842_MARCIA SULLA DRINA (Mars na Drinu). Jugoslavia, 1964; Regia di Žika Mitrović.
Il titolo del film Mars Na Drinu, regia di Žika Mitrović, letteralmente Marcia sulla Drina, è un tributo all’omonima traccia musicale di Stanislav Binički. Il musicista compose la marcia, di chiara ispirazione patriottica, nel 1915, proprio in riferimento alla Battaglia del Cer, l’evento bellico al centro del film di Mitrović. Ad onor di cronaca, va segnalato che la canzone è stata oggetto di qualche controversia, in seguito ai tragici tempi che l’area balcanica attraversò a partire dal 1992. E forse Mars na Drinu è stata usata a sproposito, in qualche drammatica circostanza. E’ altresì chiaro che le parole, almeno quelle ufficiali, sono comunque quelle di un canto che celebra una battaglia e quindi esistono testi dal contenuto più pacifista. Però, al netto delle strumentalizzazioni politiche, almeno fino al 1964, anno di realizzazione del film di Žika Mitrović, non si poteva leggere niente di negativo nell’utilizzo della canzone in oggetto per un film di guerra dal sapore a suo modo celebrativo. E, oltretutto, come marcia militare patriottica è molto bella ed evocativa e ben introduce il film omonimo. Mars Na Drinu è un film di guerra perfino abbastanza rigoroso dal punto di vista storico tanto che, per seguire le vicende delle truppe armate serbe, rinuncia ad avere il supporto di una concreta storia di fantasia che si ponga in controluce ai fatti bellici. Si, c’è il tenente Hadživuković (Nikola Jovanović) la cui famiglia facoltosa spinge perché rimanga nelle retrovie e che invece vuole andare in prima linea. Nobile intento, quello dell’ufficiale che purtroppo, sarà però protagonista di un atto non troppo lusinghiero ovvero l’abbandono di un cannone in mano austroungarica e anche il suo amico, e superiore di grado, il capitano Hadživuković (Aleksandar Gavrić) lo sospetterà di essere un vile. Il capitano è il protagonista ufficiale del film ma l’istrionico maggiore Kursula (Ljuba Tadić) gli rubrà costantemente la scena. Kursula entrerà addirittura in una relativamente scherzosa polemica col generale Stepa Stepanović (Nikola Jovanović), personaggio storico di notevole importanza, su chi avesse ragione circa il luogo in cui gli austroungarici avrebbero attaccato.
Il comando militare aveva previsto che l’offensiva nemica sarebbe passata attraversando il fiume Sava; solo Kursula si ostinava a sostenere che gli austroungarici avrebbero scelto la strada meno ovvia, guadando appunto il fiume Drina. Ritenuto poco saggio dal comando militare, l’estroso maggiore aveva invece avuto ragione su tutta la linea e gli imperiali rischiavano ora di cogliere impreparati i serbi. Una volta che le strategie militari si erano manifestate, Kursula, fedele al suo temperamento, era andato pure a rinfacciare la sua lungimiranza ad uno scocciato generale Stepanović, direttamente sul campo di battaglia. Come si vede le vicende narrate, pur se romanzate, sono strettamente legate agli eventi militari della Campagna di Serbia, di cui
E’ effettivamente vero che l’offensiva austroungarica non era attesa dai serbi attraverso il fiume Drina e anche la capitolazione di Šabac, evento che viene citato nel film, è un fatto storico. Da un punto di vista narrativo Mars Na Drinu è composto prevalentemente da due ambientazioni: i lunghi ed estenuanti spostamenti delle milizie serbe, in marcia per chilometri, e la furibonda battaglia finale. Ci sono poi alcune scene goliardiche, dalle cene degli ufficiali nel periodo di tempo precedente all’apertura delle ostilità, alle scene tra i ceffi poco raccomandabili della truppa che si insultano scherzosamente. Se le sequenze coi lunghi trasferimenti sono infarcite di questi passaggi, che tengono desta l’attenzione, quando scoppia la battaglia non c’è molto spazio narrativo per altro che non siano eventi di natura strettamente bellica. Quella mostrata è essenzialmente una battaglia di artiglieria, con i colpi dei cannoni che aprono voragini sulle pendici della collina chiamata impropriamente monte Cer, oltre che nelle file degli eserciti in lotta. Non mancano le cariche degli austroungarici che, come Storia insegna, alla fine verranno respinte oltre
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
DRINA INSANGUINATA: LA CAMPAGNA AUSTRO-SERBA DEL 1914
La sconfitta subito dall’esercito austro-ungarico nella campagna serba del
1914 è annoverata tra le grandi debacle militari del XX secolo: bisognerà
aspettare le imprese degli eserciti italiani in Grecia durante la Seconda
guerra mondiale per vedere qualcosa di analogo, con un piccolo Paese aggredito
che riesce non solo a resistere all’invasione ma anche a contrattaccare con
successo.
