835_LA CITTADELLA . Italia, 1964; Regia di Anton Giulio Majano.
Tratto dal romanzo omonimo di Archibald Joseph Cronin, La Cittadella è uno dei più grandi successi tra gli sceneggiati Rai classici. Nel 1964 Anton Giulio Majano aveva già una proficua esperienza non solo al cinema ma anche sul piccolo schermo e ormai padroneggiava in modo sontuoso gli stilemi dello sceneggiato televisivo. Che aveva peculiarità specifiche: i minori mezzi tecnici rispetto ad una produzione cinematografica venivano infatti colmati facendo ricorso alle prerogative del teatro. Scenografie a volte posticce ma sempre evocative, attenta ricostruzione degli interni, uso di una ripresa discreta (ma non piatta) e soprattutto interpreti presi direttamente dal palcoscenico. Prima di passare al cast, vero punto di forza de La Cittadella come di ogni altro sceneggiato Rai dell’epoca, vanno chiariti almeno due aspetti, in genere punti deboli delle produzioni televisive dell’epoca e al contrario di buon pregio in questo caso. Le scenografie sono molto curate e credibili e La Cittadella presenta anche validi passaggi in esterni; molto efficaci le scene girate nella miniera di Gavorrano. Inoltre l’uso delle inquadrature, se pur non verte su un montaggio di stampo cinematografico, fa comunque un discreto ricorso al campo/controcampo soprattutto nei dialoghi tra la coppia di protagonisti sulla cui relazione si fonda l’efficacia della storia. Al centro del racconto c’è uno straordinario Alberto Lupo (è il dottor Andrew Manson), vera star del film, e a suo fianco una formidabile Anna Maria Guarnieri (la moglie Cristina).
La bellezza discreta della Guarnieri, unita alla sobria eleganza, alle qualità morali, alla tenacia, alla forza d’animo del suo personaggio, tratteggeranno un ideale di donna che, negli anni sessanta, provava a riassumere i valori della tradizione e le spinte più progressiste in materia di pari opportunità. La Cristina interpretata da Anna Maria, insomma, poteva rappresentare una preventiva risposta istituzionale (provenendo dalla Rai, che è la televisione di stato) alle proteste nello specifico che prendevano sempre più corpo e che andranno ad alimentare la rivoluzione sessantottina pochi anni dopo. Ma, come detto, negli sceneggiati Rai occorreva che ci fosse sullo schermo un attore carismatico in ogni momento del racconto, per mantenere l’attenzione desta dello spettatore, non potendo contare il racconto filmico sul ritmo imposto da un montaggio adeguato.
Così, tra gli interpreti degli amici di Manson troviamo Carlo Hintermann (Denny), Alessandro Sperli (Hope), Luigi Pavese (Boland), mentre tra i nemici gli eccellenti Nando Gazzolo (Freddie) e Franco Volpi (Ivory). Notevole la presenza scenica di Eleonora Rossi Drago (Francis) nel ruolo dell’amante di Manson, ma l’attrice palesa un’interpretazione troppo artefatta per essere davvero convincente. Se la cava, ovviamente, col mestiere oltre che con l’indiscutibile physique du rôle, ma sul piccolo schermo non sembra raggiungere le prestazioni viste al cinema. La struttura narrativa de La Cittadella è curiosa: il primo episodio, sia per durata che per sviluppo narrativo, potrebbe costituire una storia autoconclusiva. Un nuovo dottore arriva in un paese minerario, nei primi anni del XX secolo e, tra mille difficoltà, si farà apprezzare. Il trasferimento nel successivo paese, sempre nei pressi di una miniera, è più duraturo e prevede qualche scena di maggior impatto, ma lo schema sembra tutto sommato lo stesso.
Se non ci si lascia trasportare dalle drammaticità degli eventi, dalla regia funzionale, dalla efficacissima musica di Riz Ortolani, potrebbe venire il dubbio che il racconto sia un po’ troppo di maniera. In realtà le successive svolte narrative saranno sorprendenti e di grandissima intensità emotiva. Il figlio perso da Cristina, la scalata professionale del dottore, dopo che la coppia si era trasferita a Londra, l’insidia sentimentale portata da Francis, sono tutti elementi perturbanti alla serenità della coppia e così, anche un rapporto all’apparenza indistruttibile come quello dei Manson si incrina seriamente. Il che è una sorpresa: La Cittadella era sembrato sin lì l’apologia dei buoni sentimenti, bilanciata unicamente da alcune drammatiche sequenze (ad esempio quella della miniera o della citata perdita del figlio atteso da Cristina). Invece anche la moralità di Manson viene messa sotto accusa, e pesantemente, e anche nel comportamento di Cristina, per quanto idealizzato dalla prospettiva un po’ biografica del racconto all’origine, si possono riscontrare atteggiamenti criticabili (un certo orgoglio un filo troppo puntiglioso). Il racconto, ad un certo punto, sembra addirittura deragliare dalla sua strada maestra: l’operazione condotta dal dottor Ivory, che porta alla morte del paziente in quello che avrebbe dovuto essere un semplice intervento chirurgico quasi di routine, considerata la complicità di Manson, provoca un vero sconquasso narrativo.
A quel punto Manson era ormai un dottore affermato, attento più al successo nella professione che ad altro e Cristina mal sopportava questo cambiamento d’animo nel marito. Francis, che era stato uno dei primi motori ad indurre questo cambio di rotta di Manson, aveva subito approfittato del malumore della moglie, inserendosi in pianta stabile in qualità di amante. Questa condotta, se in apparenza non aveva risvolti negativi (il rapporto con Cristina poteva essersi anche esaurito naturalmente) aveva invece causato la morte di un uomo, sotto i ferri dello sciagurato dottor Ivory. Era la scossa che serviva per ritornare in pista a Manson che, oltre a ricucire il rapporto con la moglie, doveva finalmente riuscire a guarire la povera Mary (Laura Efrikian) figlia dell’amico Boland, malata di tisi. Per far questo Manson si rivolge a Stilmann (Ferruccio De Cersa), uno studioso che opera una nuova tecnica, tramite lo pneumotorace artificiale: l’operazione va bene ma espone il nostro dottore ad un rischio.
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