449_LA CITTA' DELLA PAURA (Station West); Stati Uniti 1948. Regia di Sideny Lanfield.
Nel 1948
gli anni cinquanta, cinematograficamente parlando, erano ancora relativamente
lontani e il western non era ancora assurto allo status di
genere classico per antonomasia. Fino ad allora, abitualmente, l’epopea della
frontiera era usata come una semplice ambientazione storica e, in molti casi,
la turbolenza delle cittadine del west forniva uno sfondo credibile a storie
che erano assimilabili a quelle metropolitane che furoreggiavano nel noir,
il genere tipico degli anni quaranta. In questo caso, ad alimentare questa
commistione, ci si mettono anche i distributori italiani, visto che La
città della paura sembra davvero il titolo di un film ambientato nelle
Chicago o New York dell’epoca degli investigatori alla Humphrey Bogart e delle
affascinanti dark lady. Il titolo
originale, Station West, è apparentemente più attinente al film di
Sideny Lanfield, che è appunto un western della RKO Radio Pictures. Il plot
narrativo di base conferma l’appartenenza al genere: in una città di frontiera
il trasporto di oro della vicina miniera è sottoposto ad attacchi e rapine da
parte dei banditi. E, ovviamente, sono western anche gli scenari oltre ad
alcuni passaggi narrativi come la scazzottata o gli attacchi al convoglio. Ma,
su questa pur solida architettura western, si innestano significative atipicità.
Innanzitutto la scelta dei due attori protagonisti: Dick Powell, era la star
dei musical degli anni 30 poi riciclatosi (in modo egregio, sia chiaro) in
ruoli di altro tenore (fu addirittura Philippe Marlowe, il famoso detective, in L’ombra del passato, 1944, di Edward Dmytryk), mentre al suo
fianco Jane Greer arrivava fresca fresca dal capolavoro noir Le catene
della colpa (1947, di Jacques Tourneur).
E sono forse proprio i rispettivi
ruoli nei due film citati ad ispirare i personaggi dei due protagonisti in
questo La città della paura: Powell è Haven, una sorta di
poliziotto mandato a risolvere il mistero delle rapine, la Greer è Tony (Charlie
nell’originale) dark lady dal nome maschile e dalla doppia
faccia. Si presenta come la classica vedette
da saloon, mentre in realtà è un temibile boss criminale, anche se il titolo
italiano enfatizza eccessivamente la sua capacità di terrorizzare la comunità.
Questo aspetto, il suo presunto tiranneggiare la cittadina, è anche introdotto
nel film dal locandiere canterino (Burl Ives), in una delle sue canzoncine, ma
poi Tony si rivela certamente pericolosa, ma non si nota, nell’atmosfera
cittadina, un clima così plumbeo come preannunciato.
Per la verità c’è un uso
forte delle ombre, in particolar modo quelle sulla scala del saloon, ma
l’ambientazione assolata degli esterni (siamo pur sempre nel far west) ne
smorza un po’ l’efficacia complessiva, relegandola alle singole scene. Inoltre,
il ruolo previsto per la Greer
sarebbe quello di femme fatale contemporaneamente a quello di capo
dell’organizzazione criminale e, se l’attrice se la cava anche bene, nel suo
personaggio finisce per emergere l’animo buono (o almeno
romantico) che, inevitabilmente, caratterizzava in fondo in fondo ogni dark
lady che si rispetti. Il che depotenzia, però, l’efficacia dell’altro
suo ruolo, quello di boss dell’organizzazione nemica dell’eroe di turno, che
risulta così troppo poco pericolosa per reggere a dovere la traccia
avventurosa.
Questo aspetto è sostenuto, per la verità, dallo scagnozzo di
Tony, Prince (Gordon Oliver) e da altri suoi tirapiedi ma, nel complesso, è
poca cosa; per imbrigliare un po’ la faccenda ci si adoperano allora anche
i buoni della storia, che si mettono di traverso all’operato
di Haven, per i soliti banali equivoci narrativi. Ma se Agnes Moorehead dà al
suo personaggio (la signora Caslon, proprietaria della miniera) una certa
verve, il capitano Iles (Tom Powers) è certamente trascurabile. Detto questo,
la storia comunque è godibilissima: Powell sa sfruttare a dovere le battute
sempre pronte che il copione riserva al suo personaggio e Jane Greer rende ogni
scena che la vede all’opera interessante e piacevole. E, non contenta di aver
giostrato nel duplice ruolo di femme
fatale e di cattivo della storia,
ruba la scena anche al protagonista nell’attimo cruciale, quello inevitabile
della sua sacrificale morte.
La protagonista della Greer, al film, che si stava
chiudendo su un romanticissimo scambio di ti
amo tra lei e Haven, riserva l’ultimo colpo di coda. Il personaggio
interpretato da Powell era entrato prepotentemente nella storia del film, non
avendo l’attore una forte presenza scenica, facendo piuttosto leva sulla tipica
e fulminea dialettica ereditata dalla commedia americana degli anni precedenti:
tra le battute sparate c’era anche stata quella in cui consigliava a Tony, per
far star buona la sua guardia del corpo, di farlo passare per il cugino diretto
in Cina. Ora la ragazza stava spirando, ferita mortalmente da un colpo a lui
destinato, e Haven sembrava non aver più troppa voglia di scherzare. Anzi, aveva
confessato alla ragazza di averla amata sin dalla prima strofa della canzone
che ella cantava la prima volta che la vide. “Ti amo”, si dichiara quindi Haven. “Ti amo”, sussurra Tony con un filo di voce. Poi la Greer , abbozzando quel
sorriso che la RKO Radio
Pictures usava per promuovere l’attrice come l’unico paragonabile a quello
della Monna Lisa di Leonardo, aggiungeva un “arrivederci”
davvero improbabile visto le sue condizioni. Era già quindi chiaro che la donna
sfilava sul più bello all’amato/nemico il ruolo di personaggio dalla battuta
ironica pronta, ma, prima di morire, faceva addirittura in tempo ad aggiungere
“in Cina!”.
Gioco,
partita, incontro.
Jane Greer
Nessun commento:
Posta un commento