845_TANNENBERG . Svizzera, Germania 1932; Regia di Heinz Paul.
«Il maresciallo von Hindenburg ha dormito nel quartier generale di Tannenberg prima, dopo e, detto tra noi, anche "durante" la battaglia...». Il tenente colonnello Max Hoffmann, capo ufficio delle operazioni dell’VIII armata tedesca, a cui è attribuita questa frase, probabilmente voleva solo fare un po’ di ironia ma, nel caso, avrà comunque rischiato: su Paul L. von Hindenburg, divenuto, dopo Tannenberg, un autentico mito, c’era poco da scherzare. Tuttavia guardando Tannenberg, il film del 1932 di Heinz Paul, verrebbe da credere alla battuta di Hoffmann: il contributo di von Hildenburg alla battaglia, per quanto decisivo, sembra minimo. C’è però una spiegazione: a suo tempo, nel 1932, la situazione in Germania era particolarmente critica. C’era la crisi economica legata alla Grande Depressione e Hitler, che era in forte ascesa, era stato battuto alle elezioni primaverili di quello stesso anno proprio da von Hindenburg, che si era così confermato alla guida del paese. Un clima quindi particolare che, forse, può aiutare a spiegare l’assurda decisione del comitato della censura di far eliminare quasi tutte le immagini in cui il generale von Hindelburg veniva interpretato sullo schermo da Karl Körner, reo di assomigliare troppo all’originale mancandogli, in questo senso, di rispetto. [Letteralmente Violare gli interessi reputazionali cit. Lichtbild-Bühne, organo di stampa cinematografica tedesca].
Ecco così spiegato il motivo della curiosa assenza (o quasi) del riconosciuto eroe di Tannenberg dalla rappresentazione cinematografica più celebre della battaglia. La presenza di von Hindenburg, oltre che nelle sparute scene in cui fa la fugace quanto imperiosa comparsa, è sottolineata, forse per recuperarne un po’ il peso, dai documenti e dagli ordini firmati dal generale su cui la regia insiste in modo evidente. Tuttavia, anche con questa anomalia, Tannenberg rimane un film molto interessante. La struttura dell’opera verte su due tracce che viaggiano in parallelo per la durata del film: c’è il contesto storico, preponderante, e c’è la vicenda privata di una famiglia tedesca che vede la sua residenza proprio al centro dell’invasione russa. I tempi della rappresentazione non sono divisi in parti uguali ma, a differenza che in un film americano o anche italiano, la storia della famiglia del proprietario terriero von Arndt (Hans Stüwe) ha meno spazio e, in sostanza, serve unicamente per dare un pathos più accessibile, più fruibile, allo spettatore.
Per cercare di alimentare la tensione emotiva su questa sponda, che non è eccessivamente sviluppata, si inserisce la figura del piccolo Fritz (Rudolf Klicks) e addirittura quella del cagnolino di casa. La funzione narrativa privata, che in questo tipo di operazioni narrative è abitualmente messa in primo piano su uno sfondo storico, qui non ha la necessaria struttura, anche se gli strappi inferti sono notevoli. Il suo scopo, oltre a creare, come detto, un po’ di empatia con lo spettatore, è più che altro fare da contrappunto agli sviluppi generali e fornire alcune indicazioni. Ad esempio che non c’è particolare odio tra russi e tedeschi: a casa von Arnst abita la cognata Sonja (Hertha von Walther), di origini russe; il padrone di casa la rassicura che sarà sempre ben accetta. Dal canto suo la ragazza si prodiga per salvare la vita ad una spia tedesca catturata dai soldati russi, facendo leva su una sua conoscenza presso il reparto degli invasori. Le truppe zariste avevano infatti fatto irruzione nella lussuosa magione, senza per altro nessun atto vandalico. Anche a livello complessivo il film non mostra una particolare faziosità: le operazioni militari sono illustrate con differenze ma senza infierire sulla controparte. Da un punto di vista storico, per quanto siano state usate anche immagini di repertorio dell’epoca, il film non riesce a fornire un quadro degli scontri troppo comprensibile; è un problema evidentemente di cui gli autori erano consapevoli e, per ovviarlo, fecero ricorso molto spesso ad utilissime mappe con gli spostamenti delle truppe sul terreno. I dialoghi dei numerosi passaggi in cui vediamo i generali discutere tra loro, tra quelli tedeschi da segnalare Ludendorff (Henry Pless) e Hoffmann (Hans Mühlhofer), danno un ulteriore aiuto a completare il quadro in quest’ottica.
