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mercoledì 8 novembre 2023

VICTIM

1388_VICTIM (Obet). Slovacchia, Repubblica Ceca, Germania 2022; Regia di Michal Blasko.

È già buio pesto, il pullman è fermo in colonna e dovrà attendere che passino prima le automobili. L’autista informa i passeggeri: ci vorranno ore di attesa prima di riprendere la marcia verso al Repubblica Ceca. Irina (un’intensa e convincente Vita Smachelyuk) non ha assolutamente tutto quel tempo da perdere: suo figlio Igor (Gleb Kuchuk) è stato ricoverato all’ospedale. Sono una famiglia, madre e figlio, ucraina, emigrata da poco in Cechia e la donna è dovuta rientrare nel paese natio per questioni burocratiche, affidando il figlio all’amica Kamaràtka (Inna Zhulina). Il quartiere è tutt’altro che sicuro e, infatti, il suo ragazzo è stato trovato pestato a sangue sulle scale del condominio dove alloggiano. La donna si fa quindi consegnare il bagaglio, dallo scocciato autista che deve aprirle lo sportellone laterale dell’autobus, e se ne va con l’ingombrante trolley in piena notte, nel caos dei veicoli incolonnati. Se è lei la vittima a cui fa riferimento il regista Michal Blaško con il titolo del suo notevole film, non è una vittima inerme. Ma, forse, è già intuibile, c’è almeno un'altra papale “vittima” nel racconto –ma non sarà la sola– ed è appunto Igor, che ha perso un rene nell’operazione necessaria dopo il pesantissimo pestaggio ricevuto. Certo, il suo sembra un esempio calzante per il ruolo di vittima della storia, tuttavia, volendo ben vedere, c’è anche il ragazzo di etnia rom che finisce in galera, che potrebbe avere delle legittime ambizioni in tal senso. Il racconto filmico lo lascia però in disparte, evitando di chiamarlo sullo schermo e tirandolo in ballo solo come sospettato di far parte del drappello –tre individui, stando alle stentate parole di Igor– che ha picchiato il ragazzo ucraino. 

Il giovane rom è innocente, verrà stabilito anche relativamente in fretta, nel corso del film ma, stando a quanto appreso dal racconto, rimarrà in carcere per tutta la durata dello stesso, uscendo, si può supporre, solo nel finale, dopo la dichiarazione pubblica di Irina. Siamo in un piccolo centro della Repubblica Ceca, si è detto, e, alle già presenti minoranze etniche presenti nel luogo, si sono aggiunti, in questi anni di guerra, anche coloro i quali hanno deciso di abbandonare l’Ucraina. Come Irina e Igor, appunto: la donna è sui quaranta abbondanti, il ragazzo non è maggiorenne. Due vittime della guerra, di quell’aggressione russa che ha sensibilizzato notevolmente l’Europa: due vittime simbolicamente perfette per raccontare il nostro presente. Ma, come accennato, la donna dimostra una certa tempra: non resta seduta nel bus ad aspettare, tanto per cominciare, e poi conferma quest’indole battagliera nel corso degli avvenimenti. Fa questione coi vicini di casa, la famiglia rom del piano di sopra –quella a cui appartiene il ragazzo che finirà in prigione accusato dell’aggressione di Igor– e, nella disputa, dimostra una certa prepotenza. Va, beh, d’accordo; ma questi tizi, quando si fanno la doccia, le allagano l’appartamento, che diamine. É una parrucchiera ma, ora, pur di sopravvivere, fa le pulizie; le respingono la domanda di cittadinanza ceca, la riformula di nuovo. Insomma, non è un tipo che si arrende, Irina; figuriamoci quando le pestano il figlio riducendolo in fin di vita e negandogli per sempre la possibilità di proseguire la promettente carriera di ginnasta. L’investigatore Novotný (Igor Chmela) interroga a più riprese Igor, che, tra un silenzio e una mezza parola, alla fin fine accusa genericamente tre ragazzi. Il giovane è convalescente e, forse, ancora sotto choc: ma non sembra troppo disposto a collaborare con le forze dell’ordine, questo è evidente. 

La sua confusa deposizione fa cadere i sospetti sui rom del quartiere: i dissapori tra gli immigrati ucraini e i rom sono noti, il giovane che abita al piano di sopra ha precedenti penali, e, per cominciare, finisce “al fresco” almeno lui. Un provvedimento che inasprisce ancora di più la situazione e Irina, tra le altre cose, si ritrova l’automobile coi finestrini frantumati. E non è questa pur barbara ostilità il risvolto peggiore che avrà la vicenda. Ma andiamo con ordine: intanto, l’ingiustizia subita da Igor e Irina, è notata dalla comunità, che se ne interessa, dimostrando apparentemente grande senso civico. Selský (Viktor Zavadil), un ex ginnasta o qualcosa del genere, organizza una marcia di protesta, Irina viene intervistata e finisce addirittura al telegiornale e, infine, la sindaco l’aiuta nel cercare un nuovo alloggio, le offre una somma di denaro a nome della comunità e le promette di aiutarla ad ottenere l’agognata cittadinanza. Tutto questo trambusto che si innesta sull’indomita volontà della donna ucraina, finisce per travolgerla; ma, se Irina rimane più spaesata che lusingata da tale mole di attenzioni, Igor ne è addirittura infastidito e chiede alla madre di desistere dal suo operare. Qui comincia a delinearsi meglio anche la personalità del giovane: l’eccessivo risalto del fatto, rischia infatti di smascherare il suo gioco, ed è questa la prima vera cosa che sembra preoccuparlo. Non è stato, infatti, pestato: è semplicemente caduto nella tromba della rampa di scale mentre si pavoneggiava con l’amichetta del cuore, mostrandole le sue –presunte, a questo punto– qualità di ginnasta appendendosi alla ringhiera del condominio. Per Irina, è un colpo durissimo. 

