555_L'IDIOTA ; Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari.
L’anno successivo a Umiliati
e offesi, sceneggiato Rai del 1958, l’emittente televisiva nazionale
italiana torna a trarre spunto da Fëdor Dostoevskij, stavolta con L’idiota, romanzo del 1869. E’ la
conferma di un interesse della Tv di stato italiano per il formidabile autore
russo: e forse la scelta de L’idiota
come ulteriore testo di Dostoevskij da presentare al pubblico non è casuale o
dettata da un generico intento didattico/divulgativo. Già nel 1954, solo dopo
tre mesi dall’assoluta prima trasmissione televisiva della Rai, una domenica va
in onda una rappresentazione teatrale, forma embrionale di sceneggiato
televisivo, lunga 4 ore e in presa diretta, del capolavoro Delitto e castigo. Un testo che poi verrà riproposto con un
adattamento più conforme al media televisivo, stavolta sul secondo canale nazionale,
nel 1963. Sembra quindi esserci una sorta di insistenza nei confronti di Dostoevskij,
che forse non solo è considerato uno dei maestri della cultura mondiale. La sua
opera è certamente meritevole di essere divulgata a prescindere, ma l’autore
russo è probabilmente ritenuto in Rai particolarmente adatto al panorama
italiano dell’inoltrato dopoguerra. Chissà, forse è solo una suggestione che, in
ogni caso, L’idiota, sceneggiato in
sei puntate per la regia di Giacomo Vaccari, mandato in onda nel 1959, sembra
confermarlo. Perché se tutta l’opera di Dostoevskij, tra le tante qualità non
solo letterarie, è un balsamo contro il moralismo, L’idiota è, in questo senso, un vero antidoto. Al tempo l’Italia
era ancora attraversata dalle scorie dell’ideologia conformista e retorica del ventennio, ma si faceva strada una nuova
linea di pensiero, meno smaccatamente retorica ma altrettanto conformista nel
suo proclamarsi antifascista in ogni ambito, anche in quelli meno inerenti.
In
questa situazione di opportunismo intellettuale, che segnerà l’elite culturale
italiana negli anni a venire, la semplice e cristallina visione delle cose del
Principe, lo spiazzante protagonista de L’idiota,
doveva sembrare davvero provvidenziale. L’idiota di Dostoevskij (nello
sceneggiato interpretato da uno straordinario Giorgio Albertazzi) è la
personificazione del prekrasnyj,
ovvero lo splendore della bellezza.
Il Principe Myškin, l’idiota in questione, non è quindi tanto un uomo buono ed
eccezionalmente compassionevole, o almeno non solo. E’ piuttosto l’incarnazione
di una sua stessa frase che è divenuta celeberrima: la bellezza salverà il mondo. Sono parole dello stesso Principe e
ne descrivono appieno il carattere. Gli occhi ingenui con cui guarda quello che
gli sta intorno, la sua incapacità di contenere le emozioni, riflettono
l’effetto della bellezza che egli vede e che, grazie alla purezza incontaminata
del suo sguardo, riesce a cogliere in ogni persona, anche nella più abietta, e
in ogni cosa del creato.
Per questo, ai suoi occhi, la svergognata Nastas’ja
Filippovna (nello sceneggiato Anna Proclemer) è una donna degna di rispetto.
Non è solo la bellezza della donna, a colpirlo, ma anche la sofferenza patita,
una caratteristica che nobilita la figura della discutibile dama e la eleva al
di sopra delle bassezze di cui la stessa Nastas’ja si macchia. Ma anche nei
confronti del fascino meschino e capriccioso di Aglaia (Anna Maria Guarnieri),
il Principe non riesce a sottrarsi. Perché questi comportamenti odiosi della
viziata ragazza non riescono a nascondere, ai candidi occhi di Myškin, l’amore
e la sincera passione che la giovane nutre per lui. Il Principe, malato fin da
piccolo di epilessia, era tornato dalla Svizzera nella natia Russia ma, pur
essendo adulto, aveva un approccio alle cose, il comportamento e gli atteggiamenti,
tipici di un infante.
