65_DETROIT Stati Uniti, 2017; Regia di Kathryn Bigelow
L’incipit di Detroit, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è affidato a disegni
stilizzati che ci raccontano sommariamente il perché nella città
dell’automobile citata nel titolo dell’opera, situata nel nord degli Stati
Uniti, nel corso del XX secolo si formò una comunità così rilevante
numericamente di afroamericani, in origine stanziati più che altro nel
meridione del paese. E’ evidente che si tratti di una ricostruzione attendibile
fino ad un certo punto, d’altra parte Detroit
è un film drammatico, mica un documentario storico. Ma a grandi linee l’idea
potrebbe essere quella; e allo stesso modo, il resto dell’opera non è tanto da
intendere come una ricostruzione minuziosa dei fatti occorsi 50 anni fa, nel
luglio del 1967 nella città americana, per quanto esteticamente ambisca ad esserlo; ma da quello che si vede possiamo
certamente provare a farci qualche opinione in merito. E, a questo proposito,
la regista non manca di mostrarci alcune fotografie storiche, a riprova che i
fatti raccontati non sono di pura fantasia; purtroppo. Se Detroit è presentato come un film drammatico ispirato alla cronaca,
la regista pone l’accento proprio sull’evento storico in quanto tale: non c’è, infatti, un personaggio che, durante il film, si erga sopra gli altri interpreti.
Diversamente, c’è un episodio, quello legato al Algiers Motel, che si pone in primo piano rispetto a tutti i moti
di protesta, ed è, a conti fatti, il vero protagonista del film di Kathryn
Bigelow. Ad una prima parte in cui viene impostato il racconto, succede infatti
il corpo della vicenda, interamente vissuto
all’interno del motel dove avvengono efferati omicidi, torture, pestaggi e
intimidazioni, inflitti ad alcuni ragazzi da parte delle forze dell’ordine.
Il tema del razzismo domina ovviamente l’opera, e Kathryn
Bigelow sembra quasi cinicamente disincantata, quando, con perfida ironia, fa
dire ad una delle ragazze protagoniste del film “siamo nel 1967” , come dire che non fosse più il tempo di perdersi
dietro a ideologie ottuse come la discriminazione razziale. E adesso
sono passati altri 50 anni, sembra appunto dirci la regista.
Ma c’è un rammarico più grande, peggiore di quel solco che i
fatti del 1967 hanno contribuito a scavare tra le comunità, le etnie,
chiamiamole come vogliamo, dell’America, (e purtroppo non solo.)
Per quanto i fatti siano gravi, e le conseguenze forse
irreversibili, c’è di peggio, in questa storia.
Il film è corale, non ha un vero protagonista, perché il
centro della scena è l’Algiers Motel,
questo si è detto. Però, nel finale, c’è un ultima inquadratura, per uno dei
protagonisti, per il suo sguardo spento:
è Larry Reed (Algee Smith) un uomo, non un uomo di colore, un uomo e basta, che
con la sua scelta certifica la fine del Sogno Americano. L’American Dream non è stata solo una favola per i consumatori, era
anche l’ipotetica possibilità che in America chiunque, proprio chiunque, potesse
farcela, avere successo anche nel senso di fare quello che si desiderava (dream, come sogno ma anche desiderio).
Un po’ tutti abbiamo creduto nel Sogno Americano, magari anche solo per avere
il rimpianto di non godere di quella possibilità, perché confinati nelle
pastoie burocratiche del Vecchio Mondo.
Il razzismo è un problema, certo, ma è un fardello del
passato, dell’ottusità umana, che, quando un po’ di luce si facesse mai largo
in quelle opache menti, si squaglierebbe.
Ma perdere i propri sogni, anche quelli irrealizzabili, ci
lascia proprio senza alcuna speranza.
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