51_DILLINGER E' MORTO. Italia, 1969; Regia di Marco Ferreri.
Dio è morto è un noto aforisma di Nietzsche; nel film di Marco
Ferreri non è invece l’Altissimo ad essere messo in discussione, ma il famoso
gangster americano John Dillinger. Per quale motivo la morte di un bandito di
un altro paese viene messa al centro dell’attenzione dal regista milanese in
questo suo film? Il gusto grottesco, dissacratore, provocatorio di Ferreri è
ormai noto, ma in questa sua opera l’autore appare decisamente ermetico. Nel
film Dillinger è morto, infatti,
assistiamo alla giornata dopo-lavorativa tipo
di un ingegnere industriale, che torna a casa e si dedica alle consuete
attività: saluta la moglie, che è a letto con il mal di testa, da’ un’occhiata
alla televisione, si prepara una cena,
guarda i filmini delle vacanze, va ad importunare la domestica. E già qui
potremmo notare come, nelle normali attività di un uomo sposato, venga fatta
passare dal regista l’idea di flirtare con una ragazza che vive quotidianamente
sotto lo stesso tetto della moglie. Però il punto più importante per trovare una
traccia da seguire e decifrare qualcosa di questo Dillinger è morto, è il
rapporto del nostro protagonista, tal Glauco (Michel Piccoli) con la visione di
immagini in movimento: quando guarda la televisione è particolarmente attratto
dalle ragazzine intervistate, arrivando a toccare il teleschermo per simulare
in qualche modo il contatto fisico; i filmini delle vacanze che si proietta in
seguito lo riguardano e lo coinvolgono invece direttamente. A vederlo mentre
osserva gli schermi, Glauco sembra quasi voler entrare nelle immagini, che tra
l’altro poi, ad un certo punto, diventano esse stesse il film che stiamo
vedendo.
Ma allora siamo in campo metalinguistico e il
Dillinger del titolo non è tanto il bandito, quanto un simbolico protagonista
dei film di gangster; e si sa che i gangster
movie sono uno dei capisaldi del cinema hollywoodiano. Ecco quindi che la
trama senza trama del film prende una
sua logica: il cinema, inteso come narrazione di una storia per imbonire le
masse, è morto, è finito, è ormai inutile; questo sembra dirci Ferreri. Nel suo
lungometraggio, il regista ci mostra una storia senza senso, una routine legata
ai consueti riti dell’uomo contemporaneo, come prepararsi la cena o guardare la
televisione, che viene interrotta dal ritrovamento di un pacco. Il pacco è
avvolto in vecchi fogli di giornale, sui quali compare la notizia che ‘Dillinger
è morto’, e al suo interno si trova una vecchia pistola arrugginita.
Con un’applicazione da perfetto fai-da-te tipicamente borghese, Glauco smonta il revolver e lo
olia a puntino, poi lo rimonta e ne verifica i meccanismi. Fino a qui,
l’ingegnere si è comportato da ingegnere, appunto, e a fronte di un antico
prodotto della tecnica, si è sentito in dovere di ripristinarne e verificarne
l’efficienza. Poi subentra la vera cifra stilistica del film e, in modo del
tutto incomprensibile, Glauco dipinge di rosso a pois bianchi la pistola, senza
per altro comprometterne il funzionamento. A questo punto siamo ormai in piena
vena onirica e folle di una storia che, per paradosso, mostra quello che in
realtà è il sogno dell’uomo moderno.
Certo, si vive anche bene con un buon lavoro, una bella
moglie, e la coscienza accondiscendente che permette senza problemi qualche
scappatella; ma quello che si desidera veramente, è mandare letteralmente tutto
al diavolo (in primis la moglie, con tre colpi di pistola in testa) e fuggire verso
un’isola in mezzo all’oceano, alle dipendenze di una dispotica ma avvenente
ragazzina.
E in fondo, come dare torto a Ferreri?
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