Per quel che è mostrato sullo schermo, nella prima parte si assiste ad un massiccio confluire di soldati russi, in marcia a piedi o a cavallo, che più che combattere semplicemente avanzano. Come detto per comprendere le strategie grande importanza hanno le riunioni dei comandi militari e gli autori, tutto sommato, provano già a mettere in luce qualche evidenza, mostrando quello tedesco più dinamico rispetto a quello nemico. Questa differenza, che pare una di quelle decisive, si aggiunge a quella delle comunicazioni: i tedeschi possono contare su informazioni più precise, nel film evidenziate anche dalla spia sfuggita grazie all’intervento di Sonja.
Perché l’impressione dell’operazione militare raccontata da Tannenberg è di una battaglia tutto sommato con qualche attinenza con quelle del XVIII secolo, quelle coi generali sulla collina a dare disposizioni alle truppe distese sul campo di battaglia. La capacità di spostarle al momento opportuno, di intervenire con tempismo, è cruciale anche più della forza numerica. La differenza con quel tipo di operazioni è che, in questo caso, il campo di battaglia è l’intera Prussia Orientale e non un appezzamento di terra, pur vasto che sia; in questo senso è indispensabile avere un servizio di comunicazione tra i reparti rapido e una rete di spionaggio efficiente. Inoltre i tedeschi disponevano anche della ferrovia per movimentare le truppe. Vantaggi che gli invasori, questo sembra evidente, non avevano in egual misura. E’ forse proprio in questo senso che il generale russo Samsonov (Sigurd Lohde), comandante della II armata, si rende conto del disastro quando si trova all’aperto e può farsi, anche simbolicamente, un quadro più attendibile della realtà. Anche in questo passaggio è da rilevare l’estremo rispetto che viene riconosciuto allo sconfitto, oltre ad una sorta di pudore nell’evitare di mostrare direttamente la scena dell’estremo atto di espiazione dell’alto ufficiale.
Gli scontri sono violenti, soprattutto gli scoppi d’artiglieria, ma non particolarmente cruenti. Si vedono morire più che altro i russi, mentre se dovessimo dare retta al film, i tedeschi se la cavarono con poche perdite. Qui si evidenzia un’altra peculiarità di Tannenberg, film che racconta di un mito germanico e quindi probabilmente ne interpreta la visione delle cose. Per architettare la struttura narrativa del film, partendo da un testo storico che racconta di ingenti perdite tedesche, anche a fronte di una brillante vittoria militare, si potevano però liberamente impostare le coordinate della traccia di fantasia, in questo caso di von Arndt e della sua famiglia. Verrebbe naturale mostrare i tanti morti in battaglia, che sono un elemento concreto, storico, a testimonianza del sacrificio del popolo; per dare fiducia agli spettatori si potrebbe prevedere il lieto fine per i protagonisti. In Tannenberg succede praticamente l’opposto: si celebra sobriamente la vittoria militare, con le immagini dell’austero monumento edificato successivamente, ma si evita di mostrare i morti negli scontri, minimizzando le perdite. Di contro, il protagonista maschile, narrativamente messo in campo per creare empatia con lo spettatore, dopo essersi lanciato in battaglia alla guida dei suoi Ulani, viene ferito mortalmente. E, in questo senso, insuperabile la scena in cui il piccolo Fritz accorre a prendere il cagnolino scappato in cortile e l’immagine dopo è quella di un’esplosione proprio in quel luogo. Il regista non indugia, ma possono esserci pochi dubbi in merito. Il sacrificio è chiesto quindi a livello privato, mentre le istituzioni devono preservare un’aurea di invincibilità.
