, si potrebbe ferocemente
ironizzare dicendo obtorto collo,
pensando appunto a Capitan Jack appeso alla corda della forca. Come si vede, il
nodo più spinoso di Rullo di tamburi,
ovvero l’ottica in cui è vista la questione
indiana, non è affatto così scontato come può apparire a prima vista.
E’
però da un punto di vista prettamente cinematografico che Daves si supera.
Girato in uno sontuoso CinemaScope in
cui il regista sfrutta ogni angolo dello schermo per far sbucare i Modoc
minacciosi durante le scene di battaglia, incendiato dai colori WarnerColor immersi nella luce calda
dell’Arizona (anche se il film è ambientato in Oregon), Rullo di Tamburi è un western classico formalmente impeccabile.
Daves illumina le rocce assolate e le nuvole di polvere delle distese
desertiche del southwest americano e,
accompagnato da un classico ed evocativo commento sonoro opera di Victor Young,
imbastisce una vicenda dalla trama ben strutturata. Al di là dell’evidente
scorrevolezza del testo, immancabile in ogni western hollywoodiano dell’epoca,
Daves imposta la sua storia in modo preciso e calcolato. Un indizio di questo
suo lavoro ce l’abbiamo subito: il film si apre (e si chiude) su una fila
ordinata di indiani a cavallo. La cavalleria dell’esercito americano è uno dei
miti assoluti del cinema hollywoodiano (si pensi alla trilogia fordiana) ma Daves dedica inizio e fine
del suo Rullo di tamburi agli indiani
a cavallo. Le note della canzone sui credits
di testa e i tamburi modoc, evocati anche dal titolo dell’opera, alimentano la
marzialità di questa scena. E questa ribalta concessa due volte agli indiani è
già un forte segnale di rispetto e ammirazione per i nativi americani di per sé
stesso.
Se gli indiani a cavallo vengono quindi esaltati, di contro, nel film,
le giubbe blu andranno alla carica a piedi, con un ribaltamento dei ruoli
simbolico nel quale il regista sfrutta a dovere un dettaglio storico. Pare
infatti che nella caccia a Capitan Jack le truppe americane non poterono usare
i cavalli per via della natura sconnessa e impervia del terreno. Daves sembra
quindi ribaltare i canoni classici del cinema western: indiani a cavallo sui
titoli di testa, giacche blu alla carica a piedi. L’impostazione generale della
questione riprende, almeno sommariamente, questa specularità: tra gli indiani,
che sono prevalentemente ostili, si distinguono pochi (Toby e Manok) dagli
intenti pacifici. Al contrario la collettività bianca anela la pace (dal
presidente in giù), salvo Johnny (che di professione fa il cacciatore di
indiani) e giusto qualche altro, come Bill (Roberth Keith) che per una sua
vendetta privata scatenerà la guerra definitiva. Va detto che Johnny è il
protagonista, e quindi non si tratta di un personaggio come gli altri.
Il
personaggio principale del film di Daves, ovvero quello che focalizza il punto
di vista generale dell’opera, avrebbe in indole una risoluzione alla questione indiana basata sulla forza;
non è razzista, sia chiaro, visto il rapporto con Toby e altri, ma se serve
uccidere gli indiani ostili non se ne farebbe un problema. L’incarico del
presidente Grant, che come abbiamo visto è assai idealizzato anche
figurativamente, è quindi una sorta di missione
etica, una sorta di coscienza morale di cui l’eroe si deve far carico,
anche andando contro la propria pragmatica natura. Certo, sterminando tutti gli
indiani ostili (come di fatto avvenne), si risolverà la questione indiana nel modo americano di intendere il risolvere i problemi, ma una guida
morale sana (quella appunto idealizzata da Daves) ci dice che non si può e non
si deve ricorrere alla violenza per ottenere la pace. Questi due blocchi
contrapposti e speculari (indiani ostili con pochi pacifici vs bianchi
pacifisti con pochi bellicosi) si intersecano con le figure di Toby, la giovane
indiana, e Johnny, l’eroe bianco valoroso. Johnny, tempo addietro, salvò la
vita di Toby, che ora ne è sinceramente innamorata: Daves prepara quindi la sua
storia sentimentale, lasciando intendere che si potrebbe suggellare la pace tra
i due popoli con una simbolica unione tra i due personaggi principali.
Ripensando
a Stella del Mattino del citato L’amante
indiana si può notare la maturità dello sguardo del regista in Rullo di tamburi rispetto al precedente
film in questione. Là Stella del Mattino sposava l’eroico protagonista bianco
(nientemeno che James Stewart nei panni di Tom Jefford) e la sua successiva
morte, se precludeva simbolicamente ogni futuro alla cultura indiana, ne
sanciva il valore di messaggio di pace. Un messaggio di pace simbolico ma
frutto della concreta convivenza, consumata tra le mura domestiche di Tom e Stella del Mattino. E’ qui che Rullo di tamburi si discosta: Toby,
poverina, viene rifiutata da Johnny, che le preferisce Nancy (Adrey Dalton)
ragazza di buona famiglia nipote di un colonnello. Ma questo non le risparmia
il ruolo sacrificale: Toby muore salvando la vita a Johnny e, sostanzialmente,
garantisce il lieto fine della storia.
Che non la vede però per niente
protagonista: il suo sacrificio, che rappresenta il sacrificio dei nativi
americani, permette ai bianchi (Johnny e Nancy) una vita serena. E’ lei, Toby,
il vero perno della vicenda: Capitan Jack è una specie di rivoluzionario che,
per la verità, ha anche delle validissime ragioni ma che, in fin della fiera,
viene trattato da quel terrorista che risulta nell’ottica americana. Daves,
autore sempre attento all’aspetto sentimentale e romantico delle sue opere,
comprende che non è la traccia politica, quella più importante nella conquista del west. Si è trattato di una
guerra di occupazione che, come tutte le guerre, ha visto affermarsi il
criterio di forza più che quello di giustizia. Ma non è certo una novità e,
considerata la natura dell’animo umano, si ripeterà ancora nella Storia. Quello
che si è perso, con la conquista del west, è la possibilità di condivisione, di
congiunzione, di crescita, che il trovarsi al cospetto di una civiltà
completamente diversa, offriva. Il vero rimpianto, per la conquista del west, è
dei bianchi, e non degli indiani. Lo sprezzante ma per nulla preoccupato
atteggiamento di Capitan Jack davanti alla forca, al di là di una certa
spavalderia di ruolo, è supportato dalla consapevolezza di non avere concrete
alternative. Chissà se il ricordo della mano di Toby tesa verso Johnny, colma
di amore, gratitudine, sacrificio, ma già rifiutata, lascerà altrettanto sereno
l’eroe della storia.
Audrey Dalton
Marisa Pavan
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