846_AUSTERIA . Polonia 1983; Regia di Jerzy Kawalerowicz.
Se dovesse capitare di restare un po’ interdetti alla
visione di Austeria di Jerzy
Kawalerowicz non c’è da stupirsene troppo: perfino Martin Scorsese, presentando
il film ad un festival dei capolavori della cinematografia polacca, ha ammesso
le sue difficoltà. Ma del resto il cinema dell’est Europa ha nelle sue
peculiarità una certa ritrosia alla semplicità di accesso, alla facilità di
fruizione, quasi che questa fosse un demerito; e Austeria concede ben poco allo spettatore in cerca di svago o
divertimento. In realtà i passaggi ironici sono anche ricercati da Kawalerowicz,
basti vedere la congrega di ebrei
chassidici che manifesta un’escalation di comportamento bizzarro tanto da
far venire qualche dubbio sugli intenti dell’autore. Sebbene sia chiaro che gli
ebrei mostrati siano vittime, in quanto stanno tutti sgomberando dalle proprie
case per l’imminente arrivo dei cosacchi dell’esercito zarista. Beh, non stanno
scappando proprio tutti: il vecchio Tag (Franciszek Pieczka), proprietario
della locanda che da il titolo all’opera (Austeria
significa appunto locanda, in polacco) è intenzionato a non muoversi. L’uomo
dimostra di avere sangue freddo ai limiti dell’incoscienza: i pogrom russi, i terrificanti attacchi
vandalici di cui erano stati già più volte vittime gli ebrei nel corso della
Storia, non erano uno scherzo. In ogni caso, sotto questo aspetto, in qualità
di spettatori veniamo risparmiati: pare infatti che il poco che si vede in
merito in Austeria, fu quanto concesso
dalla censura sovietica. Le armate razziatrici erano agli ordini dello Zar, che
non stava certo in simpatia presso le autorità di Mosca degli anni ottanta,
tuttavia erano pur sempre russe.
In ogni caso è evidente che per gli ebrei
tirasse una brutta aria. Siamo nella Galizia, una regione al tempo sotto il
dominio dell’Impero Austroungarico e ai confini con la Russia: praticamente i
primi luoghi attraversati dalla temibilissima avanzata zarista. Corre infatti
l’anno 1914, all’inizio della Prima
Guerra Mondiale. Dopo un primo tentativo di scappare più lontano possibile,
appare evidente che non è con una carovana che avanza a passo d’uomo che si
potrà sfuggire alla cavalleria cosacca: c’è quindi un generale ritorno alla
locanda di Tag che si ritrova l’edificio pieno di gente. Il più disperato è Bum
(Marek Wilk), un ragazzo a cui i soldati russi hanno ucciso la fidanzata Asia
(Ewa Domanska).
Il cadavere della ragazza viene adagiato in una stanza, quando arrivano
anche i genitori, l’affranto padre Wilf (Szymon Szurmiej) e sua moglie Blanka
(Golda Tencer), che sembra invece più preoccupata per il dolore ai piedi per la
lunga camminata. Ma alla locanda fanno ritorno un po’ tutti, compreso un ussaro
ungherese che è rimasto isolato dal resto del suo reparto: Blanka troverà nella
sua prestanza un modo per farsi consolare per i suoi dolori. Per Tag i più
complicati da gestire sono in ogni caso gli stralunati membri del gruppo di chassidici che non intendono rassegnarsi
a stare tranquilli. Sarebbe infatti saggio cercare di non attirare attenzione
sulla locanda: i cosacchi stanno razziando il vicino paese, a cui appiccheranno
fuoco, e non c’è da stare troppo sereni.