Tannenberg, un vero mito tedesco.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
DALLA RUSSIA CON FURORE
Per molti secoli, la Russia aveva guardato alla Francia come ad un modello di civiltà, di tecnologia, di lingua; i maggiorenti russi spesso parlavano il francese meglio della lingua natale e la visita in territorio parigino era considerato un obbligo non scritto nel cursus honorum di qualsiasi studente russo dell’alta società. Anche nei momenti di maggior attrito tra le due nazioni, come ad esempio durante le guerre napoleoniche, i russi riversavano il loro odio contro Napoleone (l’ateo nemico dell’umanità) e i suoi marescialli piuttosto che contro i francesi tutti in quanto tali. Questa ammirazione per il paese dei Lumi aveva ricevuto un suggello culturale il 29 maggio 1913 con la prima rappresentazione, al parigino Théatre des Champs Elysées de “I Riti di Primavera” , opera di Igor Stravinksij, finanziata da Sergej Djagilev e coreografata dall’allora leggendario ballerino e star dell’epoca Vaclav Nizinskij: l’irruzione russa nel teatro dell’opera parigino era la trasposizione culturale di un’alleanza politica tra Francia e Russia, che datava ormai dal 1891.
Ma il tragitto tra San Pietroburgo e Parigi è lungo e tortuoso. Mentre sognavano i campi elisi e l’arco di trionfo, così lontani e quasi leggendari, i russi giovani e meno giovani avevano un’altra realtà più vicina, più a portata di mano; una città in rapida espansione e che continuava a fornire all’impero zarista, uomini, mezzi, tecnologie, investimenti, idee: questa città è, naturalmente, Berlino.
Prima della unificazione tedesca Berlino, capitale della Prussia orientale, aveva fornito assieme ad altre parti della Germania, un numero incredibile di uomini all’impero zarista; gli imperatori russi, infatti, si erano dotati di una coorte pretoria e di una intera casta di funzionari di origine tedesca (sull’obbedienza cieca e un po’ ottusa dei quali ironizzeranno molti scrittori russi, tra i quali Dostoevskij). Tanto per rendere l’idea dell’osmosi tra russi e tedeschi, basti vedere il nome del comandante di una delle due armate che invaderà la Prussia orientale nel 1914: von Rennenkampf; senza che nessuno peraltro trovasse strano che un alto ufficiale dal nome di origine chiaramente tedesca venisse mandato proprio a combattere la Germania. La lealtà dei “tedeschi” al servizio zarista era assolutamente fuori discussione.
Anche dopo l’unificazione germanica, l’asse conservatore San Pietroburgo-Berlino-Vienna fu per lunghi anni una importante costante della politica internazionale europea, un incubo per tutti i movimenti liberali e progressisti del continente. La fine di Bismarck e le liti austro-russe sui Balcani determinarono un deterioramento prima e uno scioglimento poi della storica alleanza. Quella che si presentava nel 1914 era un’Europa in due blocchi e, per la prima volta dopo secoli, Berlino e San Pietroburgo si trovavano seriamente in campi opposti. Le tensioni da guerra fredda non avevano impedito ai capitalisti tedeschi di investire in Russia, né agli studenti russi di andare ad apprendere tecnologie e cultura in Germania; la testa di ponte tra i due mondi erano spesso gli ebrei, che pullulavano nella zona di frontiera (odierne Polonia e Ucraina) e che erano veicoli, oltre che di soldi e di conoscenze, spesso anche di idee radicali: per fare un esempio tra i tanti, citiamo uno dei futuri protagonisti della rivoluzione russa, ebreo di origine, Lev Trotskij, che prenderà spunto per la sua famosa teoria della rivoluzione permanente da un altro russo di origine ebrea stabilitosi fisso in Germania, Izrail Lazarevic Gel’fand detto Parvus.
In tutta questa vivace osmosi, tuttavia, gli alti ufficiali dell’esercito tedesco che erano alle prese con la prospettiva di una guerra europea possibile, se non proprio probabile, non erano interessati tanto agli scambi positivi di idee e di risorse; essi oltre i confini della Russia vedevano soprattutto una minaccia. Nello specifico, erano spaventati dai progressi che l’esercito zarista stava facendo anno dopo anno.