Per altro, su alcuni argomenti, come la pena di morte o
le condizioni di vita delle classi meno abbienti, il giovane mostrava una
consapevolezza assai più matura; ma il suo senso di giustizia, interpretato rigorosamente
alla lettera, era considerato nello
stesso modo, frutto cioè dell’ingenuità tipica dello sprovveduto. Quello che Dostoevskij
efficacemente ci mostra, per contrasto, è la vera natura delle cose, ovvero
quella interpretata dal Principe, senza la lente deformante dell’infrastruttura
conformista con i suoi moralismi legati alla cultura e all’educazione sociale.
E certamente l’autore russo aveva pensato tutto ciò per la Russia del XIX secolo ma, è
possibile constatarlo facilmente, la sua metafora era funzionale anche
nell’Italia del dopoguerra e, aimè, perfino a quella odierna.
Anzi, se è
possibile, negli smaliziati oltre ogni misura giorni nostri la capacità del
Principe Myškin di vedere le cose nella giusta prospettiva, quella positiva, ci
appare ancora più ingenua e quindi il messaggio di Dostoevskij addirittura più
efficace. Il genio è proprio di coloro i quali riescono a cogliere quelle
visioni con un tale anticipo che dopo 150 anni sono ancora moderne per non dire
avveniristiche. La bravura delle squadra Rai, dal regista Vaccari ad
Albertazzi, ma va sottolineato anche il commento musicale di grandissima
suggestione opera di Luciano Chailly, è di rendere concreto sullo schermo il
testo di Dostoevskij in modo efficace. Cosa non da poco, sia detto per inciso.
Tra gli interpreti tanti attori di teatro, la cui recitazione un po’
enfatizzata è indispensabile per dare tono ad una messa in scena che non può, per
limiti tecnici del mezzo televisivo dell’epoca, attingere troppo dalla regia.
Oltre ai citati meritano una menzione almeno Sergio Tofano (nei panni di
Ljebedev) e Lina Volonghi (in quelli della Generalessa Prokofievna), oltre ad
uno strepitoso Gian Maria Volonté. L’attore milanese dà vita ad un
impressionante Parfen Rogozin, le cui risate sguaiate sono anche più
inquietanti del suo incedere col fatale coltello. Lui è l’anima nera, la metà
oscura di Myškin, ed è un personaggio che, nel suo distruggere quello che non
può possedere, porta all’estreme conseguenze le peculiarità di conformismo e
moralismo. E potrà certo esserci più famigliare dell’ingenuo Principe.
DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: L'IDIOTA
a cura di Antonio Gatti
Un treno che avanza faticosamente in un gelido Novembre
russo: così inizia il romanzo di Dostoevskij. Si è allontanato da Varsavia,
dall'ultimo punto dell'Europa cattolica e occidentalizzata e si dirige verso
San Pietroburgo. Il contrasto tra parte occidentale e parte russa dell'Europa
sarà un tema principale di Idiot; Vaccari non può usare il ricco
simbolismo di Dostoevskij per accentuare questo contrasto, né ripetere tutti i
monologhi del romanzo, quindi si affida a sua volta a un simbolismo
particolare, tutto a carico dei bravissimi attori. Già nella scena iniziale,
che ambienta sul famoso treno, fedelmente al romanzo, presenta due personaggi
molto contrastanti: il funzionario Lebedev, interpretato da Sergio Tofano,
mediocre, quasi compiaciuto del suo essere senza personalità (potrebbe essere
italiano, polacco, o di qualsiasi altra nazionalità: non cambierebbe nulla, in
questo quasi un precursore dell' "europeo" contemporaneo) e un
personaggio assai più particolare, Parfen Rogozin, che nella sua esuberante
mancanza di controllo su se stesso, nella sua radicale incapacità di saper
tenere una via di mezzo, sprofondando sistematicamente nel male assoluto per
impossibilità di compiere il bene perfetto, al quale però -lo sentiamo-
vorrebbe aspirare con tutte le sue forze, viene ad essere un quadro perfetto
dei problemi della Russia dei tempi, per come li concepiva Dostoevskij.
Occidente e oriente, bene e male, gli attori dello sceneggiato sono bravissimi
a veicolare i loro personaggi tra questi due estremi, ondivaghi, controversi.
In mezzo c'è il principe Myskin. Vaccari capisce molto bene l'intento di
Dostevskij, di fare dell' "idiota" un ponte tra gli estremi, una
figura che cerca di riassumere tutte le spaccature profonde dell'essere umano
col suo appello alla bellezza. Albertazzi, un po' più vecchio del principe
Myskin del romanzo, è però perfetto per il ruolo sotto tutto gli altri aspetti.