Le ragioni del disastro, viste dal punto di vista austro-ungarico e non
dimenticando mai i meriti e l’abnegazione serba, sono diverse: una certa
rivalità tra il comandante in capo dell’esercito, Conrad, e Oskar Potiorek il
generale preposto alle operazioni nei Balcani; l’inesperienza di quest’ultimo
(in precedenza, Potiorek non aveva mai comandato neppure una divisione e ora si
trovava tra le mani un esercito); l’inadeguatezza da parte dell’esercito
austro-ungarico a condurre una guerra su due fronti, in Serbia e in Galizia; il
terreno ostile; la durissima politica nei confronti delle popolazioni civili
che privò subito l’esercito di qualsiasi appoggio locale; ma, ad un livello più
profondo, la vera ragione della sconfitta sta nella folle politica di
mobilitazione e spostamento dei tre grandi gruppi in cui era diviso l’esercito
austriaco (Staffel A, Staffel B e Minimalgruppe Balkan). Già
parzialmente riconosciuti nella storia ufficiale austro-ungarica della guerra,
gli effetti nefasti delle incertezze in fase di mobilitazione e piazzamento
furono studiati ampiamente e in tutta la loro portata dallo storico Norman
Stone che ne trattò diffusamente nel suo libro The Eastern Front 1914-1917 (1975),
sottolineando le responsabilità di Conrad in merito.
Il comandante preposto alla campagna serba era il generale Oskar Potiorek, una scelta quanto mai infelice se mai ce ne fu una: Potiorek infatti, oltre a non aver mai avuto un comando degno di nota in precedenza (il che si comparava sfavorevolmente con i comandanti serbi suoi avversari, che si erano fatti le ossa nelle recenti guerre balcaniche), non si trovava in uno stato d’animo ideale per condurre la campagna; egli era stato, infatti, il responsabile della sicurezza personale di Francesco Ferdinando quella fatale giornata a Sarajevo, anzi si trovava proprio sull’auto dell’attentato e, come era ovvio, la sua condotta in merito era stata oggetto di critiche selvagge da parte della stampa viennese. Potiorek vedeva nella guerra un’occasione di riscatto: una rapida e definitiva vittoria contro i Serbi avrebbe ricacciato nella gola dei giornalisti viennesi tutto il veleno che avevano sputato in quei giorni; per ottenere ciò, Potiorek impresse fin dall’inizio una direzione marcatamente offensiva alla campagna, ansioso di dimostrare il suo valore. Questo senza consultarsi più di tanto con quello che, in teoria, era il suo superiore, comandante in capo Franz Conrad von Hotzendorf, a sua volta impegnato in una offensiva contro i russi in Galizia. Anzi, Potiorek brigò a corte affinché il suo comando fosse di fatto svincolato dall’ Armeeoberkommando (alto comando dell’esercito, AOK d’ora innanzi) che aveva sede a Przemysl nella lontana Galizia. Questo slegamento tra comando supremo e operazioni nei Balcani, la cui responsabilità è da imputare a entrambi i generali, Conrad e Potiorek, sarà gravido di conseguenze.
Bello sulla carta, il piano di Potiorek in realtà non era meno fantasioso dei grandi schemi strategici di Conrad per la mobilitazione: innanzitutto ignorava il terreno difficile, montagnoso, privo di strade decenti sul quale le due armate avrebbero dovuto avanzare; una rapida avanzata in un simile territorio era da escludere a causa delle difficoltà logistiche, difficoltà che Potiorek ignorò colpevolmente. Ancora peggio, la 5° e la 6° armata erano separate da più di 115 km: il ruolo di raccordo tra le due unità spettava alla 2° armata che però, come sappiamo, era lì quasi per caso e a scadenza in attesa di essere spostata contro i russi; quando fu ritirata un abisso si aprì tra le due armate austro-ungariche. Infine, numericamente, i serbi potevano reggere il confronto ed avevano anche altri vantaggi: giocavano sulla difensiva, per difendere il loro stesso suolo e avevano esperienza recente di combattimento (guerre balcaniche). La ricetta per il disastro era servita.
