1471_ZOMBIE HOLOCAUST .Italia 1980; Regia di Marino Girolamo.
Il produttore Fabrizio De Angelis era ben consapevole delle potenzialità del suo Zombi 2: il film di Lucio Fulci, uscito nell’agosto del 1979, non era stato un vero e proprio crack al botteghino, come si potrebbe pensare oggi che è divenuto un film di culto, eppure un certo clamore l’aveva riscosso. L’operazione di Fulci, oltre ad inserirsi nella scia dello Zombi di George A. Romero dell’anno precedente, alimentando la fama dei morti viventi cinematografici, li svincolava dalla critica sociale, presente nei film del regista americano, permettendo una più ampia gamma di soluzioni narrative. Che poi era la condizione originale degli zombie intesi come mostri orrorifici: La notte dei morti viventi, il film del 1968 di Romero, ne aveva rilanciato la figura nel mondo cinematografico ma il tema aveva radici assai più profonde. Assai più recentemente, invece, un altro tema orrorifico aveva preso piede, ovvero quello dei cannibali, che, con Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, uscito nel febbraio del 1980, nonostante i guai giudiziari, fece indiscutibilmente un clamore che lasciava intendere tutte le potenzialità di questo neonato filone del cinema di genere italiano. É un po’ riduttivo liquidare come scaltrezza l’acume di De Angelis nell’imbastire un connubio tra due correnti così in voga al tempo, ovvero i film sugli zombi e quelli sui cannibali, come spesso capita di leggere. In realtà il cinema degli zombi era da sempre, in qualche modo, connesso al cannibalismo, e ora che quest’ultimo argomento era salito agli altari della cronaca, era quasi legittimo sancire questo legame con una pellicola pensata ad hoc. Zombi Holocaust, che sintetizza già nel titolo i suoi riferimenti, nasce così e, almeno concettualmente, non è affatto un’idea strampalata o meramente speculativa. Non più di moltissimi altri film, in ogni caso, spaziando in qualunque genere. Il problema, semmai, in Zombi Holocaust, è che la messa in scena complessiva non regge le aspettative, anche quelle del semplice appassionato di film horror di puro intrattenimento.
Intendiamoci, il film non è poi così osceno, si lascia guardare –a patto di averci lo stomaco– ed è anche divertente, ma le lacune di sceneggiatura, regia e anche la resa scenica di zombi e cannibali, lascia parecchio a desiderare. Più adeguati, al contrario, gli effetti di macelleria, vero piatto forte del film, nei quali si può apprezzare l’opera di Giannetto De Rossi e Giovanni Corridori. Tuttavia, anche dal punto di vista del trucco, Zombi Holocaust non convince pienamente, considerato che gli zombi sono assai poco credibili e, peraltro, anche i cannibali, che stando al copione sono abitanti di un’isola delle Molucche, sono caratterizzati in modo troppo anonimo. Ma il responsabile maggiore, in un film, è sempre il regista e per Zombi Holocaust venne ingaggiato Marino Girolami –celato dallo pseudonimo Frank Martin– un cineasta di lunghissimo corso. Girolami, maestro della commedia scollacciata del Belpaese, aveva già spaziato in generi più tesi, come i western o i polizieschi, sempre declinati nelle italiche versioni, ma mai, in oltre una settantina di film, si era spinto ad un horror estremo come Zombi Holocaust. Quello che manca, in definitiva, al film, è un po’ di complicità con lo spettatore, la strizzata d’occhio, che oltre ad alleggerire il clima narrativo, sarebbero indice di una partecipazione se non divertita, quantomeno convinta da parte dell’autore.
E, in un film che si presenta come commistione tra due correnti del cinema di cassetta –o exploitation, per dirla all’anglosassone– di opportunità in questo senso ce ne sarebbero a iosa. Si nota, per la verità, un tentativo di riprendere lo stile di Deodato di Cannibal Holocaust, soprattutto nelle scene ambientate a New York o nel finale con l’incendio, ma sono citazioni sterili. Anche il “messaggio sociale”, con l’accusa al mad-doctor della situazione, di aver causato, con la sua abominevole pretesa scientifica, il ritorno alla barbarie degli indigeni, finisce per sembrare un riferimento estemporaneo, seppur è il presupposto narrativo di tutta quanta la storia. Che, dal punto di vista narrativo, convince assai poco anche se, ad un certo punto, uno dei protagonisti è messo in guardia proprio da quello che sembrava uno degli inciampi della sceneggiatura. Il che testimonia come il film sia scritto meno peggio di quello che può sembrare a prima vista. In ogni caso non è nel canovaccio che fonda la sua ragion d’essere il cinema di genere italiano del tempo, e certamente non lo fa Zombi Holocaust. Oltre ai citati effetti splatter, tra le note positive c’è la musica di Nico Fidenco, di cui molti passaggi ripetono quella di Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977, di Joe D’Amato).
Per quel che riguarda il cast, una nota lieta è la protagonista, Alexandra Delli Colli, statuaria, di cui memorabile è la scena del rito in cui si mostra interamente nuda con dipinti floreali su tutto il corpo. Interessanti le presenze di alcuni attori già visti nei film di cannibali, come Donald O’Brien (è il folle dottor O’Brien) –era nel cast del citato Emanuelle e gli ultimi cannibali– e Dakar (è Moloto) –che era il sacerdote Voodoo in Papaya dei Caraibi, sempre di Joe D’Amato. Ma le connessioni presenti nel cast, probabilmente opera della produzione, non finiscono qui: il personaggio principale maschile è interpretato da Ian McCulloch, fresco protagonista del citato Zombi 2 di Fulci, mentre simbolica avrebbe potuto essere la figura di Walter Patriarca. Scenografo e costumista, tra gli altri, proprio in Zombi 2 e in Ultimo mondo cannibale (1977, regia di Ruggero Deodato), oltre al suo abituale lavoro, in Zombi Holocaust, si presta per il ruolo del dottor Drydock. Un medico rigoroso, come del resto lo è il cineasta che lo interpreta, che potrebbe essere la risposta alla medicina malata incarnata dal dottor O’Brien: un modo, forse, per ribadire come la serietà professionale sia da contrapporre a chi lavora in modo approssimativo. Come, ad esempio, praticare un intervento di trapianto cerebrale in una lercia baracca in mezzo alla foresta. Ma, per la distratta regia di Girolami, questa metafora rischia di essere un autogol.
Alexandra Delli Colli
Sherry Buchanan
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