58_LA FOSSA DEI SERPENTI (The snake pit) Stati Uniti, 1948; Regia di Anatole Litvak.
Pare che nell’antichità, almeno stando a quanto
appreso nel finale del film, ci fosse l’usanza di mettere i pazzi in un pozzo
con i serpenti, per creare uno choc nella mente del malato; è da lì che prende
il titolo l’opera di Anatole Litvak, La
fossa dei serpenti. Non che le cose, almeno stando a quanto mostrato dal
lungometraggio, siano nei secoli molto cambiate: i malati di mente (o meglio in
questo caso, le malate, visto che il film è ambientato in un istituto
femminile) sono trattate con cura dai dottori, ma i loro problemi paiono
ineludibili: legati sia alla convivenza con gli altri pazienti, sia col personale
infermieristico, senza dimenticare i conti da fare con il lato amministrativo
della struttura. In sostanza Litvak non fa una critica generalizzata o
demagogica: la medicina funziona e opera per il bene del paziente, ma la
società fatica a mettere poi in pratica gli sforzi dei dottori, vuoi per le
difficoltà interpersonali (quelle che incontrano le infermiere sia per le condizioni
delle pazienti che per le loro eventuali carenze professionali) vuoi per la
gestione dei costi (il direttore della struttura vorrebbe infatti dimettere la
protagonista del film prima della sua completa guarigione per ottimizzare le
spese). Il risultato di queste forze
è, purtroppo, un luogo come il Juniper
Hill Hospital, dove Virginia (una bravissima Olivia de Havilland) è
ricoverata: una sorta di via di mezzo tra una prigione, un campo di
concentramento e un istituto di cura.
Il paragone fatto esplicitamente nel film è, abbiamo detto, con una
fossa di serpenti, ma l’idea dei reparti numerati progressivamente richiama piuttosto
i gironi danteschi dell’inferno. Nonostante questo quadro disarmante, Litvak
procede con estrema circospezione, senza eccessi ma senza cedimenti, e il suo
resoconto è impietoso e senza sconti. La condizione in cui sono tenuti i malati
di mente è inaccettabile e purtroppo credibile, perché il regista mostra sempre
la capacità di non lasciarsi prendere la mano dalla critica generalizzata o di bassa
lega. Virginia, a cui la de Havilland conferisce una superba e assai
sfaccettata personalità, è davvero mentalmente disturbata, e quindi necessita
delle cure che poi, in un modo o nell’altro, riceve.
Certamente dal punto di vista medico o psicoanalitico il
film presenta delle semplificazioni, ma naturalmente l’opera non è un trattato
di medicina. Non è nemmeno un documentario; quindi non è tanto lecito chiedersi
se queste siano le reali condizioni dei malati di mente negli istituti di cura.
Quello che ci mostra con grande maestria il bravissimo regista di origine
ucraina è cosa può succedere (e probabilmente succede) in simili condizioni:
pur nelle migliori intenzioni, affrontare difficoltà come la cura di pazienti
con disturbi mentali, può facilmente portare a situazioni come quelle
efficacemente mostrate nell’opera.
Si dice che la strada per l’inferno sia lastricata di buone
intenzioni;
probabilmente anche quella per gli istituti di cura.
Olivia de Havilland
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