L’invasione della Serbia cominciò il 12 Agosto. La 5° armata comandata dal General der Infanterie Liborius von Franck, attraversò la frontiera. Essa era composta di un Corpo, l’VIII (Praga), potenzialmente sensibile dal punto di vista politico, e di un altro, il XIII (Zagabria) al di sopra di ogni sospetto. Come spesso nell’esercito asburgico, le questioni etniche erano di primaria importanza: l’VIII Corpo era formato da Cechi, una importante componente etnica all’interno dell’impero, storicamente turbolenta, in particolare dopo il 1867 e il Compromesso che aveva portato ad una situazione paritaria tra Austria e Ungheria, senza che nulla di analogo fosse però riconosciuto agli elementi slavi dell’Impero. Il XIII Corpo composto da croati, non dava preoccupazioni in quanto tradizionalmente i croati erano tra i più fedeli alla monarchia e assolutamente ostili ai serbi.
L’avanzata della 5° armata si rivelò subito complicata: al terreno difficile si aggiungeva l’azione degli irregolari serbi che, sin da principio, rese complicata la convivenza degli austriaci con le popolazioni civili. La 6° armata, che qualche giorno più tardi a sua volta entrò in Serbia più a sud, incontrò analoghe resistenze. Totalmente sganciato dalla realtà, Potiorek si limitò ad annotare nel suo diario: la mia guerra è iniziata. Il 14 agosto, la 21° Divisione dell’VIII Corpo raggiunse il Cerska planina o altopiano del Cer, un’area collinare e tortuosa lunga 12 miglia e larga 4, alta tra i 1000 e i 3000 piedi. In questo luogo i serbi decisero di attaccare all’una di notte del 16 agosto. La battaglia del Cer fu ferocissima, il generale serbo Mihailo Rasic, comandante della divisione attaccante, lanciò le sue unità nel calderone una dopo l’altra e fece intelligente uso della sua artiglieria. Gli austriaci furono colti di sorpresa: la 21° Divisione resistette come poté, anche se alcune sue unità come lo sfortunato 28° reggimento furono distrutte. Prima di mezzogiorno la battaglia si era stabilizzata, ma i nervi dei comandanti austriaci cedettero prima di quelli dei loro colleghi serbi; fu ordinata la ritirata dal Cer, che venne effettuata sotto gli occhi del re serbo Pietro, appostato su una collina. Il 20 agosto, dopo una ritirata difficoltosa con i serbi alle calcagna, la 5° armata ritornò in Bosnia e nessun soldato nemico rimase in Serbia.
La battaglia del Cer ebbe un profondo impatto psicologico (e, per alcuni personaggi, persino psichiatrico): Potiorek si affrettò ad accusare gli “sleali” Cechi per il fallimento. Era un’accusa davvero ingenerosa ed ingrata, dal momento che la 21° Divisione si era battuta fieramente e molti dei suoi ufficiali, incluso il colonnello del 28° reggimento, erano morti o feriti. Piuttosto, il motivo della sconfitta era da ricercare nella inconsistenza del piano di Potiorek stesso, nella faciloneria con la quale lanciò l’esercito alla conquista di un terreno difficile senza curarsi degli aspetti logistici della campagna. La polemica fu comunque dannosa, dal momento che i cechi, inizialmente bendisposti nei confronti della guerra, progressivamente si raffreddarono. Conrad, dalla lontana Galizia, non fece niente per regolare questi diverbi; l’AOK alle prese con la grana ben maggiore dei russi e di fronte a un sostanziale disimpegno tedesco sul fronte orientale, si concentrò sulle offensive di Krasnik e Komarow, delegando totalmente a Potiorek l’amministrazione delle cose serbe.
Il comandante serbo, l’abile generale Putnik, non si accontentò comunque di cacciare il nemico dal suolo patrio: lo incalzò anche oltre frontiera, arrivando addirittura a meno di venti chilometri da Sarajevo in quella che fu più una minaccia che una invasione vera e propria ma che colse nel segno provocando una crisi di nervi e di panico tra i comandanti austriaci. La situazione si stabilizzò presto e, dopo aver riportato qualche vittoria locale che costrinse i serbi a tornare dietro la frontiera, Potiorek si preparò ad una nuova invasione, l’ennesima chance di riscattarsi.
