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domenica 18 luglio 2021

I FIGLI DI NESSUNO

854_I FIGLI DI NESSUNO . Italia, 1951; Regia di Raffaello Matarazzo.

Dopo il fortunato ma inatteso successo di Catene (1949), maggiore incasso della stagione cinematografica, la Titanus, decise di insistere con la stessa formula: sia il successivo Tormento, del 1950, che il seguente I figli di nessuno, dell’anno dopo, vedono all’opera medesimi protagonisti in pellicole di ugual tenore melodrammatico. Siamo in piena esplosione del melò in chiave italiana, opera del regista Raffaello Matarazzo che, nella prima metà degli anni cinquanta, raggiungerà successi al botteghino raramente eguagliati nella storia del cinema della penisola. I figli di nessuno è l’ultimo di una ipotetica trilogia in impennata agli incassi, composta dai titoli citati. Il successivo Il tenente Giorgio, del 1952, fu una semplice flessione, presto superata dai successivi melodrammi, fino al passare di moda di quei temi tanto legati al peculiare periodo storico. Ciò si è detto non per nozionismo: per comprendere ed apprezzare questi film è in parte necessario valutare quale fosse il contesto in cui si svilupparono. Vero è che, ormai, si dovrebbe aver sviluppato, in qualità di spettatori, una capacità di andare al nocciolo delle cose e non rimanere distratti dagli aspetti magari più esteriori ma meno significativi: nel qual caso la produzione di un autore bravo come Raffaello Matarazzo andrebbe sostanzialmente sempre apprezzata. Inoltre è anche un pregio di un’opera quello di riportare a noi quegli aspetti che riguardano il contesto in cui si è manifestata e di cui è, in un certo modo, una delle espressioni. Erano gli anni del dopoguerra, in cui si scontravano differenti correnti di pensiero, sentimenti, modi di intendere le cose, perfino il gusto del bello: si andava a delineare il nuovo corso italiano, quello del boom economico, ma sia il fulgido, almeno nella convinzione ideologica, periodo precedente la guerra, sia le macerie economiche e morali che questa aveva lasciato, erano scorie che non ci stavano proprio sotto il tappeto del salotto. Ad alcune di queste istanze, il neorealismo dette il più alto sfogo; ma non tutti gli italiani erano intellettuali come Visconti o Rossellini, e nemmeno potevano essere così avvezzi a capirne o anche, del tutto comprensibilmente, a volerne seguire le lodevoli ma impegnative riflessioni di quel tipo di cinema.


L’Italia aveva anche bisogno di guardare oltre alla tragedia della guerra, di tornare a pensare all’amore più che all’odio che aveva lacerato (e lacerava) il paese, ma certo occorrevano testi che avessero un certo tenore, capaci di reggere il peso del contesto, perché il clima non era certo quello soave della belle epoque. Ecco, quindi, il melodramma italiano, di cui Matarazzo è l’indiscusso maestro: opere altamente drammatiche (che davano corpo ai traumi della guerra), di grande sentimentalismo (rielaborando la tradizione enfatica del ventennio), in genere con finali in luce positiva ma non così leggeri (e nel caso di I figli di nessuno addirittura tragici), comunque sempre vissuti in modo passionale e sofferto, a significare più una disperata speranza che non un concreto ottimismo verso il futuro (in effetti difficile da sostenere vedendo lo stato del paese). Il melodramma però, aveva anche altre note che lo resero una logica conseguenza del tempo: il dopoguerra, anche in Italia, con la caduta di un regime tradizionalista come quello fascista, aveva concesso maggiore importanza alla figura della donna nella società. D’altronde, se per esempio in America le operaie nelle fabbriche belliche avevano dimostrato il loro valore, (e reclamarono venisse riconosciuto a guerra finita), anche in Italia furono numerosi gli esempi in cui le partigiane seppero dare il loro attivo contributo alla causa. Insomma, i temi del melodramma andavano certamente incontro maggiormente ai gusti delle spettatrici del tempo di quanto non facessero con i loro accompagnatori nelle sale, ma la cosa era ampiamente meritata e motivata. 

