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sabato 11 novembre 2023

KILLERS OF THE FLOWER MOON

1390_KILLERS OF THE FLOWER MOON . Stati Uniti 2023; Regia di Martin Scorsese.

C’è da fare una precisazione, anche prima di dire che Killers of the Flower Moon è un capolavoro: i 206 minuti di lunghezza, dell’ultimo film di Martin Scorsese, non sono troppi. Perché se c’è una cosa che, almeno andando a fiuto, sembra mettere d’accordo tutti, è che Killers of the Flower Moon sia esageratamente lungo. Ma non è così.
In ogni caso, prima di addentrarci nello specifico del film, c’è un altro elemento che salta prepotentemente all’occhio con Killers of the Flower Moon: Martin Scorsese ha fatto un western. Il cineasta di origini italiane è spesso additato, giustamente, come il più grande regista americano in circolazione. L’importanza del cinema americano è legata, al netto di Altman, del “Sundance Film Festival” o di quello che si vuole, ai suoi generi classici. Tra questi, due hanno probabilmente più rilevanza nella caratterizzazione a stelle e strisce del media cinematografico: il western e il poliziesco. Il cinema western è importante a livello collettivo, è l’epica della nazione americana, la sua celebrazione. Il poliziesco è di matrice più individuale, perché mette di fronte l’uomo al “Male”. Le varie sfaccettature che assume quest’ultimo tipo di narrativa, sono caratteristica della scuola che la produce. I Gialli alla Agata Christie e Arthur Conan Doyle, sono indagini in cui il Male è circoscritto e turba relativamente il protagonista di turno, prendete Sherlock Holmes per capirci. Gli americani, che rispetto agli inglesi hanno una matrice più pratica, non solo mettono al centro della scena investigatori non del tutto immacolati, pensate a Dirty Harry, l’ispettore Callaghan interpretato da Clint Eastwood, ma ribaltano sin dai primi anni del secolo scorso il punto di vista da cui osservare. Se gli yankee hanno il riconosciuto merito di aver messo come protagonista del loro tipico racconto l’uomo comune, i “John Doe” dei film di Frank Capra –e non il principe o, nel migliore dei casi, il povero-però-dalle-nobili-origini della tradizione europea– è con il crime-movie, ulteriore sfumatura del poliziesco, che compiono davvero l’opera. Nei film di gangster, il personaggio principale è un criminale: e Martin Scorsese, per celebrare la vera natura del suo paese, sceglie questo genere. I suoi “bravi ragazzi” raccontano l’America meglio di chiunque altro; manca però qualcosa. Scorsese era già, nel 2022, il più grande regista americano ma non l’aveva detta davvero tutta. I gangster, per come li intendiamo, erano entrati in scena a partita già iniziata, si erano eretti protagonisti di una società che, è evidente, palesava alcuni problemi di cui loro erano appunto una delle espressioni. Non si può, insomma, raccontare l’America senza il western, anzi, per essere più specifici, senza la questione indiana, e, finalmente, nel 2023, Scorsese colma questa sua lacuna. 

L’America nasce da una brutale ingiustizia più o meno tacitamente accettata ed è curioso che poi il paese si sia eretto come simbolo di libertà e garanzia a livello internazionale. Non si tratta di retorica antimperialista, sia ben chiaro, ma la pura e semplice realtà storica. Dalla quale, sostanzialmente, Scorsese decide di partire. Ai più distratti, sul principio, potrà anche essere sembrato che l’autore italoamericano si sia inventato un western distopico, dove gli indiani fossero i ricchi e i bianchi facessero loro da tirapiedi. Al contrario, si tratta di un fatto storico laddove la realtà supera la fantasia. Gli Osage, una tribù di nativi americani, cacciata dalla propria terra d’origine, finì relegata nell’inospitale Oklahoma, dove, ironia della sorte, fu trovato il petrolio proprio all’inizio della civiltà dell’automobile. Gli Osage si ritrovarono di colpo ricchissimi e la Storia tornò, come suo solito, a ripetersi. Gli indiani avevano qualcosa, prima una terra sconfinata ora il petrolio, su cui i bianchi metteranno gli occhi e poi le mani rapaci. La differenza sostanziale di questi due fatali rapine su larga, larghissima scala, sono giusto una cinquantina d’anni, quelli che passano tra l’apice dell’epopea del far west classico e gli anni venti del XX secolo in cui è ambientato Killer of the Flower Moon. E sono anche gli anni che permettono a Scorsese di far coesistere legittimamente il western con i suoi amati gangster movie, chiudendo a suo modo il cerchio. Il buon Martin sembra quasi voler dire: d’accordo, il western è indispensabile in un affresco dell’America ma i gangster sono la vera chiave che permette di risolverlo. Nel film, il gangster di riferimento è, manco a dirlo, Robert De Niro, nei panni del personaggio storico di William King Hale, zio di Ernest Burkhart, interpretato con magistrale mimetismo da Leonardo Di Caprio, fulcro centrale del racconto. 

