64_BLADE RUNNER 2049 Stati Uniti, 2017; Regia di Denis Villeneuve
Quando dopo 35 anni si decide di scomodare un film
che ha fatto epoca come Blade Runner
di Ridley Scott, la prima domanda che tendenzialmente può saltare in testa è se fosse il caso. E dunque: era davvero
il caso di prendersi il rischio di confrontarsi con il film che ha consacrato
sullo schermo tutto un immaginario fantascientifico, e che pare abbia avuto di
suo già sette versioni differenti? Stando all’impostazione di questo nuovo Blade Runner 2049, sembrerebbe di si;
perché quello che ci fa osservare il regista Dennis Villeneuve, è che la realtà
odierna è andata assomigliando un po’ troppo a quello previsto dal film del
1982. E quindi Blade Runner 2049
diventa un’opera che nel suo cuore ci racconta di noi, mentre per certi criteri
estetici (ma neanche troppo) riprende gli elementi del film di Ridley Scott; verso
il quale ha certamente un rispetto maggiore per i dettagli narrativi. E su
questi pochi punti vanno fatte già alcune precisazioni. La prima riguarda il
fatto che se nella realtà di oggi ci si sia pericolosamente avvicinati ad
alcuni temi di Blade Runner, lo si è
fatto in modo opposto a quanto previsto nel film di Scott. Se in quell’opera si
supponeva che l’intelligenza artificiale potesse arrivare a competere se non
eguagliare quella umana, oggi è successo un po’ il contrario: l’uomo non si
relaziona più tanto con altri esseri umani, ma preferisce farlo con forme
artificiali. Forse i social network o
le chat, hanno particolare appeal
perché quelle che vi sono rappresentate sono figure ideali e non coerenti con
la realtà. I profili individuali non sono che avatar più o meno indipendenti
dalle persone che li gestiscono, e raramente c’è grande attinenza tra realtà e
quanto mostrato nella rete.
E in questo modo è più semplice trovarsi d’accordo e non
avere contrasti, perché manca la controprova della pratica. In ogni caso, al di
là delle motivazioni sociologiche, è un fatto evidente che oggi ci si relazioni
molto spesso con figure virtuali, che di fatto non sono persone in carne e ossa.
In un certo senso é quindi l’uomo ad essere regredito
a livello della macchina, e non tanto il contrario. Questo spunto è colto da
Villeneuve che introduce una nuova forma di vita artificiale, quella virtuale,
in grado di sostituire in quasi tutto e per tutto la compagnia di una vita
umana. Idea per altro non certo originale, visto che anche nella quotidianità di
tutti i giorni si hanno già figure virtuali tutto sommato abbastanza simili: la
voce del navigatore, l’assistente sul
computer o quello sullo smartphone.
L’altro aspetto rilevante nell’opera di Villeneuve è che il
suo film ha un approccio molto più narrativo,
quando il modello originale a livello di trama era piuttosto scarno e si basava
più su alcuni dilemmi etici e su un’iconografia ammaliante che fece davvero
scuola.
Anche se è doveroso segnalare il notevole lavoro sulla fotografia di Roger
Deakins, in Blade Runner 2049 la
componente narrativa è corposa, c’è un bel giallo, e il protagonista, il
bravissimo Ryan Golsyn, è l’agente K, un replicante cacciatore di androidi alla ricerca di quei vecchi modelli nexus ancora in circolazione. I nexus sono replicanti a cui troppo spesso
viene la tentazione di sentirsi umani; l’agente K invece non ha di queste
leggerezze, e compie con grande diligenza il proprio dovere.
E fin qui l’impostazione della vicenda sembra molto simile
al film del 1982, pur con i giusti distinguo che poi si sviluppano in modo
praticamente speculare: nel vecchio Blade
Runner, Deckard (Harrison Ford, sulla scena anche nel film di Villeneuve),
il cacciatore di androidi, era umano e il dubbio era che potesse essere un
replicante; in questo caso l’agente K è un replicante, e il dubbio è che possa
essere nato (proprio dall’unione tra
Deckard e Rachael, protagonisti nel primo film) e non creato in laboratorio. In
pratica un’opzione simile, ma di senso opposto.
Il momento chiave del film è un ricordo, che è in pratica
l’unico ricordo vero, non inventato, della storia; è l’agente K che ne
certifica l’autenticità, trovandone il riscontro nella realtà: il cavallino di
legno, nel luogo esatto, con la data esatta. Perché nel mare delle finzioni
virtuali è difficile capire cosa sia reale e cosa no; anche perché la realtà è
trattata allo stesso modo della finzione, e infatti il tenente Joshi (una
statuaria Robin Wright) commenta subito con un mi piace quando l’agente K condivide
con lei il ricordo in questione.
Ma, anche quando fossero veri, quei pochi ricordi reali,
nella collettiva sharemania,
potrebbero comunque esserci estranei tanto quanto un ricordo fasullo;
potrebbero infatti appartenere a qualcun altro che li ha solo condivisi con noi.
Sempre in una sorta di gioco di specchi tra i due Blade Runner, se Deckard nel confronto
con Roy Batty poteva avere qualche dubbio sulla propria natura, l’agente K si
illude di avere un’identità aggrappandosi ad un ricordo che non è suo.
Dai timori di un dubbio, alla desolazione lasciata da una vana
illusione: è dunque questo il percorso che abbiamo fatto dagli anni 80 ad oggi?
Silvia Hoeks
Robin Wright
Mackenzie Davis
Ana de Armas & Mackenzie Davis
Ana de Armas
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