L’esercito russo era uscito male dalla guerra col Giappone (1904-1905): quasi sempre sconfitto, aveva infine rivelato segni di ribellione interna. Il lavoro di ricostruzione fu lento e difficile, imbrigliato nella soffocante burocrazia zarista, divisa in una miriade di gruppi di interesse pronti a ostacolare qualsiasi novità per mero interesse personale o di casta. Nell’esercito russo, non c’era una direzione centrale efficiente come lo Stato Maggiore tedesco o l’alto comando francese; al contrario, una guerra interna, endemica, tra ufficiali di carriera che uscivano dall’Accademia e i membri delle famiglie aristocratiche russe o “pretoriane” di lingua germanica che accedevano quasi automaticamente ai comandi maggiori, rovinava qualsiasi tentativo di accentramento e coordinazione. Portavoce dei primi, a partire dal 1908, fu il capo di stato maggiore generale, Vladimir Alexandrovich Sukhomlinov; egli è senza dubbio uno dei protagonisti più controversi della prima guerra mondiale. Demonizzato senza pudore dai suoi (molti) nemici che gli imputarono qualsiasi crimine a partire dal ratto delle Sabine, idolatrato da pochi fedeli, criticato dagli storici locali, rivalutato dal grande Norman Stone nel suo The Eastern Front 1914-1917 , nel quale venne dipinto come il modernizzatore dell’esercito russo e quasi un involontario antesignano della rivoluzione, chi era in realtà Sukhomlinov? I pareri dei testimoni sono stati così discordanti, le fonti dirette così poche a causa della perdita di molti documenti a seguito del crollo del regime zarista, che bisogna serenamente ammettere che una conoscenza a 360 gradi della figura di Sukhomlinov è destinata a sfuggirci. Possediamo però importanti indizi: innanzitutto Sukhomlinov era un prodotto tipico dell’ambiente dell’ultima fase dello zarismo; non era perciò estraneo a corruzione, mazzette prese e date, nepotismo, faciloneria. Tuttavia proprio il suo carattere doppio e complesso gli permise di sopravvivere in un posto dal quale molti, anche all’apparenza più competenti come il predecessore Fedor Palitsyn, erano scappati con le mani nei capelli. Non solo, ma la sua connaturata abitudine all’opportunismo gli permise di barcamenarsi tra le due correnti di cui accennavamo sopra. Attraverso una rete di protetti e raccomandati, Sukhomlinov arrivò a ottenere un certo grado di controllo sullo stato maggiore generale e sul Glavny Shtab (“stato maggiore principale”, ossia una sorta di imitazione dello stato maggiore tedesco che in realtà era preposto a poco più che semplice burocrazia), arrivando così a unire almeno in parte il settore di comando del tribolato esercito russo.
Sukhomlinov contribuì anche alla creazione di una rete di spionaggio interna al corpo ufficiali: spesso citato è il colonnello Sergej Myasoyedov, traditore in quanto spia dei tedeschi, ma protetto da Sukhomlinov in cambio di informazioni sugli ufficiali rivali di quest’ultimo nell’esercito zarista.
Con questi mezzi, moralmente discutibili, il capo di stato maggiore era riuscito comunque nell’intento di dare una impronta, per quanto ambigua, all’esercito russo. Ma quello che aveva guadagnato in accentramento, Sukhomlinov perdeva in altro; ad esempio il suo sistema di voler accontentare un po’ entrambe le conflittuali caste etniche dell’esercito russo, gli aristocratici della guardia e i pretoriani tedesco-baltici, così come anche le conflittuali caste sociali, cioè ufficiali di carriera contro ufficiali di sangue, prevedeva che al comando di una data grande unità ci fossero esponenti di un po’ tutti i gruppi. Questo cerchiobottismo, se da un lato assicurava la presenza di suoi fedelissimi in ogni settore, dall’altro era anche il metodo più sicuro per creare attriti interni alle armate, con comandanti sukhomlinoviti che guardavano con sospetto e astio i loro capi di stati maggiore appartenenti ad altre fazioni, o viceversa. Questo genere di conflittualità interna creerà problemi durante la guerra, specialmente durante la campagna della Prussia Orientale, sfociata nella duplice sconfitta di Tannenberg e dei Laghi Masuri.
Sukhomlinov non si occupò della pianificazione, delegando questa pratica ai subordinati, come in effetti era pratica russa. Il punto di discussione del piano di guerra zarista era la domanda: contro chi si sarebbe dovuto mobilitare il grosso dell’esercito? Contro l’avversario più forte, la Germania, via il dente via il dolore? O contro il nemico che offriva più chance di vittoria immediata, l’Austria, la sconfitta della quale avrebbe comunque comportato grosse difficoltà per i tedeschi?
