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sabato 23 novembre 2019

CABIN FEVER

450_CABIN FEVER ; Stati Uniti 2002Regia di Eli Roth.

Pellicola horror curiosa e sopra le righe, Cabin Fever è l’esordio dietro alla macchina da presa di Eli Roth. Il regista sembra divertirsi a citare alcuni tra i classici del genere, dando poi una forma un po’ sgangherata al film nel suo insieme. Cabin Fever è infatti un’opera che, se si cerca la perfezione formale o l’assenza di difetti, certamente delude. Ma dal film traspare una genuina passione per il genere horror e i rimandi, da Un tranquillo week end di paura a La casa non infastidiscono e riescono invece gradevoli. Quello in cui non vuole essere certo gradevole Roth è nel ricorso alla vena splatter più disgustosa: guardando il suo Cabin Fever ritorna un po’ in mente un motto, risalente ai tempi più lontani di Hershell Gordon Lewis o più recenti di Frank Henenlotter, che recitava: se non hai paura, puoi sempre vomitare. Questa pratica cinematografica è stata spesso imputata alla incapacità, vera o presunta, del regista di turno di ottenere un risultato concreto sullo schermo attraverso la suspense e a quei meccanismi considerati più elevati in termini di cultura cinematografica rispetto alla mera rappresentazione di macelleria di bassa lega. Tuttavia va riconosciuto che alcuni passaggi di Cabin Fever sono inquietanti e la mano di Roth in regia non sembra affatto malvagia. In realtà questi aspetti più truculenti, pur se ostentati in primo piano, possono essere invece intesi come marginali, effettivamente carne che il regista manda al macello, quando invece il discorso più interessante è un po’ più sottile. Quello a cui assistiamo, si diceva, è un film horror in cui pullulano i passaggi disgustosi, e già anche qui, in questo approccio di analisi, siamo colti in fallo da Roth, che è molto bravo a tendere la sua trappola. 

Perché l’aspetto che dovrebbe saltare all’occhio prima, in quanto certamente più importante del sangue o delle membra dilaniate, è che nella storia non vi è alcun personaggio completamente positivo. Non lo sono i cinque ragazzi, anche se forse alle due fanciulle della comitiva Roth regala un pizzico di umanità, perlomeno quando la situazione comincia a precipitare. Insomma, se il loro atteggiamento non è sempre irreprensibile, accanto ai cedimenti ci sono anche momenti positivi. Karen (Jordan Ladd) si rivela un po’ civettuola, strumentalizzando i sentimenti di Paul (Rider Strong) e ammiccando a Justim ‘Grimm’ (Eli Roth) per secondi fini (forse ingelosire Paul, certamente per l’erba da fumare) ma è anche sinceramente dispiaciuta per la morte dell’uomo arso vivo. 

Da parte sua Marcy (Cerina Vincent), nel momento critico, si limita a fare quello che può, ma è interessante il modo in cui intende il sesso, ovvero come antidoto alla morte. I maschi del gruppo sono invece sostanzialmente figure negative: solo il citato Paul non sembra del tutto da scartare, ma finisce in un gioco più grande di lui e si arrabatta alla meno peggio. Male sia Jeff (Joey Kern), un leader che si squaglia vigliaccamente di fronte al pericolo, che Bert (James DeBello), un vero idiota combina guai. Malissimo anche gli abitanti del luogo, che non venga in mente che la morale sia che dalla civiltà si vada ad inquinare (moralmente) la campagna: in questo caso, piuttosto, dalla città arrivano persone rozze e incivili, completamente impreparate ad affrontare il male ancestrale. Curiosamente, con un escamotage narrativo (la scommessa tra Jeff e Bert di bere solo birra) Roth contagia inizialmente le ragazze, a cui viene subito preclusa la possibilità salvezza; Paul sembra invece godere di una personale immunità al virus, ma questo, in definitiva, non lo salverà comunque. In ogni caso quello che rimane di questo intreccio narrativo è una serie di comportamenti volti a scegliere il male minore quando non la diretta sopraffazione dell’altro, oppure l’abbandono di chi è in difficoltà. 


Certo, in qualche caso a malincuore, come quando Karen si scopre contaminata; ma manca completamente, stiamo pur parlando di cinema, una minima deriva eroica o quantomeno di forte solidarietà. In effetti, l’atteggiamento di quasi tutti i personaggi si potrebbe definire normale, magari non per il cinema ma certamente per la vita di tutti i giorni. E forse è questo quello che vuole dirci Roth, con il suo Cabin Fever: accettiamo come normale lo squallido opportunismo dei personaggi, e invece ci turba un po’ di sangue sul cristallo del furgone. O anche il fatto che Bert spari del tutto gratuitamente agli scoiattoli; questo tema, unito a qualche frase politicamente scorretta, nasconde in uno dei suoi passaggi questa possibile chiave di lettura dell’opera. All’inizio, quando i nostri ragazzi si fermano all’emporio, alla domanda a cosa serva il fucile esposto, l’anziano negoziante risponde: “ah, quello è per i negri”. 

La cosa è sottolineata, una volta usciti dal locale, dai giovani, che stigmatizzano l’uso del termine negro, e scorgono un certo e presunto sprezzo nelle parole del vecchio. Questi stessi ragazzi che poco più tardi arriveranno ad abbandonarsi reciprocamente pur di salvare la pelle, senza un minimo di reciproca solidarietà. Si vedrà come, nel finale, nell’emporio arrivino tre giovani di colore per ritirare quel fucile che, in effetti, era a loro destinato, e il negoziante scherza amichevolmente con loro: questo intendeva, quindi, e non che lo usasse per sparargli. Un colpo basso per chi si era indignato insieme ai cinque protagonisti per l’uso del termine politicamente scorretto, perché al contrario l’uomo sembra in ottimi rapporti con i ragazzi afroamericani. Poi magari chissà, i tre andranno anche loro a sparare per divertimento agli scoiattoli, ma questo non è dato a sapersi; in ogni caso prima di indignarsi un tanto al chilo, conviene comprendere bene quello che si vede. E se ce lo dice proprio un film splatter, che fonda la sua efficacia sulle ostentazioni efferate, c’è da credergli.  


Cerina Vincent











Jordan Ladd





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