1679_EASTERN FRONT (Shidniy front), Stati Uniti, Ucraina, Lettonia, Repubblica Ceca, 2023. Regia di Vitaly Manskiy e Yevhen Titarenko
Quasi verso la fine di Eastern Front, Yevhen Titarenko, tra il serio e il faceto, prova ad immaginare come finire il documentario di cui, insieme al decano Vitaly Manky, è regista. La riconquista di Kherson, che ne farebbe la prima grande città ripresa ai russi dopo la violenta invasione cominciata il 24 febbraio 2022, sarebbe un finale a suo modo soddisfacente. Titarenko prova anche a formulare alcune ipotesi più ottimistiche: se Fronte Orientale fosse un film di guerra, un film «di genere», allora, ad essere liberata sarebbe l’intera Ucraina, Donbas e Crimea compresi. Se poi fosse un film di Science Fiction, allora il giovane regista immagina la Piazza Rossa in fiamme, cadaveri sparsi ovunque, la salma di Lenin oltraggiata, insomma, per Titarenko è fantascienza poter rendere quello che si dice «pan per focaccia» agli invasori. Anche in questo passaggio, che sembra un innocuo diversivo per annunciare la fine del documentario, c’è un bell’esempio dell’umorismo ucraino: mentre si finge di fare una battuta feroce contro il nemico, si dichiara la propria impotenza a fronte di una situazione ingiusta e insostenibile. Eastern Front è frutto della collaborazione tra Vitaly Mansky e Yevhen Titarenko: stando ai titoli di coda, il primo è autore e regista; il secondo è regista e direttore della fotografia. In pratica, si tratta di un’operazione metalinguistica simile, per restare nell’ambito dei film che trattano la crisi russo-ucraina, all’ottimo The Earth is blue as an Orange [The Earth is blue as an Orange, Iryna Tsilyk, 2020] della bravissima Iryna Tsilyk, ovvero un documentario che mostra come venga realizzato un documentario. In questo caso abbiamo Mansky che dirige, per così dire, «dall’esterno», nel ruolo di supervisione generale peculiare del regista cinematografico; dal canto suo Titarenko, «interpreta» la parte del regista d’assalto, tipico dei documentari, colui che si reca sulla scena dei fatti per prendere le notizie di prima mano. Il tema metalinguistico è quindi strutturale, in Eastern Front e, come già visto, in chiusura viene anche sottolineato in modo evidente, con Titarenko che immagina tre finali diversi in base agli ipotetici «generi», documentario, film bellico o di fantascienza. Ma c’è anche l’esplicito rimando agli spaghetti western, visto che, ad un certo punto, si sente il celebre tema musicale di Per qualche dollaro in più [Per qualche dollaro in più, Sergio Leone, 1965] di Ennio Morricone; un richiamo forte, considerato che, del cinema di «genere», il western all’italiana è forse l’esempio più sfacciato. Per quale motivo Mansky –che dei due registi è l’«autore», almeno stando ai credits– vuole sottolineare che Eastern Front è sì un documentario, ma è cinema esattamente come gli action movie bellici, i film di fantascienza e persino i western di Sergio Leone e compagnia? Perché Vitaly Mansky –che, tra i tanti incarichi di prestigio ha ricoperto anche quello di Responsabile della Produzione e della Trasmissione di Documentari per TV Russia, il primo canale pubblico del Paese, dirigendo personalmente documentari su Gorbaciov, Eltsin e Putin– conosce molto bene la differenza tra il cinema e gli altri media audiovisivi. Il cinema è sempre soggettivo e lo mette subito in chiaro, ribadendo l’importanza di chi dirige le operazioni e che, con la sua attività, offre sempre e comunque solo il suo personale punto di vista, che può anche essere collettivo se frutto di collaborazione, ma è sempre riferito al lato umano dei soggetti coinvolti. Naturalmente anche la televisione o internet sono soggettivi, ma cercano di dissimulare questa caratteristica spacciandosi per media «trasparenti». Mansky vuole evidenziare proprio questa caratteristica autoriale e personale –artistica in una parola– del cinema: mette infatti in scena un regista, Titarenko, che dirige un film ambientato in prima linea, nella guerra russo-ucraina. Per questo è possibile vedere i «dietro le quinte», perfino i dialoghi su come cercare di finire un documentario che, per sua natura, dovendo seguire delle vicende reali, non ha necessariamente una chiusa definibile a piacimento. Inoltre, ad inizio film, viene sottolineato come il nome di battaglia di Titarenko sotto le armi sia Rezhik, abbreviazione di Rezhiser, che significa appunto direttore, regista. Il giovane cineasta ha in effetti anche un ruolo di rilevanza nel Battaglione Hospitallers, un gruppo di volontari che si occupa di recuperare i feriti e portarli nei posti di soccorso. Insomma, Titarenko è regista dentro e fuori lo schermo, a sottolineare la natura metalinguistica dell’opera.
