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martedì 19 novembre 2019

ULTIMO DOMICILIO CONOSCIUTO

446_ULTIMO DOMICILIO CONOSCIUTO (Dernier domicile connu); Francia, Italia, 1970Regia di José Giovanni.

Di José Giovanni, regista di Ultimo domicilio conosciuto, della sua vita privata, si ricorda sempre il suo essere collaborazionista nella Repubblica di Vichy e la sua condanna per crimini di guerra e, forse, non del tutto in modo pretestuoso. Spesso i suoi personaggi, e sicuramente il suo ispettore Marceau Leonetti (un granitico Lino Ventura), protagonista di questo Ultimo domicilio conosciuto, sono tormentati da un passato da cui proprio non riescono completamente ad affrancarsi. Di Leonetti, per altro, si scopre poco, durante il film: il suo carattere riflette quello complessivo dell’opera, schivo, risoluto, sbrigativo, senza cerimonie. Nemmeno la Legion d’Onore, la più alta onorificenza francese, riesce a smuoverlo dal suo disgustato riservo verso la società o le istituzioni: inutile ostentarla, se i motivi che gliel’hanno fatta meritare sono gli stessi per cui ora viene regolarmente punito. Certo, siamo all’alba degli anni settanta, e i modi spicci, spesso oltre il limite, di Leonetti non sono più troppo di moda. E se poi si pestano i calli sbagliati, e si tocca qualcuno di importante, ecco che arriva la punizione e il castigo: in provincia, a lavorare con la buoncostume. In questa triste parabola del vecchio leone, c’è però una nota positiva, che ha il gradevole aspetto di Jeanne Dumas (una deliziosa Marlène Jobert): per la verità, almeno ad una prima occhiata, la sua nuova minuta assistente sembra davvero non aver nulla da spartire con il massiccio ispettore. Leonetti è un vero piedipiatti: il suo lavoro è in parte di cervello, perché per fare l’ispettore non devi essere stupido, chiaro, ma deve anche darsi da fare di gambe

Ventura non è un gigante ma ha un passo lungo e deciso, e il suo ispettore fila spedito a destra e a manca, alla ricerca del testimone che nessuno riesce a trovare. E’ questo infatti il suo nuovo incarico e, per la verità, sembra che, impegnandolo in un’impresa impossibile, il superteste è uccel di bosco da cinque anni, l’intenzione dei vertici sia di infliggere un’ulteriore umiliazione a Leonetti. Ma l’ispettore non si scompone, testardo e cocciuto, batte ogni possibile traccia senza rallentare nemmeno un filo: la povera Jeanne sgambetta in affanno ma proprio non riesce a tenerne il passo. Perlomeno nella camminata; perché in fatto di personalità, la ragazza riesce progressivamente a farsi valere. 

E' qui che il discorso di José Giovanni si fa più interessante e stupisce anche un poco. Jeanne è progressista, più aperta, più moderna, non è certo fatta della stessa pasta di Leonetti, anche se pian piano arriva a rispettarne ed apprezzarne l’integrità morale. In effetti alla fine un punto di intesa si trova, e la coppia finisce per funzionare, sia sul piano professionale che su quello umano, mentre sul versante sentimentale sembra che il vecchio poliziotto, guardando la bellezza della giovane, avanzi non  più di un’ombra di rimpianto. Ma il finale, che rivela come funziona quel sistema giudiziario di cui lo stesso Leonetti sembra consapevolmente, se non colpevolmente, fare parte, manda tutto a ramengo, persino i rimpianti o le suggestioni. Com’è possibile, si chiede l’ingenua e candida Jeanne, che lo Stato inganni così la buona fede della gente? Com’è possibile accettare queste meschinità gravissime, pagate con la vita dei cittadini dapprima chiamati, anzi obbligati, a fare il proprio dovere? Può forse bastare il rassegnato sdegno di Leonetti? Ma niente affatto!
Un’accusa, quella di Jeanne, che sembra anche un’autocritica di José Giovanni.  









Marlène Jobert







  

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