450_CABIN FEVER ; Stati Uniti 2002. Regia di Eli Roth.
Pellicola horror
curiosa e sopra le righe, Cabin Fever
è l’esordio dietro alla macchina da presa di Eli Roth. Il regista sembra
divertirsi a citare alcuni tra i classici del genere, dando poi una forma un
po’ sgangherata al film nel suo insieme. Cabin
Fever è infatti un’opera che, se si cerca la perfezione formale o l’assenza
di difetti, certamente delude. Ma dal film traspare una genuina passione per il
genere horror e i rimandi, da Un
tranquillo week end di paura a La
casa non infastidiscono e riescono invece gradevoli. Quello in cui non
vuole essere certo gradevole Roth è nel ricorso alla vena splatter più
disgustosa: guardando il suo Cabin Fever
ritorna un po’ in mente un motto, risalente ai tempi più lontani di Hershell
Gordon Lewis o più recenti di Frank Henenlotter, che recitava: se non hai paura, puoi sempre vomitare.
Questa pratica cinematografica è
stata spesso imputata alla incapacità, vera o presunta, del regista di turno di
ottenere un risultato concreto sullo schermo attraverso la suspense e a quei
meccanismi considerati più elevati in
termini di cultura cinematografica rispetto alla mera rappresentazione di
macelleria di bassa lega. Tuttavia va riconosciuto che alcuni passaggi di Cabin Fever sono inquietanti e la mano
di Roth in regia non sembra affatto malvagia. In realtà questi aspetti più
truculenti, pur se ostentati in primo piano, possono essere invece intesi come
marginali, effettivamente carne che il regista manda al macello, quando invece
il discorso più interessante è un po’ più sottile. Quello a cui assistiamo, si
diceva, è un film horror in cui pullulano i passaggi disgustosi, e già anche
qui, in questo approccio di analisi, siamo colti in fallo da Roth, che è molto
bravo a tendere la sua trappola.
Perché l’aspetto che dovrebbe saltare
all’occhio prima, in quanto certamente più importante del sangue o delle membra
dilaniate, è che nella storia non vi è alcun personaggio completamente
positivo. Non lo sono i cinque ragazzi, anche se forse alle due fanciulle della
comitiva Roth regala un pizzico di umanità, perlomeno quando la situazione
comincia a precipitare. Insomma, se il loro atteggiamento non è sempre
irreprensibile, accanto ai cedimenti ci sono anche momenti positivi. Karen
(Jordan Ladd) si rivela un po’ civettuola, strumentalizzando i sentimenti di Paul
(Rider Strong) e ammiccando a Justim ‘Grimm’ (Eli Roth) per secondi fini (forse
ingelosire Paul, certamente per l’erba da fumare) ma è anche sinceramente dispiaciuta
per la morte dell’uomo arso vivo.
Da parte sua Marcy (Cerina Vincent), nel
momento critico, si limita a fare quello che può, ma è interessante il modo in
cui intende il sesso, ovvero come antidoto alla morte. I maschi del gruppo sono
invece sostanzialmente figure negative: solo il citato Paul non sembra del
tutto da scartare, ma finisce in un gioco più grande di lui e si arrabatta alla
meno peggio. Male sia Jeff (Joey Kern), un leader che si squaglia
vigliaccamente di fronte al pericolo, che Bert (James DeBello), un vero idiota
combina guai. Malissimo anche gli abitanti del luogo, che non venga in mente
che la morale sia che dalla civiltà si vada ad inquinare (moralmente) la campagna: in questo caso, piuttosto,
dalla città arrivano persone rozze e incivili, completamente impreparate ad
affrontare il male ancestrale. Curiosamente, con un escamotage narrativo (la
scommessa tra Jeff e Bert di bere solo birra) Roth contagia inizialmente le
ragazze, a cui viene subito preclusa la possibilità salvezza; Paul sembra
invece godere di una personale immunità al virus, ma questo, in definitiva, non
lo salverà comunque. In ogni caso quello che rimane di questo intreccio
narrativo è una serie di comportamenti volti a scegliere il male minore quando
non la diretta sopraffazione dell’altro, oppure l’abbandono di chi è in
difficoltà.
Certo, in qualche caso a malincuore, come quando Karen si scopre
contaminata; ma manca completamente, stiamo pur parlando di cinema, una minima
deriva eroica o quantomeno di forte solidarietà. In effetti, l’atteggiamento di
quasi tutti i personaggi si potrebbe definire normale, magari non per il cinema ma certamente per la vita di
tutti i giorni. E forse è questo quello che vuole dirci Roth, con il suo Cabin Fever: accettiamo come normale lo squallido opportunismo dei
personaggi, e invece ci turba un po’ di sangue sul cristallo del furgone. O
anche il fatto che Bert spari del tutto gratuitamente agli scoiattoli; questo
tema, unito a qualche frase politicamente scorretta, nasconde in uno dei suoi
passaggi questa possibile chiave di lettura dell’opera. All’inizio, quando i
nostri ragazzi si fermano all’emporio, alla domanda a cosa serva il fucile
esposto, l’anziano negoziante risponde: “ah,
quello è per i negri”.
La cosa è sottolineata, una volta usciti dal locale,
dai giovani, che stigmatizzano l’uso del termine negro, e scorgono un certo e presunto sprezzo nelle parole del
vecchio. Questi stessi ragazzi che poco più tardi arriveranno ad abbandonarsi
reciprocamente pur di salvare la pelle, senza un minimo di reciproca
solidarietà. Si vedrà come, nel finale, nell’emporio arrivino tre giovani di
colore per ritirare quel fucile che, in effetti, era a loro destinato, e il
negoziante scherza amichevolmente con loro: questo intendeva, quindi, e non che
lo usasse per sparargli. Un colpo basso per chi si era indignato insieme ai
cinque protagonisti per l’uso del termine politicamente scorretto, perché al
contrario l’uomo sembra in ottimi rapporti con i ragazzi afroamericani. Poi
magari chissà, i tre andranno anche loro a sparare per divertimento agli
scoiattoli, ma questo non è dato a sapersi; in ogni caso prima di indignarsi un
tanto al chilo, conviene comprendere bene quello che si vede. E se ce lo dice
proprio un film splatter, che fonda la sua efficacia sulle ostentazioni
efferate, c’è da credergli.
Cerina Vincent
Jordan Ladd
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