Per Vladan Petkovic, recensore del sito Cineuropa.org, Eastern Front è “il documentario definitivo sui primi sei mesi dell’aggressione russa all’Ucraina”. [pagina web https://cineuropa.org/it/newsdetail/439199/, visitata l’ultima volta il 2 dicembre 2024]. Un’investitura mica da ridere, ma pienamente meritata da Mansky, Titarenko e i loro collaboratori: Eastern Front è un film notevole sotto ogni aspetto. Titarenko, con i suoi compagni, nello svolgere la fondamentale attività di soccorso, può attingere ad immagini direttamente dalla Prima Linea, e questo è già un valore assoluto per il documentario. Cosa che, per altro, si era già vista nel precedente lavoro del regista, Vouna Rady Myra/War for Peace; ma, con il suo apporto, Mansky cerca di andare oltre al semplice resoconto. In aggiunta a ciò, infatti, il film mostra una rara efficacia nel raccontare per immagini, anche attraverso l’ordine del montaggio delle scene, e qui è, appunto, assai probabilmente, la sapiente mano di Mansky a fare la differenza. L’avvio del film coglie la curiosa coincidenza della ricorrenza del Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina, il 24 agosto, che coincide con i sei mesi dall’inizio della guerra: i carri armati russi arrugginiti abbandonati per le strade di Kyiv sono efficaci monumenti al pericolo che ancora sovrasta l’Ucraina e la sua indipendenza. Poi si entra nel vivo dell’azione: una corsa a perdifiato in l’ambulanza, il ferito grave, molto grave, troppo grave, e bisogna andare veloci ma, allo stesso tempo, vanno possibilmente evitati scossoni e bruschi cambi di direzione. Il tempo stringe, il ferito è ferito ovunque, in ogni parte del corpo o quasi; il percorso è difficoltoso, ci sono le barricate da schivare, così come le buche della strada bombardata, mentre niente si può fare per i dossi artificiali ancora presenti sulla carreggiata, ma occorre fare in fretta. La telecamera inquadra l’interno dell’ambulanza, il caos coi soccorritori che si affannano e, nella concitazione, il ferito è visto solo di sfuggita. Poi, quando forse è troppo tardi, la telecamera sale e mostra la gravità della situazione, l’uomo ha il colore della morte sebbene gli addetti si affannino col massaggio cardiaco e l’ossigeno nell’estremo tentativo di riportalo in vita. Una scena traumatizzante; ma Mansky sa bene che non è brutalizzando gli spettatori che riuscirà a rendere la pesantezza della situazione nel suo Paese, e allora concede subito un po’ di respiro, con uno stacco radicale. Siamo da qualche parte nell’ovest dell’Ucraina, i ragazzi del Battaglione Hospitallers sono in costume da bagno, nei pressi di un lago, conversando tranquillamente sulla situazione, immersi nella calda luce solare. L’argomento più interessante è la costatazione di come la generazione precedente, quella dei genitori di questi giovanotti, sia stata talmente forgiata dal regime sovietico al punto che, per Putin e la sua propaganda televisiva, è un gioco da ragazzi imbottirgli la testa di falsità. Un membro del gruppo racconta di come sua madre fosse talmente convinta che i russi non fossero coinvolti negli scontri al fianco dei separatisti nel Donbas, al punto di non credergli quando le diceva di averli combattuti in prima persona. La donna riteneva più attendibili le bugie raccontate da un elettrodomestico piuttosto che la verità vista da suo figlio coi suoi propri occhi. Il montaggio prosegue alternando scene belliche, evidenziate da una luce dominante color seppia, ad altre prese da attimi di vita lontani dalla prima linea.