Come detto, siamo nei roaring twenties, i ruggenti anni 20; anni rombanti, d’accordo, ma non si può più chiudere la questione indiana a revolverate. Va beh, non solo, almeno, visto che i morti indiani ammazzati da colpi di arma da fuoco non furono certo pochi anche nella vicenda degli Osage raccontata nel film. Occorre un po’ di mestiere, un po’ di maniera, un po’ di savoir-faire, e qui entra in gioco King Hale. Perché i gangster altro non erano che volgari criminali vestiti a festa, brutali banditi che si presentavano però come autentici gentleman. In questo, in questa loro ipocrisia, c’è già il lato oscuro dello spirito liberal americano e l’embrione del politicamente corretto tanto in voga adesso. L’attenzione formale è uno degli aspetti più curiosi di tutta quanta l’epoca dei gangster, basti dire, a titolo di curiosità, che Al Capone finirà arrestato per evasione fiscale e non per gli omicidi seminati: un caso, o meglio un pretesto, è evidente. Ma, a voler pensar male, sembra quasi che per gli americani siano più importanti i soldi piuttosto che la vita delle persone. Che, in effetti, è la filosofia che segna appunto Killers of the Flower Moon, come precedentemente aveva segnato la conquista del west. Del resto, il Sogno Americano, la possibilità data ad ognuno di avere successo, portava inevitabilmente a questo. All’ostentazione del risultato ottenuto, che si otteneva esibendo la propria ricchezza in modo sempre più evidente –i tanti status-symbol che la classe borghese disseminerà nei decenni– procedendo su un doppio binario. Da una parte si sono progressivamente alzati gli standard, in modo da permettere a pochi di distinguersi, dall’altro si è cercato di stemperare l’inevitabile deriva pacchiana. Dal punto di vista materiale, in questo senso, sono serviti la moda, gli stilisti, gli architetti e altre figure simili, ma l’aspetto più importante è sotto il profilo culturale. Riprendendo pedissequamente i modi dei personaggi come il William King Hale del film di Scorsese, i profeti del Politicamente Corretto applicato ad ogni ambito dello scibile umano, hanno indorato la pillola, e continuano a indorarla, permettendo a chi detiene il potere di fregare il prossimo, ma di farlo mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla. 

È esattamente grazie a questo tipo di personaggi –di cui i gangster come King Hale non sono che il lato oscuro ma esistono, ovviamente, una serie di imprenditori, politici, intellettuali, che non sono poi molto diversi come natura– che l’America assurge a potenza mondiale. Individui come Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America proprio negli anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, che, per i più distratti, va ricordato fu un accanito sostenitore del suprematismo bianco e della segregazione razziale. Al momento opportuno, il futuro premio Nobel per la pace, sarà capace di spacciarsi come promulgatore dell’autodeterminazione dei popoli(!) nei famosi Quattordici Punti, puro distillato di Politicamente Corretto utilizzato con strumentale abilità. Un clamoroso caso in cui il politically correct, per definizione qualcosa di corretto a livello politico – che diviene però ingannevole e deprecabile fuori contesto, come ad esempio nell’arte, nel cinema, nei fumetti, eccetera, eccetera – riesce ad essere scorretto anche nel suo ambito, nella fattispecie nella Conferenza di Pace del 1919. Tutto questo c’entra marginalmente con Killers of the Flower Moon? Niente affatto, tutto ciò è esattamente la materia di cui è costituito il film di Scorsese. La figura del gangster, di cui King Hale è un efficace prototipo, assume una dimensione più completa, con questo ultimo film del cineasta nato a New York, proprio perché il suo rapportarsi agli Osage permette di comprenderne meglio la natura ambigua. 