Questa volta, facendo tesoro delle lezioni del Cer, la parte logistica venne maggiormente curata; la sensibilità politica nei confronti dei Cechi, invece, non venne curata affatto, al punto che i quadri ufficiali dei reggimenti cechi furono spostati, per l’addestramento, in aree politicamente sicure dell’Austria tedesca, cosa che alienò ancora di più i soldati di quella nazionalità, già fortemente provati dalle accuse di viltà in battaglia. Ancora una volta, la strategia comportava un movimento a tenaglia da parte della 5° e della 6° armata che avrebbe dovuto schiacciare i serbi in mezzo; a partire da ottobre, la strategia sembrò funzionare, dal momento che gli austriaci stavano avanzando lentamente ma costantemente: i serbi eroicamente cercavano di resistere ma ora le perdite si facevano sentire anche nel loro esercito. Potiorek sembrò finalmente avere ragione, anche se stava ottenendo i suoi scopi per mezzo dell’attrito, più che con finezza napoleonica. Il 24 Ottobre, venne lanciata l’offensiva su Valjevo con l’obiettivo di distruggere l’esercito serbo: battaglia violentissima, durata tre giorni, mostrò ancora una volta il valore della 21° Divisione che si lanciò senza risparmio contro le trincee serbe. L’esercito serbo martellato senza pietà si ritirò in buon ordine: non era stato annientato come avrebbe voluto Potiorek, ma per la prima volta era costretto ad una ritirata strategica di una certa importanza. Potiorek incalzò i serbi in ritirata e il 6 Novembre lanciò una nuova offensiva della 5° armata, intorno a Dobric, dove la 21° Divisione perse in poche ore 560 uomini. Stavolta la tenace resistenza serba ebbe successo.
Meglio andavano le cose sul fronte della 6° armata, la cui avanzata sembrava inesorabile e distolse forze serbe dalle trincee davanti la 5° armata, il che portò alla caduta di Valjevo il 15 novembre. L’offensiva di Valjevo si era dunque conclusa con un successo: 8000 prigionieri erano stati catturati, 42 pezzi d’artiglieria e 31 mitragliatrici, oltre l’aver bucato il fronte serbo in un importante settore.
Battuto, e trincerato molto dentro il suo paese, il nemico non era però ancora disperso e costituiva una forza combattente ancora temibile, tanto più che l’imminente arrivo dell’inverno rischiava di essere un importante carta a suo favore. Proprio con lo scopo di concludere la campagna prima dell’inverno, Potiorek riprese l’offensiva quasi immediatamente, senza curarsi di ripianare le perdite di uomini e materiale e soprattutto senza stabilire un contatto logistico tra le colonne offensive più avanzate e il quartier generale, ritornando così ad una situazione simile a quella precedente la battaglia del Cer. La 5° armata fu fatta marciare in avanti senza pietà, senza riposo, senza assennatezza: il 2 Dicembre si impossessò di Belgrado e quel giorno stesso il generale serbo Putnik notò la debolezza dello schieramento austriaco troppo spinto in avanti e con un grande iato tra 5° e 6° armata e ordinò l’offensiva generale. Questa volta, la vittima dell’offensiva serba sarebbe stata la 6° armata, particolarmente il suo XV Corpo. Putnik attinse a tutte le riserve disponibili e al nuovo carico di munizioni arrivato fresco dalla Francia; Belgrado e gli altri settori furono virtualmente abbandonati agli austriaci, tutte le forze disponibili vennero concentrate per la battaglia contro la 6° armata che iniziò il 3 Dicembre.
Le conseguenze di questo terribile fallimento furono molteplici. Potiorek fu sostituito con l’Arciduca Eugenio e di fatto la sua carriera terminò lì. Ancora più importante, in Europa si ebbe la sensazione che l’esercito asburgico fosse sul punto di crollare e questo contribuì alla fatale decisione italiana di entrare in guerra pochi mesi più tardi; le sanguinose giornate sul Cer, a Valjevo e Arandjelovac furono non solo un prologo, ma anche una causa di quelle altrettanto terribili sul Carso, a Gorizia, Caporetto e sui monti trentini.
Letture consigliate
-Jerabek, Rudolf, Potiorek, General im Schatten von Sarajevo (“Potiorek,
un generale nelle ombre di Sarajevo”), Styria Edizioni, 1991. La biografia di
Potiorek con ovvio riguardo alla giornata di Sarajevo e alla campagna serba.
-Herwig,
Holger H., The First World War: Germany and Austria-Hungary, Arnold,
1997. La storia della Guerra vista dalla parte dei due maggiori Imperi Centrali.
Visione molto critica, è un sano correttivo ai fan della strategia tedesca e
austriaca.
-Schindler,
John R., Disaster on the Drina, rivista War in History, Volume 9, numero
2, Arnold, 2002. Storia militare della campagna austro-serba con
particolare riguardo al comportamento delle unità ceche.
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