48_IL BUIO OLTRE LA SIEPE. (To kill a mockingbird) Stati Uniti, 1962; Regia di Robert Mulligan.
Il titolo originale, sia del film che dell’omonimo romanzo di Harper Lee, è To kill a mockingbird, in genere tradotto in italiano con ‘uccidere un usignolo’, sebbene in realtà l’uccello in questione, scientificamente chiamato mimos poliglottos, sia inesistente sia in Italia che nel nostro dizionario. Il titolo americano fa riferimento quindi all’ingiustizia, anzi al peccato inteso in senso di colpa, che si commette nell’uccidere, nello sparare, ad un piccolo uccellino, sia esso un mockingbird o anche l’usignolo della nostra traduzione. L’usignolo della metafora è Boo (Robert Duvall), un uomo ritardato temuto dai bambini della nostra storia e tenuto segregato dal padre, e che invece si rivela d’animo buono e, soprattutto, compie il provvidenziale salvataggio proprio di due di quegli stessi bambini. Nel farlo, però, ha dovuto uccidere Bob Ewell (James Anderson) un poco di buono locale, razzista, ubriacone e violento, che intendeva vendicarsi contro l’avvocato Atticus Finch (Gregory Peck) aggredendone i figli. Lo sceriffo di Maycomb paragona il candore di Boo a quello di un piccolo uccellino, e lo scagiona persino dall’accusa di omicidio per legittima difesa; un uomo abitualmente additato come mostro, una volta conosciuto si rivela invece migliore di molti altri. Andare oltre alle apparenze: in sostanza è questo il senso del titolo e del film nelle intenzione del regista Robert Mulligan, come anche della scrittrice del romanzo, Harper Lee.
E, allora, la vicenda giudiziaria, che è una sorta di inserto nella trama, una storia nella storia, sembra prendere un po’ un significato a se stante: è un ulteriore metafora. Perché la vera forza di risonanza del film è proprio questa, la parte processuale, con l’avvocato Finch chiamato a difendere un cittadino di colore da una palesemente falsa accusa di violenza carnale ai danni di una ragazza bianca. Fatto non secondario, siamo in Alabama nel 1932. Il buio oltre la siepe è un film che ha colpito l’immaginario di molti, anche in Italia; e per tutti (o quasi) è il film in cui l’avvocato Gregory Peck difende un uomo di colore innocente da una ingiusta accusa.
Ma questo è forse legato all’aspetto liberal, molto attuale negli anni 60, per cui quello che colpisce è l’ingiustizia ai danni dei neri americani. Ma il film non è solo questo, o comunque questo non è il solo punto focale della storia raccontata. In realtà Il buio oltre la siepe è (quasi) un racconto di formazione, con Scout (Mary Badham), la figlia di Atticus, che è voce narrante e testimone della vicenda. Il racconto è focalizzato su un paio di stagioni dell’infanzia della bambina, passate col fratello Jem e l’amico Dill, a giocare per strada e a sfidare la paura, andando nel cortile della terrorizzante casa dove veniva tenuto recluso il misterioso Boo, nel tentativo di scorgerlo.
Ecco, per tutto il primo tempo, Il buio oltre la siepe è un film horror per ragazzi; e anche la chiusa finale è su questa linea. La paura che i bambini hanno del buio, di quello che non conoscono: e per tornare sui titoli, quello italiano fa riferimento proprio a questo. L’argomento razziale è una sorta di fulmine a ciel sereno, perché porta il discorso su un piano decisamente più drammatico. Potrebbe sembrare che
Ad un certo punto nel film arriva un cane idrofobo, ciondolante si piazza in mezzo la strada, minaccioso: verrà abbattuto con un colpo di fucile da Atticus. In seguito Bob Ewell, il becero razzista (nonché padre della ragazza che si professava violentata dal nero; nero che, per inciso, sarà poi condannato) si presenta ubriaco e malfermo esattamente come il cane rabbioso. Il razzismo è così paragonato alla rabbia canina; una malattia, un virus, da debellare in modo anche radicale. Quindi se Bob Ewell si merita, fuor di metafora, una fucilata, sempre stando al linguaggio della storia, Boo, il presunto uomo nero, come l’uccellino del titolo americano, non deve invece essere toccato. Nel complesso Il buio oltre la siepe è un film davvero strano, perché mescola due storie dal tenore molto diverso, trovandoci però delle aderenze, delle assonanze, e su queste gioca la sua partita. Un po’ storia horror d’infanzia, un po’ manifesto liberal antirazzista, la pellicola riesce in ogni caso ad appassionare e colpire nell’immaginazione dello spettatore. E nel farlo, lancia un messaggio contro ogni forma di discriminazione; che non fa mai male.
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