447_BANDITI A ORGOSOLO ; Italia, 1961. Regia di Vittorio De Seta.
Opera prima di Vittorio De Seta, Banditi a Orgosolo è un lavoro di notevole valore che mette bene in
mostra la vena documentaristica del regista. De Seta aveva infatti girato,
negli anni 50, una serie di brevi documentari, in cui mostrava le condizioni di
vita quotidiana e di lavoro della gente umile del mezzogiorno, concentrandosi
prevalentemente sulle grandi isole, Sicilia e Sardegna. Nel 1961 il regista
palermitano si cimenta con il lungometraggio con una storia che, stando alla
didascalia alla fine dei titoli di coda, è del tutto immaginaria. In
quest’opera risulta lampante una considerazione che non sempre appare così
scontata: un capace documentarista è già potenzialmente un’eccellente regista
di opere di finzione; come si evince dal lavoro lasciato sullo schermo da De
Seta in quest’occasione. Nel documentario è in teoria sempre richiesto un certo
grado di autenticità di quanto mostrato, sebbene non sempre questo criterio venga
rispettato, si prendano i documentari bellici o di propaganda a titolo
d’esempio. Ma è innegabile che, nella matrice di questo genere cinematografico
(e televisivo), sia richiesta una forte attendibilità degli eventi narrati;
questo elemento incontrovertibile concentra, di conseguenza, il lavoro
dell’autore sulla messa in scena, sull’uso delle inquadrature, sul montaggio,
sul tipo di pellicola o illuminazione, sul commento sonoro, insomma su tutti
gli aspetti che dipendono dalla regia. E’ nella messa in scena, e solo in
quella, essendo l’oggetto filmico un documento
da rispettare, che il regista di un documentario può (e deve) esprimere, se non
necessariamente la propria idea, perlomeno una determinata ottica oltre alla personale
cifra stilistica. Del resto evocare la perfetta imparzialità su un certo
argomento, sia anche esso legato a ciò che è mostrato nelle immagini, è pura
utopia: la scelta dell’inquadratura di un’immagine, la prospettiva, cosa viene
incluso e cosa rimane fuori campo, e via discorrendo, sono tutte opzioni che
l’autore privilegia a discapito di altre. Anche in un documento filmico, quello
a cui assistiamo è ciò che l’autore decide di mostrarci e quindi una
manifestazione del suo talento.
E De Seta è un autore sopraffino: in Banditi a Orgosolo sfodera una regia
superba, un’eccellente capacità di inquadratura e composizione visiva che gli
permette di sottrarre al suo lungometraggio quasi tutti gli orpelli tipici del cinema
di finzione senza perdere efficacia. Già la scelta del bianco e nero è una soluzione
che arriva ad una maggior resa tagliando l’uso dei colori, e poi la musica
sobria, che di questa sua caratteristica trae forza evocativa, mentre i
dialoghi essenziali comunicano un mondo chiuso e non particolarmente loquace in
modo incisivo. Ma è soprattutto nella prospettiva delle inquadrature che De
Seta imposta il suo punto di vista sulla vicenda che va a raccontare. Che è una
questione scarna, semplice: all’ovile del pastore Michele (Michele Cossu)
arrivano dei forestieri con alcuni maiali rubati. Michele non ne sa nulla e nulla
ne vuole sapere; i banditi hanno bisogno di prendere tempo, uno di loro è
ferito. Ecco che giungono i carabinieri, i ladri fuggono; i militari
interrogano Michele che è fin troppo reticente sull’argomento. In seguito i
carabinieri avvistano i fuggiaschi, c’è uno scontro a fuoco.
Un carabiniere
rimane ucciso; intanto Michele ha approfittato del parapiglia per darsela a
gambe. Verrà ovviamente ritenuto
coinvolto e corresponsabile della morte del militare. Michele è così divenuto
uno dei Banditi a Orgosolo. Quello
che in un normale film di gangster sarebbe quasi unicamente un abbozzo, è di
fatto la sceneggiatura dell’opera prima di De Seta. Ma c’è un motivo valido
anzi, imprescindibile, che avvalla la scelta del regista: una simile
essenzialità ci aiuta a comprendere meglio la natura della scarsa attitudine
alla legalità diffusa in Italia. Il rischio più grande, enorme si potrebbe dire
conoscendo la mentalità italiana, è che si ritenga la vicenda occorsa a Michele
un alibi per diventare un delinquente. Non è così, o meglio, quella è una
questione marginale, secondaria.
Che Michele decida di non fare il suo dovere
di cittadino e denunciare la presenza dei banditi, è un fatto ed uno sbaglio
certo; come lo è che da questo passaggio narrativo derivino le successive
disgrazie per il povero pastore. Ma la madre di tutte le difficoltà a
convincere gli italiani come Michele, ad avere un senso civico e legale, è la
duplice valenza dello Stato, delle istituzioni e soprattutto dei suoi
rappresentanti. In un paese totalmente abbandonato a sé stesso come la Barbagia
del film di De Seta, quando arrivano i carabinieri non fanno domande,
inquisiscono con sospetto; quando cercano qualcosa, perquisiscono buttando
tutto all’aria, senza alcun riguardo. Lo Stato, completamente assente nella
durissima vita di tutti i giorni, quando si presenta, mostra la faccia truce e
minacciosa. I banditi, a confronto, sono molto più educati e rispettosi (quando non derubano te, evidentemente).
Ma,
in ogni caso, se è compito del cittadino fare il proprio dovere e denunciare i
crimini, quello dello Stato dovrebbe essere garantire l’incolumità dei suoi
abitanti. Cosa che, per via della proverbiale assenza delle istituzioni, non
accade in alcun modo. Per il Michele del film di De Seta, lo Stato è qualcosa
di inesistente almeno finché non si palesa per riversargli addosso tutti i guai
che possano capitare ad un povero disperato pastore che già normalmente fatica
a sbarcare il lunario. Forse questi argomenti non interessano all’altro pastore,
quello che, nel finale, viene derubato dallo stesso Michele; e forse non
interessano nemmeno a chi è convinto che la legge vada rispettata sempre e comunque.
Poco male; la cosa grave è che non interessano nemmeno più a coloro scelgono di
diventare banditi, proprio come Michele.
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