63_CAST AWAY Stati Uniti, 2000; Regia di Robert Zemeckis
Se dovessimo provare a estrapolare un motto, un concetto il
più sintetico possibile, da questo film, potremmo dire “chi troppo vuole, nulla stringe”. Il che può sembrare strano,
perché suona come un invito a contenersi, a rimanere modesti nelle mire, mentre
la pellicola, in modo anche abbastanza plateale, sembra piuttosto un enorme
spot esplicito dell’azienda di spedizioni
FedEx, che del consumismo fa’ la sua prima necessità di sussistenza.
L’opera di Zemeckis appare, in effetti, come una moderna versione dei
cortometraggi del carosello: un lungo spot dove il protagonista, moderno pony-express, attraversa mille difficoltà
e porta a destinazione il pacco in consegna. Ma questa è solo la possibile
analisi della trama del film, magari letta sul trafiletto di un quotidiano. La
pellicola, in realtà, è tutto meno che l’esaltazione dell’efficienza delle
spedizioni, e questo in modo altrettanto assai evidente, visto che l’aereo con
la maggioranza delle spedizioni finisce in fondo al mare; fondo del mare da cui
si salva invece il castaway, il
naufrago, che dà il titolo al film.
Perché il vero tema dominante dell'opera è il
tentativo da parte dell’uomo moderno,
ma dovremmo forse dire dell’uomo americano,
di controllare spazio e tempo. E la prima fase appare già compiuta: dopo una
decina d’anni dalla caduta del muro di Berlino, alle soglie del nuovo millennio
la guerra fredda appare un ricordo, e gli americani possono tranquillamente
andare sulla Piazza Rossa a fare il proprio comodo, o almeno il proprio lavoro,
incuranti delle vecchie limitazioni (la famosa cortina di ferro) come delle moderne (le ganasce al camion). Il
mondo è ormai globalizzato, e tra natale e capodanno si può tranquillamente
pianificare un viaggio transoceanico. E in effetti si è già passati alla fase
due: il tempo, una volta considerato inviolabile e inesorabile, è ora
compresso, scandito, misurato, calcolato, gestito, dall’uomo americano. Calma; prima di andare oltre, facciamo un passo indietro: si è detto che questo film racconta di un naufragio, che non è precisamente un successo. Quindi forse è più che altro un monito, un campanello di allarme, un invito alla circospezione. Il protagonista del film ha nel nome già un indizio che è un primo avvertimento. Il personaggio interpretato da Tom Hamks (bravissimo) si chiama Chuck Noland: no land, senza terra. E infatti si perde in mezzo al mare, in un angolo fuori dalle mappe che controllano l’area dell’inabissamento del volo, e ritroverà sé stesso soltanto su un’isola ignota, che la sua ex fidanzata ribattezzerà, nel finale, “la tua isola”. Un pesante bagno di umiltà, per chi considerava andare e tornare dalla Malesia una scappata, da fare tra una domanda di matrimonio e la risposta.
Ma anche una piccola conquista.
Si è detto della volontà dell'uomo americano di controllare lo spazio e il tempo. Nel film è però soprattutto il secondo a dimostrare la sua totale supremazia
e la sua reale ingovernabilità. La vicenda comincia a Memphis, la patria di
Elvis Presley: il tempo qui era scandito dal rock’n’roll, ma oggi è soprattutto
nell’azienda di spedizioni che si pretende di piegarlo alle proprie esigenze
organizzative. Si lavora sempre con l’occhio al cronometro, si caricano i
pacchi, si smistano, si spediscono; il tempo è sempre sotto controllo, talmente
sotto controllo che si balla anche al ritmo di una stampante al lavoro sulla
tesi di Kelly, la fidanzata del protagonista.
Almeno finché la musica non cambia: “tra poco si balla”, dice infatti un membro dell’equipaggio a Chuck, durante il fatidico viaggio. E sarà un ballo al tempo di Madre Natura: assolutamente senza possibilità di controllo. Sull’isola il tempo passa lento,
ogni minuto o ogni ora sembrano essere più lunghi del normale; il tempo passa
senza che succeda mai niente di rilevante, scandito dalle onde e dalla risacca
del mare. L’orologio
avuto in regalo da Kelly perde la sua capacità di segnare il tempo: il tempo
non si può misurare, e l’oggetto rimane solo un ricordo, un appiglio.
Ecco, anche questo perdere la funzione
originaria delle cose, è un tema interessante.
L’orologio che non segna più le ore o la torcia che si scarica; fino alle cose che cambiano la loro funzione, dai nastri delle videocassette che diventano legacci, al pallone che diventa, alimentato dal sangue di Chuck, Wilson, l’amico immaginario. Al contrario del Robinson Crusoe in genere citato come modello del film, Chuck Noland non riorganizza sull’isola una vita simil-moderna, o comunque un’imitazione della sua vita nella civiltà: egli utilizza quei pochi resti di civiltà ricavata dai pacchi che il naufragio deposita sulla spiaggia, riconvertendo gli oggetti a scopi primari oppure a mantenere qualche ricordo, insieme alle immagini stilizzate dipinte nella caverna, mentre all’atto individuale procede in un inevitabile re-imbarbarimento.
Re-imbarbarimento, già: perché l’uomo moderno, l’uomo americano, sta’ tornando nella barbarie, cullandosi nella folle idea di avere il controllo globale sullo spazio e addirittura sul tempo.
Re-imbarbarimento, già: perché l’uomo moderno, l’uomo americano, sta’ tornando nella barbarie, cullandosi nella folle idea di avere il controllo globale sullo spazio e addirittura sul tempo.
L’unica salvezza, sembra dirci Zemeckis, è rinunciare:
rinunciare a salvare Wilson, rinunciare all’amore di una vita, così come
rinunciare a controllare lo spazio ed il tempo.
E ritrovarsi, come al principio, ad un incrocio con quattro
strade davanti; quattro strade che ti portano ai quattro angoli del globo, ti
portano dappertutto e quindi in nessun posto; ma che simboleggiano anche il
tempo e la sua incontrollabilità. Quattro come le stagioni che scandiscono il
passare del tempo, quattro come gli anni sull’isola e quattro come le settimane
dopo il rientro.
Quattro strade, quattro direzioni, nello spazio e nel tempo.
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