Nello specifico, I figli di nessuno è un autentico romanzo d’appendice cinematografico, con una vicenda che si snoda in una serie di avvenimenti collegati tra loro dall’intreccio ma che, a ben vedere, avrebbero potuto anche essere altrettanti episodi filmici indipendenti. Il protagonista maschile è il conte Guido (Amedeo Nazzari) proprietario di una cava di marmo in quel di Carrara; nonostante l’appartenenza alla nobiltà è di vedute democratiche ed è innamorato, ricambiato, dalla figlia del custode della stessa cava, Luisa (Ivonne Sanson). La contessa madre (Françoise Rosay) non vede di buon occhio la relazione e si mette in combutta con il losco sovrastante, Anselmo (Folco Lulli), per ostacolare il rapporto tra suo figlio e la ragazza di origini popolari. Con una scusa, Guido è spedito all’estero e Luisa, divenuta orfana di padre, cacciata: nella concitazione ad un certo punto si pensa possa essere annegata in un torrente. 

La ragazza invece è salva, raccolta dall’anziana Marta e ospitata nella sua abitazione; ed è salvo anche il figlio che Luisa portava in grembo. Guido ritorna dall’Inghilterra e apprende della (presunta) morte dell’amata; Anselmo scova però la casa di Marta, scopre la presenza del bambino, nato nel frattempo, e si organizza insieme alla contessa madre per sistemare le cose una volta per tutte. Il bambino è rapito è spedito in un collegio, in forma anonima, mentre la cascina di Marta finisce bruciata. Luisa si convince così che il figlio sia perito nell’incendio. Sconvolta, decide di farsi suora col nome di Madre Addolorata. Questa, per quanto possibile, stringata sintesi della sola prima parte del film, mostra già quanti rilanci subisca la trama che, con sviluppi diversi, avrebbe potuto benissimo reggere una produzione narrativa a puntate. 

In I figli di nessuno questo continuo cambio di scena e situazioni non permette lo scaturire e quindi l’esaurirsi delle forti emozioni provocate dalle vicissitudini, e queste finiscono per accumularsi nell’animo dello spettatore. La capacità sublime di Matarazzo è quella di riuscire, con un meccanismo simile a quello di una mano di poker, a rilanciare ogni volta il pathos ereditato nel successivo risvolto narrativo, aumentando l’enfasi fino al drammatico finale. Questa caratteristica è tipica nel melodramma e peculiare in Matarazzo ma, forse, raramente a livelli che troviamo ne I figli di nessuno, non a caso un film in cui non andiamo incontro ad un liberatorio lieto fine. Prima del quale, incredibilmente, con un figlio in collegio, la madre in convento e il padre sposato ad una altra donna (da cui ha avuto una figlia), e l’assoluta inconsapevolezza da parte dei tre elementi di essere tutti esistenti e in vita, la storia riesce a riunire la famiglia per la prima e ultima volta. 

Ma giusto in tempo perché il piccolo Bruno, così è stato chiamato, possa spirare accolto, finalmente di nuovo, tra le braccia materne. L’intricatissimo castello narrativo è funzionale e riserva, in dirittura d’arrivo, anche quei passaggi avventurosi, in questo caso nella cava prima dell’esplosione dolosa ordita da Anselmo, per stemperare la tensione in scene d’azione e concitate, perfettamente adatte proprio a questo scopo. Ma, in questo caso, lo stratagemma adrenalinico comunque non basta a smaltire tutta l’emozione: il finale con un bambino morto e sua madre divenuta suora per disperazione (oltre che per vocazione), ci lascia colmi di angoscia. Eppure questo sentimento era quello che tanti italiani, furono oltre otto milioni quelli che accorsero nelle sale, scelsero liberamente di provare: è questo l’ingrediente principale che Matarazzo decise di cucinare, evidentemente il più adeguato al momento e non c’è da stupirsi se oggi possa sembrare un piatto un tantino pesante.
In realtà è d’alta scuola.   



Yvonne Sanson


Enrica Dyrell




        


2 commenti:

  1. giusto essere realistici senza rifugiarsi nel facile ottimismo, ma senza nemmeno scivolare troppo nella tragedia... penso che questa ricetta vada bene anche oggi...

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  2. Beh, Matarazzo era un maestro proprio perchè riusciva a tenere in piedi storie che realistiche lo erano ben poco. Roba d'altri tempi.

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