Questo permette di confrontare le due situazioni, riportando sempre la realtà della guerra alla sua assurdità in rapporto alla normalità della vita quotidiana. Intanto, ci sono un paio di passaggi dal fronte insoliti, che servono a far ulteriormente riflettere lo spettatore sulla scala di gravità in cui si trova un Paese sotto brutale aggressione. La prima scena è spiazzante: i ragazzi protagonisti del documentario trovano alcune vacche di una fattoria che sono state abbandonate e sono ora immerse completamente nella palta e nel fango, bloccate senza alcuna possibilità di fuga. I giovani provano a tirarle fuori da questa sorta di sabbie mobili ma non c’è niente da fare per le povere bestie. Può sembrare strano, in un film che racconta della guerra, di soldati morti a decine, di civili massacrati, di città distrutte, ma vedere degli animali domestici lasciati agonizzare stringe il cuore. In fondo, le bestie, che colpa hanno della follia umana? Uno dei presenti commenta efficacemente: “È come l’Inferno di Dante!”. Davvero. L’altra scena che sorprende completamente lo spettatore è quella in cui uno dei militari entra in una residenza e viene aggredito dal cane di casa; l’uomo spara ripetutamente all’animale, lo insegue, continua a sparargli, finché non lo uccide. Una reazione spropositata, come sembra sottolineare anche uno dei presenti alla scena. In guerra, per quanto assurdo possa sembrare, ci si abitua al concetto di uccidere il nemico, che è costituito da persone come noi soltanto con un’altra divisa; o anche senza, visto che le vittime civili abbiamo imparato a considerarle come «effetti collaterali». Forse non è una cosa che accettiamo, nel nostro profondo, semplicemente è come se sospendessimo il giudizio morale sulla questione. Basta che l’oggetto nel mirino del mitra sia un animale domestico e non un umano, perché che questa sospensione decada e assistere all’uccisione di un cane ci turba. Genialità degli autori. Con questi carichi emotivi la tensione si accumula, seppure le scene con le riunioni famigliari tengano la situazione sotto controllo, ma nel complesso il documentario trova una strada originale per raccontare la guerra russo-ucraina, rispetto agli altri prodotti simili. Non che se ne dissoci, sia chiaro: forse sono solo coincidenze, ma non mancano nemmeno stavolta le tende svolazzanti delle finestre sventrate, simili a fantasmi, forse il cliché figurativo per antonomasia di questa guerra. E non manca nemmeno il tema della paura ucraina di venire cancellati dall’umanità, una vera fobia che certifica, più di ogni altra cosa, la brutalità degli invasori. C’è la solita ironia ucraina, per cui, in quest’occasione, si va sull’argomento parlando di una possibile raccolta dello sperma degli uomini impegnati al fronte prima che, con la loro morte, non si estingua del tutto l’etnia ucraina. Una preoccupazione che affligge le compagne dei nostri protagonisti, che sembrano quasi scherzarci su, ma che rivela la radicata preoccupazione ucraina di venire eliminati più che sconfitti. Questi dettagli, comuni agli altri documentari, sembrano ascrivere consapevolmente Eastern Front al filone dei film sulla guerra russo-ucraina, del resto Mansky e Titarenko hanno sottolineato in più modi che il loro è vero cinema e non un banale reportage. E, come il vero cinema, riserva un gran finale, seppure non si può certo dire che sia lieto, anzi. Dopo avercene dato un assaggio subito in apertura, con la citata scena dell’ambulanza, dopo averci mostrato il rapporto tra la guerra e la vita quotidiana, dopo aver sottolineato la gravità della situazione, dimostrando quanto gravi sono le sofferenze inflitte agli animali, si arriva al nocciolo, il fronte durante la battaglia. La scena è veloce, brutale come un’incursione, il bosco brullo, pattume sparso ovunque, poi l’esplosione, il fumo, le grida. Si fatica a raccapezzarsi, a capire quello che succede, la telecamera, un Iphone posto nel taschino di Titarenko, rotola insieme al regista, il mondo va sotto sopra ma tutto ciò conta poco al confronto con l’immagine della morte, dei caduti in battaglia, o forse sono solo feriti, chi può dirlo; ma, nel caso, devono essere davvero gravi. Gli Hospitallers ne raccolgono uno e via, di corsa a perdifiato verso il mezzo di soccorso. Il fiatone, qualcuno dice che è tutto ok, la telecamera inquadra il cielo lattiginoso tra i rami spogli poi lo schermo dissolve in un bianco abbagliante. È dunque questo, il destino dell’Ucraina? Sparire nel nulla? È un rischio, certo, ma Mansky e Titarenko hanno ancora qualcosa da dire. Una didascalia finale ci informa che i personaggi del film hanno parlato tra loro in russo e in ucraino. In un film ucraino, che racconta di come gli ucraini debbano combattere per non venire cancellati dagli aggressori, gli autori sottolineano l’utilizzo, nel loro film, della lingua russa, che è il primo elemento che contraddistingue un popolo. L’Ucraina ribadisce il suo diritto di esistere riconoscendo l’esistenza di chi la vuole eliminare.
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