Che i criminali dei roaring twenties fossero benvoluti dalla gente era già noto ma è nel modo in cui King Hale si affratella cinicamente agli Osage che si comprende meglio il suo vero animo, che è lo stesso degli imprenditori di successo, dei politici vincenti, di (quasi) tutti i leaders della nostra società. Non è un tema leggero. Non è, Killers of the Flower Moon un film su qualche omicidio avvenuto tra i nativi americani. Non è nemmeno lo sterminio pianificato di una tribù per accaparrarsi i suoi beni. No, è un trattato sull’America: il film che riassume il genere western e il crime movie, dove si può comprendere come sia possibile che nel paese dove è avvenuta la più grande ingiustizia sociale della Storia –la depredazione di un intero continente con lo sterminio degli occupanti– sia in vigore oggi un’ideologia basata su un rispetto formale assurdo che arriva ad impedire l’uso di determinate parole, perfino nelle opere di finzione, per non “urtare” la sensibilità delle minoranze. Questo senza passare da un reale e concreto pentimento, beninteso. E di questo parla Scorsese. Questo è, infatti, l’obiettivo di Killer of the Flower Moon, e per arrivarci, Scorsese non può dare retta alla premura degli spettatori. Sembra, infatti, che tutti gli spettatori abbiano fretta, che il film sia troppo lungo, eccetera, eccetera. Ma, forse, è una fretta non poi così diversa da quella che ha King Hale di vedere i suoi “amici” Osage morire per riuscire a mettere le mani sui loro averi. O forse no, forse è solo l’abitudine ad andare di corsa, che il Sogno Americano la competitività, e quindi la velocità, l’efficienza, la rapidità, ce le ha inculcate per bene. Purtroppo, per capire, in genere, ci vuole tempo. E per capire bene gli inganni di questo gangster che sembra una pasta d’uomo, ci vuole tempo, e altro ce ne vuole per capire Ernest, forse anche di più, sicuramente di più. Anche perché, il vero punto di vista del racconto, è quello di Mollie (Lily Gladstone, strepitosa), una donna osage –una squaw, insomma– una di quelle donne che, della pazienza e della capacità di sopportazione, erano vere campionesse. Mollie, per la verità, è anche intelligente e testarda, ma rimane una donna indiana di inizio Novecento e, quindi, per indole o forse per cultura e tradizione, disposta a concedere credito di fiducia quasi illimitato al proprio uomo. 

E se è lei la protagonista di Killers of the Flower Moon, è al suo ritmo che ci dobbiamo adeguare; almeno per una volta, almeno per questa volta, per il western forse davvero definitivo, proviamo a metterci realmente nei panni dell’altro. E guardiamo le cose dal suo punto di vista e con i suoi tempi, altrimenti torniamo ancora una volta a calarci nei panni di King Hale e del suo affabulante e letale modo di infinocchiare –ed eliminare– il prossimo. Se il personaggio principale è Mollie, il punto cardine del racconto è, come già accennato, suo marito Ernest Burkhart. Il nocciolo della questione è: Ernest è davvero pentito quando ha l’ultimo, commovente, colloquio con sua moglie? Non è una cosa che si possa liquidare troppo velocemente, e qui torna appunto utile la lunghezza del film, perché Burkhart ha ucciso, rapinato, pestato a sangue, fatto parte di un’odiosa organizzazione criminale. Nel frattempo, ha amato, forse davvero sinceramente, sua moglie, che poi era l’oggetto ultimo, la vittima designata, del piano criminale predisposto dallo zio King. Lo si è detto ma è meglio ripetersi: lei è una donna osage, una donna paziente e ben disposta nei confronti del marito, una donna che si fida delle parole del suo uomo. È qui che risiede forse l’aspetto più interessante del film: Ernest ama sua moglie, eppure accetta di far parte del piano per imbrogliarla e, in definitiva, ucciderla. Per assurdo, se l’uomo avesse mentito nel suo rapporto sentimentale con Mollie, sarebbe stato meno grave. Sarebbe stato semplicemente un pesce piccolo, un piccolo squalo, in un gioco gestito dai grandi squali come King Hale e gli speculatori di quella risma. Allora sì che si sarebbe potuto sforbiciare un’ora di film per ridurre Killers of the Flower Moon ad un minutaggio più canonico. Invece Ernest è un personaggio straordinariamente ambiguo, proprio un uomo del Novecento –anzi un “contemporaneo”, visto che, anche se non se n’è accorto quasi nessuno, siamo ormai in pieno XXI secolo– nel riuscire a tenere le sue “tracce comportamentali” separate: in famiglia, è marito e padre amorevole, quando è il nipote di zio King, uccide senza alcuno scrupolo. 