Un primo piano di guerra per il possibile conflitto contro la Triplice (leggi Austria e Germania) fu avanzato da Yuri Nikoforovic Danilov: egli si aspettava un attacco generale all’impero russo e identificava il pericolo maggiore in una invasione tedesca mirante a occupare la capitale russa; la sua proposta era perciò di mobilitare la maggior parte dell’esercito (53 divisioni) contro i tedeschi, mentre solo 19 divisioni avrebbero dovuto tenere a bada gli austriaci. La sua idea -corretta- era che la Germania fosse il nemico da battere prima, gli altri sarebbero crollati di conseguenza; dove eccedeva, Danilov, era nel pessimismo: egli infatti pensava che oltre alle potenze della Triplice contro la Russia si sarebbero levati anche Giappone, Romania, Cina, impero Ottomano, Bulgaria (un suo rivale all’interno dello stato maggiore commentò sarcastico: ha lasciato fuori solo i marziani).
L’altra proposta di piano venne da Mikhail Vasileyevich Alexeyev: egli suggerì come primo passo di fortificare Varsavia e mandare rinforzi alle fortezze sulla Vistola, che costituivano la frontiera militare tra i due imperi, in modo da assicurarsi le spalle contro un attacco tedesco; in secondo luogo, la forte concentrazione di truppe nella Polonia russa , avrebbe permesso una invasione di massa della Galizia austriaca, con la possibilità di sfociare persino in Ungheria; oppure, nel caso le cose si mettessero male con i tedeschi intorno a San Pietroburgo, la concentrazione intorno a Varsavia, avrebbe permesso anche di penetrare nel cuore della Germania, verso Berlino (la stessa intuizione che ebbe l’Armata Rossa nel 1945).
La macchina delle rivalità e dei voti di scambio interni all’ufficialità russa, si rimise in moto con la conseguenza di bloccare la scelta definitiva di uno dei due piani. Per venirne fuori, si optò per un compromesso che accontentava un po’ tutti: si sarebbe concentrato l’esercito SIA contro l’Austria, SIA contro la Germania E NEL FRATTEMPO si sarebbe operata una concentrazione delle forze mobilitate più tardi intorno a Varsavia. Il risultato fu che non si arrivò alla decisione su nessuno dei due fronti: la campagna in Prussia orientale tedesca finì in disastro logistico prima, militare poi, anche se contribuì a aiutare un po’ i francesi; l’Austria fu battuta in Galizia ma l’avanzata si arenò sui Carpazi e non riuscì a toccare l’Ungheria; la concentrazione intorno a Varsavia era troppo scarna per essere nulla più che una riserva d’uomini per i due gruppi d’armata principali.
Tutti questi problemi strutturali e organizzativi, se pur arrivavano alle orecchie di Von Moltke e degli altri comandanti tedeschi, erano però offuscati da un altro elemento che impauriva molto gli avversari dei russi: la portata della mobilitazione zarista, davvero inedita nella storia mondiale. 4,7 milioni di uomini sarebbero stati arruolati, con 1 milione di cavalli, e spediti al fronte con 4000 treni: era il famoso “rullo compressore russo”. Cifre imponenti, che trovavano un limite solo appunto nell’esiguo numero di ferrovie e treni disponibili alla bisogna. I tedeschi temevano appunto che, nel giro di qualche anno, i progetti ferroviari russi , finanziati da gran soldoni francesi, fossero completati rendendo così la mobilitazione nemica non solo numericamente imponente, ma anche veloce. In quel caso, nulla avrebbe resistito alle orde zariste. Fu per questo motivo che l’esercito tedesco preferì accettare il confronto nel 1914: procrastinarlo, avrebbe potuto significare arrivare troppo tardi.
Nel 1914 due Paesi a lungo alleati e con molti legami reciproci come Germania e Russia scesero in campo uno contro l’altro. Nel 1919 nulla era rimasto degli antichi imperi: nelle città russe e tedesche c’era solo povertà, violenza, rivoluzione sociale, confusione, guerra civile. Come disse un autore, la gente preferiva scappare dalla brutta e mediocre realtà sognando il bizzarro e l’ideale. Il bizzarro salì al potere qualche anno dopo con Stalin e Hitler.
Che fosse anche l’ideale rimane una questione di gusti personali.
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