64_BLADE RUNNER 2049 Stati Uniti, 2017; Regia di Denis Villeneuve

E in questo modo è più semplice trovarsi d’accordo e non
avere contrasti, perché manca la controprova della pratica. In ogni caso, al di
là delle motivazioni sociologiche, è un fatto evidente che oggi ci si relazioni
molto spesso con figure virtuali, che di fatto non sono persone in carne e ossa.
In un certo senso é quindi l’uomo ad essere regredito
a livello della macchina, e non tanto il contrario. Questo spunto è colto da
Villeneuve che introduce una nuova forma di vita artificiale, quella virtuale,
in grado di sostituire in quasi tutto e per tutto la compagnia di una vita
umana. Idea per altro non certo originale, visto che anche nella quotidianità di
tutti i giorni si hanno già figure virtuali tutto sommato abbastanza simili: la
voce del navigatore, l’assistente sul
computer o quello sullo smartphone.
L’altro aspetto rilevante nell’opera di Villeneuve è che il
suo film ha un approccio molto più narrativo,
quando il modello originale a livello di trama era piuttosto scarno e si basava
più su alcuni dilemmi etici e su un’iconografia ammaliante che fece davvero
scuola.
Anche se è doveroso segnalare il notevole lavoro sulla fotografia di Roger
Deakins, in Blade Runner 2049 la
componente narrativa è corposa, c’è un bel giallo, e il protagonista, il
bravissimo Ryan Golsyn, è l’agente K, un replicante cacciatore di androidi alla ricerca di quei vecchi modelli nexus ancora in circolazione. I nexus sono replicanti a cui troppo spesso
viene la tentazione di sentirsi umani; l’agente K invece non ha di queste
leggerezze, e compie con grande diligenza il proprio dovere.
E fin qui l’impostazione della vicenda sembra molto simile
al film del 1982, pur con i giusti distinguo che poi si sviluppano in modo
praticamente speculare: nel vecchio Blade
Runner, Deckard (Harrison Ford, sulla scena anche nel film di Villeneuve),
il cacciatore di androidi, era umano e il dubbio era che potesse essere un
replicante; in questo caso l’agente K è un replicante, e il dubbio è che possa
essere nato (proprio dall’unione tra
Deckard e Rachael, protagonisti nel primo film) e non creato in laboratorio. In
pratica un’opzione simile, ma di senso opposto.
Il momento chiave del film è un ricordo, che è in pratica
l’unico ricordo vero, non inventato, della storia; è l’agente K che ne
certifica l’autenticità, trovandone il riscontro nella realtà: il cavallino di
legno, nel luogo esatto, con la data esatta. Perché nel mare delle finzioni
virtuali è difficile capire cosa sia reale e cosa no; anche perché la realtà è
trattata allo stesso modo della finzione, e infatti il tenente Joshi (una
statuaria Robin Wright) commenta subito con un mi piace quando l’agente K condivide
con lei il ricordo in questione.
Ma, anche quando fossero veri, quei pochi ricordi reali,
nella collettiva sharemania,
potrebbero comunque esserci estranei tanto quanto un ricordo fasullo;
potrebbero infatti appartenere a qualcun altro che li ha solo condivisi con noi.
Sempre in una sorta di gioco di specchi tra i due Blade Runner, se Deckard nel confronto
con Roy Batty poteva avere qualche dubbio sulla propria natura, l’agente K si
illude di avere un’identità aggrappandosi ad un ricordo che non è suo.
Dai timori di un dubbio, alla desolazione lasciata da una vana
illusione: è dunque questo il percorso che abbiamo fatto dagli anni 80 ad oggi?
Silvia Hoeks
Robin Wright
Mackenzie Davis
Ana de Armas & Mackenzie Davis
Ana de Armas
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