Myskin è un ponte tra occidente e oriente; russo di origine e di spirito, deve
però all'occidente la sua parziale guarigione dall'epilessia e l'amore per
l'arte; è un ponte tra innocenza e peccato inoltre: è attratto dalla
capricciosa Aglaia, vedendo dentro di lei un principio di purezza, ma sente di
dover salvare i due "peccatori" della storia: Nastas'ja Filippovna e
Parfen Rogozin. I due personaggi sono straordinari nel loro autolesionismo
feroce, in questo Vaccari, ancora una volta "legge" bene sotto le
righe del romanzo di Dostoevskij. Nastas'ja e Rogozin due personaggi "estremi",
molto provati dalla vita, alla pari del principe, ma al contrario di
quest'ultimo non riescono mai a far pace con se stessi e provano quasi piacere
nel vedersi sempre più schiacciati dal peso degli avvenimenti.
Il principe, con
una vocazione perfettamente cristica, cercherà di redimerli e mostrar loro la
strada della bellezza. Fallirà. Dostoevskij in una lettera disse che lo spunto
per Idiot gli venne dal Don Chisciotte di Cervantes. Ancora, sono
presenti nel romanzo, come vedremo, continui riferimenti al Cristo morto. Al
venerdì santo. Idiot è il romanzo di tutti i Don Chisciotte che credono
ancora sia possibile salvare il mondo, e farlo tramite la bellezza; Idiot è
anche il romanzo del Venerdì Santo, della sconfitta e del calare ancora nelle
tenebre della malattia e della paura. Sarà una sconfitta momentanea, come
quella del Venerdì Santo evangelico?
Uno sceneggiato quindi, fedele non solo alla lettera, ma
anche profondamente allo spirito del romanzo di Dostoevskij. Certo, Vaccari ha
dovuto tagliare alcune cose, specialmente la virulenta polemica
anti-cattolica che è presente nel romanzo e che alcuni critici vorrebbero
smussare, affermando che Dostoevskij in realtà voleva criticare la
"burocrazia clericale" di tutte le confessioni cristiane, non solo della
cattolica. Non credo, da questo romanzo la virata di Dostoevskij verso una
profonda adesione agli ideali della chiesa ortodossa russa si fa brusca, e
diventerà infine ufficiale nei Karamazov facendo del grande romanziere,
negli ultimi anni della sua vita, quasi un profeta dell'ortodossia russa.
All'inizio e alla fine dello sceneggiato ci viene proposto
il celebre dipinto Cristo morto nella tomba, di Hans Holbein il Giovane
(1497-1543) quadro che aveva profondamente impressionato Dostoevskij, e di cui il
principe Myskin parla molto nel romanzo, osservando che attraverso un quadro
del genere si può perdere la fede (al tono possibilista di Myskin,
l'assolutista Rogozin replica che, sì, infatti la fede si perde). E' il quadro
della morte di ogni speranza. Anzi, della Speranza suprema. Lo rivediamo
spuntare nel finale dello sceneggiato, appunto, quando il principe ripiomba
nelle tenebre dell'epilessia, avvinghiato a Rogozin, anch'egli ormai
schiacciato dal suo gesto omicida, scosso da risa e lacrime assieme, ancora una
volta incapace di scegliere tra i due estremi. Eppure, nella tenebra, una
speranza. Qua Vaccari, sembra addirittura andare oltre Dostoevskij, portando
agli estremi il suo messaggio. Il grande russo, infatti, nel finale dell'opera
si limita a constatare che il principe, il propugnatore della bellezza, è
tornato un Idiota. E' il Venerdì Santo. Ma Vaccari aggiunge che, sopraggiunta
la crisi epilettica definitiva il Principe "fuori dalla vita e dal suo
straziante tempo, non poteva ora che riconoscere qualche altra misteriosa
voce". E' un particolare che nel romanzo manca. Anche l'epilessia, per
Vaccari, è un ponte, un ponte tra la "vita e il suo straziante tempo"
e quella misteriosa voce che solo ai puri come il principe è dato di ascoltare.
Nelle tenebre della sconfitta, la vittoria.
Anna Proclemer
Anna Maria Guarnieri
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