Quando muore la sua figlioletta Anna –e curiosamente muore proprio quando nell’indagine condotta dalla Polizia Federale si rievoca l’assassino di sua zia Anna (Cara Jade Myers), quasi una sorta di contrappasso, un atto d’accusa del racconto rivolto proprio ad Ernest– l’uomo sembra pentirsi della sua scellerata condotta. E, al processo, vuota il sacco e testimonia contro suo zio King svelandone i piani criminali. Ma, nella confessione al banco degli imputati, salva il suo amore per Mollie, un amore sincero, stando alle parole dell’uomo. Il piano di King Hale era, in soldoni, far maritare le donne Osage a parenti o persone fidate, mentre si provvedeva a decimare la popolazione di nativi, eliminando infine le donne, in modo da ereditarne le proprietà ricche di petrolio. Ernest però rassicura: quando si era messo a corteggiare Mollie, lo aveva fatto di sua iniziativa, per un interesse sentimentale e non seguendo un piano coordinato da King Hale. Che poi la cosa era tornata utile agli intenti dello zio, era una semplice coincidenza, evidentemente: Ernest amava Mollie al tempo e l’amava ancora adesso, quando l’aveva curata per il suo diabete. Lo zio King, del resto, aveva procurato il nuovo miracoloso farmaco, l’insulina, per poterla curare. Per dovere di cronaca, King Hale era sempre subdolo, e questo faceva parte del piano: Mollie doveva morire al momento opportuno, per canalizzare le eredità senza dar adito a sospetti. Ma Ernest? Ernest sapeva che i dottori ingaggiati da King Hale stavano facendo somministrare, insieme all’insulina, veleno alla sua Mollie? Forse no, ma la donna vuole guardare in faccia il marito, dopo il suo pentimento, vuole vedere la sua reazione di fronte a questa domanda, vedere se è davvero puro, una volta confessato la verità, come dice di essere. Non è un passaggio facile e, per questo, occorre una donna paziente e testarda come Mollie, per farcelo capire. 

Ernest ha ucciso e tramato, picchiato, rapinato; e si è pentito. Questo è vero; e glielo si può concedere. Ma può pentirsi un uomo di qualcosa di cui “non ha voluto accorgersi”? È convinzione diffusa che ci si possa pentire del Male che, con una certa dose di “dignità malvagia”, si fa in prima persona, o si spinge altri a fare. Di quelle azioni, per quanto odiose, ci si prende carico della responsabilità. E, chissà, forse, per questi peccati, è davvero possibile pentirsi, il pentimento può essere davvero sincero e non di comodo. I dubbi ci saranno sempre, ma nel dubbio si può sempre concedere una certa benemerenza; ce l’hanno insegnato in tutti i modi e allora proviamo a crederci. Ma, e qui Killers of the Flower Moon è davvero rivelatorio, ci si può pentire di qualcosa che si è voluto ignorare, che non si ha avuto il coraggio di affrontare ma si è opportunisticamente assecondato, untuosamente lasciato perdere, viscidamente evitato di vedere? In questi casi, la situazione diventa diversa; è una sorta di patteggiamento morale, un modo di essere già in parte pentiti prima ancora di commettere il male e allora il pentimento vero, quello definitivo, fatica ad essere accettabile come opzione. Zio King era stato molto chiaro con Ernest: il nipote doveva sposare Mollie per ereditarne il patrimonio, da lasciare poi alla “famiglia”, ovvero a King Hale stesso. Ernest non confessa, a processo, di essere d’accordo ad uccidere sua moglie e, alla stessa Mollie, non ammette di sapere che la stesse avvelenando. La mente di Ernest, con borghese chirurgia, aveva ammesso di essere stato un criminale e se ne diceva pentito ma era ben consapevole che, se avesse dichiarato di essere stato a conoscenza degli intenti di suo zio nei confronti di sua moglie, l’avrebbe irrimediabilmente persa. E allora Ernest, cerca di cavarsela tirando fuori la sincerità dei suoi sentimenti, leva su cui sa di poter contare per ammansire ancora una volta la donna. Ma stavolta non basta. L’amore è un motore certamente forte, ma che non può essere usato a piacimento. Soprattutto, occorrono rispetto e dignità, anche quando si fa del male. Occorre prendersi la responsabilità delle proprie azioni e, solo allora, si può in qualche modo sperare di essere convincenti quando si dice di essersi pentiti. Non bastano quattro moine politically correct o, nel caso specifico, gli occhi azzurri e tristi di Di Caprio. Per la verità, gli americani, nella questione indiana, l’hanno sempre sfangata in questa maniera.
Ma non chiedete di fare lo stesso a Martin Scorsese. 





Lily Gladstone



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