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mercoledì 20 novembre 2019

BANDITI A ORGOSOLO

447_BANDITI A ORGOSOLO ; Italia, 1961Regia di Vittorio De Seta.

Opera prima di Vittorio De Seta, Banditi a Orgosolo è un lavoro di notevole valore che mette bene in mostra la vena documentaristica del regista. De Seta aveva infatti girato, negli anni 50, una serie di brevi documentari, in cui mostrava le condizioni di vita quotidiana e di lavoro della gente umile del mezzogiorno, concentrandosi prevalentemente sulle grandi isole, Sicilia e Sardegna. Nel 1961 il regista palermitano si cimenta con il lungometraggio con una storia che, stando alla didascalia alla fine dei titoli di coda, è del tutto immaginaria. In quest’opera risulta lampante una considerazione che non sempre appare così scontata: un capace documentarista è già potenzialmente un’eccellente regista di opere di finzione; come si evince dal lavoro lasciato sullo schermo da De Seta in quest’occasione. Nel documentario è in teoria sempre richiesto un certo grado di autenticità di quanto mostrato, sebbene non sempre questo criterio venga rispettato, si prendano i documentari bellici o di propaganda a titolo d’esempio. Ma è innegabile che, nella matrice di questo genere cinematografico (e televisivo), sia richiesta una forte attendibilità degli eventi narrati; questo elemento incontrovertibile concentra, di conseguenza, il lavoro dell’autore sulla messa in scena, sull’uso delle inquadrature, sul montaggio, sul tipo di pellicola o illuminazione, sul commento sonoro, insomma su tutti gli aspetti che dipendono dalla regia. E’ nella messa in scena, e solo in quella, essendo l’oggetto filmico un documento da rispettare, che il regista di un documentario può (e deve) esprimere, se non necessariamente la propria idea, perlomeno una determinata ottica oltre alla personale cifra stilistica. Del resto evocare la perfetta imparzialità su un certo argomento, sia anche esso legato a ciò che è mostrato nelle immagini, è pura utopia: la scelta dell’inquadratura di un’immagine, la prospettiva, cosa viene incluso e cosa rimane fuori campo, e via discorrendo, sono tutte opzioni che l’autore privilegia a discapito di altre. Anche in un documento filmico, quello a cui assistiamo è ciò che l’autore decide di mostrarci e quindi una manifestazione del suo talento. 

E De Seta è un autore sopraffino: in Banditi a Orgosolo sfodera una regia superba, un’eccellente capacità di inquadratura e composizione visiva che gli permette di sottrarre al suo lungometraggio quasi tutti gli orpelli tipici del cinema di finzione senza perdere efficacia. Già la scelta del bianco e nero è una soluzione che arriva ad una maggior resa tagliando l’uso dei colori, e poi la musica sobria, che di questa sua caratteristica trae forza evocativa, mentre i dialoghi essenziali comunicano un mondo chiuso e non particolarmente loquace in modo incisivo. Ma è soprattutto nella prospettiva delle inquadrature che De Seta imposta il suo punto di vista sulla vicenda che va a raccontare. Che è una questione scarna, semplice: all’ovile del pastore Michele (Michele Cossu) arrivano dei forestieri con alcuni maiali rubati. Michele non ne sa nulla e nulla ne vuole sapere; i banditi hanno bisogno di prendere tempo, uno di loro è ferito. Ecco che giungono i carabinieri, i ladri fuggono; i militari interrogano Michele che è fin troppo reticente sull’argomento. In seguito i carabinieri avvistano i fuggiaschi, c’è uno scontro a fuoco. 

Un carabiniere rimane ucciso; intanto Michele ha approfittato del parapiglia per darsela a gambe. Verrà ovviamente ritenuto coinvolto e corresponsabile della morte del militare. Michele è così divenuto uno dei Banditi a Orgosolo. Quello che in un normale film di gangster sarebbe quasi unicamente un abbozzo, è di fatto la sceneggiatura dell’opera prima di De Seta. Ma c’è un motivo valido anzi, imprescindibile, che avvalla la scelta del regista: una simile essenzialità ci aiuta a comprendere meglio la natura della scarsa attitudine alla legalità diffusa in Italia. Il rischio più grande, enorme si potrebbe dire conoscendo la mentalità italiana, è che si ritenga la vicenda occorsa a Michele un alibi per diventare un delinquente. Non è così, o meglio, quella è una questione marginale, secondaria. 

Che Michele decida di non fare il suo dovere di cittadino e denunciare la presenza dei banditi, è un fatto ed uno sbaglio certo; come lo è che da questo passaggio narrativo derivino le successive disgrazie per il povero pastore. Ma la madre di tutte le difficoltà a convincere gli italiani come Michele, ad avere un senso civico e legale, è la duplice valenza dello Stato, delle istituzioni e soprattutto dei suoi rappresentanti. In un paese totalmente abbandonato a sé stesso come la Barbagia del film di De Seta, quando arrivano i carabinieri non fanno domande, inquisiscono con sospetto; quando cercano qualcosa, perquisiscono buttando tutto all’aria, senza alcun riguardo. Lo Stato, completamente assente nella durissima vita di tutti i giorni, quando si presenta, mostra la faccia truce e minacciosa. I banditi, a confronto, sono molto più educati e rispettosi  (quando non derubano te, evidentemente). 

Ma, in ogni caso, se è compito del cittadino fare il proprio dovere e denunciare i crimini, quello dello Stato dovrebbe essere garantire l’incolumità dei suoi abitanti. Cosa che, per via della proverbiale assenza delle istituzioni, non accade in alcun modo. Per il Michele del film di De Seta, lo Stato è qualcosa di inesistente almeno finché non si palesa per riversargli addosso tutti i guai che possano capitare ad un povero disperato pastore che già normalmente fatica a sbarcare il lunario. Forse questi argomenti non interessano all’altro pastore, quello che, nel finale, viene derubato dallo stesso Michele; e forse non interessano nemmeno a chi è convinto che la legge vada rispettata sempre e comunque. Poco male; la cosa grave è che non interessano nemmeno più a coloro scelgono di diventare banditi, proprio come Michele.     


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