Chi sembra sempre sapere cosa fare è
Tag: se prima non si era lasciato prendere dal panico mettendosi in una quanto
mai vana fuga, ora invita i suoi ospiti a fare silenzio. E’ l’unico, insomma, a
non essersi lasciato prendere dall’isteria
(termine che ha una forte assonanza con austeria
anche in polacco) collettiva. Ma stavolta è lui ad illudersi: niente sembra poter
ricondurre alla ragione i compatrioti ebrei, tra cui spiccano per incoscienza i
membri del citato gruppo di chassidici che
la feroce ironia di Kawalerowicz probabilmente esagera nel dipingere in modo
denigratorio. E’ questo l’aspetto più inquietante di Austeria: non è che agli ebrei del film si possa imputare una
qualche colpa, sia chiaro, ma certamente l’unico a dimostrare un certo senso pratico, nell’ottica di stare al
mondo, è Tag. Che Kawalerowicz prova a non incensare come eroe, è solo un uomo
che fa quello che deve essere fatto; e se c’è da allungare una mano sul seno
della sua giovane dipendente Jewdocha (una selvaggia e seducente Liliana
Komorowska) non si tira certo indietro. Certo, la ragazza è consenziente, anche
se lo chiama ripetutamente vecchio
diavolo, in fondo gli vuole bene; e a ragione, perché Tag è un vero eroe,
al di là della cortina fumogena narrativa che il racconto ci mette davanti agli
occhi. In un momento cruciale l’uomo apre la sua porta a tutti quanti vi
bussano mettendo a rischio la sua incolumità e, nel finale, si reca al
villaggio dove i cosacchi vogliono giustiziare Bum. E’ prevedibile che i russi
accetteranno di condonare il ragazzo solo in cambio di qualche altro da mettere
al suo posto; per quanto la questione non venga esplorata fino in fondo dal
film.
Ma, pur essendone l’assoluto protagonista, non è tanto Tag a rimanere
negli occhi dello spettatore dopo questo Austeria.
La cosa difficile da dimenticare è l’assoluta follia, del tutta avulsa da ogni
senso pratico, degli ebrei ortodossi. I loro canti interminabili, le loro
noiose litanie, i loro balli scombinati, sono ardui da sopportare guardando il
film, figuriamoci contestualizzandoli. Questi cantano a squarciagola in una
locanda col rischio che i cosacchi possano udirli e intervenire con nefasti
effetti per tutti gli ospiti. E dire che Tag ci prova, a condurli alla ragione;
li esorta, li prega, li scongiura. Niente, la liturgia dal sapore vagamente
suicida degli ebrei non può essere interrotta.
E qui che si fatica a capire
come questo film possa essere un tributo alla comunità ebraica della Galizia di
inizio XX secolo. Il riferimento ai pogrom,
citati in un dialogo del film, ci ricorda che gli ebrei avevano subito
persecuzioni già prima dei giorni raccontati dal film. Ma, sempre in un scambio
di vedute nel racconto, apprendiamo che c’è una consapevolezza che il mondo sia
cambiato, in quei tempi, e che la Grande Guerra ne è un po’ lo
spartiacque. Prima i conflitti venivano combattuti dagli eserciti, coi generali
sulle colline a dare disposizione alle truppe; ora la violenza è rivolta a
tutti, militari e civili, indiscriminatamente. C’è quindi una sorta di
presentimento, da parte degli ebrei galiziani, che il futuro possa addirittura
volgere al peggio per la loro comunità? Che il loro mantenere le proprie
tradizioni, la propria cultura, la propria identità, possa rappresentare un
bersaglio comodo e ben visibile per la sete di violenza che sarà la matrice
della nuova era? Se prima potevano essere perseguitati periodicamente, ora
sarebbero divenuti l’obiettivo perenne, insomma? E allora prende un senso anche
l’irragionevolezza dei ebrei chassidici
ch non si preoccupano troppo di stare zitti ma alla fine se ne vanno
addirittura a fare il bagno nel fiume, completamente nudi, in preda ad una
febbrile follia. Tag avrebbe ragione di dissentire: sarebbe stato saggio
starsene nascosti. Ma noi sappiamo che non sarebbe cambiato nulla: la Storia insegna che negli
anni a venire gli ebrei verranno stanati in qualunque posto avessero cercato rifugio.
E poi, a conti fatti, anche lo spettatore odierno fatica ad essere obiettivo di
fronte a quello che vede: in questa storia i folli non sono infatti gli ebrei chassidici, ma i razziatori cosacchi.
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