È qui che Victim, il film di Michal Blaško, svolta e si avvia a vincere la sua partita a mani basse. Finora, cos’era stato, infatti, il racconto? Una storia di immigrati con un pestaggio tra giovani dalle conseguenze gravi ma, in un mondo fatto di guerre in ogni angolo, transfughi che muoiono lungo il loro peregrinare, diritti umani negati a milioni di persone, questa storia non era che un dettaglio minimo. E invece no. Qui, il problema morale che si scarica sulle spalle della povera Irina è molto più di quello di un banale pestaggio o dei pur drammatici problemi dell’emigrazione. La questione è assai più radicale: quanto ci costa, dire la verità? Mentre Irina prende tempo, l’investigatore Novotný, forse l’unica altra persona di coscienza del racconto, non se ne sta con le mani in mano. Anche perché la tesi raccontata da Igor non sta in piedi: le ferite del ragazzo sono compatibili con una caduta, non con un pestaggio. Al suo superiore, il procuratore, i dubbi dell’investigatore interessano però il “giusto”: indaghi pure ma, intanto, il ragazzo rom oggetto di fermo sta bene dove sta, in prigione. La cosa morde però la coscienza di Irina, che si rende conto della gravità della falsa deposizione del figlio. Innanzitutto ha mandato un innocente in galera; inoltre rischia lui stesso di essere accusato di calunnia o falsa testimonianza. Nel frattempo, la donna cerca di riappacificarsi con la vicina di casa, la madre del ragazzo incarcerato; in fondo ne condivide la disperazione. 

Di tutt’altro avviso è la sua amica Kamaràtka, che cerca piuttosto di farle lasciar perdere queste perplessità, cogliendo, negli sviluppi della situazione, l’opportunità di aprire finalmente il negozio di parrucchiera con Irina, grazie ai soldi donati dal sindaco. Intanto la cosa monta sempre di più: il lavoro sui social network di Selský l’ha fatta diventare enorme, si teme addirittura per l’ordine pubblico, con possibili infiltrazioni neo-naziste tra le file dei manifestanti nella marcia organizzata in favore di Irina e di Igor. Nella narrazione incessante del tam-tam mediatico, l’aggressione è imputata, senza dubbio alcuno, ai rom e le forze dell’odine sono accusate, nel migliore dei casi, di indifferenza. Blaško, il regista, e Smachelyuk (l’attrice protagonista) sono in questa fase bravissimi: la tensione cresce di minuto in minuto, fino a farsi insostenibile. L’obiettivo della macchina da presa del cineasta slovacco rimane fisso sul volto della sua interprete, osservandone i moti interiori: la donna non può reggere, prima o poi confesserà. 

Ma il percorso per la redenzione non è facile e Irina prima resiste ad un ultimo paterno interrogatorio dell’ispettore, poi, sul palco della manifestazione, cerca di salvare capra e cavoli, tutelando Igor, coprendone le bugie ma, nello stesso tempo, discolpando il figlio della vicina, il ragazzo rom ancora detenuto. In cambio di questa concessione all’altare della verità, Irina offre i soldi ricevuti dalla sindaco, devoluti in beneficenza a quel centro sportivo che Igor non potrà più frequentare. Un minimo di espiazione anche per lui, vedi mai. Ma questo non basta e lei lo sa bene. È solo un altro modo per prendere tempo, e la donna, a cui è già stato sottratto anche lo spazio (fuggita dalla guerra e dall’Ucraina ma non ancora accettata in Cechia), è ormai maestra nel gestire questa sua perenne e totale condizione di precarietà. Quando però si azzarda a confessare al figlio che, prima o poi, bisognerà pur dire come sono andati veramente i fatti, Igor tira finalmente fuori quella forza che, quando si tratta di ammettere un proprio errore, non riesce o non vuole mai trovare. 

Com’è tipico dei vigliacchi, bravissimi a spacciarsi per vittime, il giovane fa al contrario la voce grossa quando si trova nella posizione di forza. Sua madre non ha che lui ed è soggetta all’amore materno, e questo fa di lei una vittima di cui Igor non esita ad approfittare. “Non ti perdonerò mai!” ribadisce più volte perentoriamente alla donna, se questa si azzarderà a confessare. Quello stesso ragazzo che, incerto e intimorito, aveva bisogno dei continui interventi della madre per reggere al pur pacato e comprensivo interrogatorio dell’investigatore Novotný, ora dimostra la sua vera natura. Nessuna remora o scrupolo morale ma, se c’è da difendere i propri interessi –nello specifico, poter continuare a vivere nella città della fidanzatina– allora si è disposti a tutto, anche a mostrare i muscoli. In un film in cui non ci sono di fatto persone anziane, possiamo notare come gli unici individui che si pongano la questione morale sono Irina e Novotný, e sono sopra i quarant’anni. Volendo, possiamo mettere a referto, tra le note consolatorie, anche la madre della famiglia rom che, nel finale, ha uno slancio positivo, quando si assume la responsabilità per le infiltrazioni del bagno, mostrando quello che è un moto di coscienza. Questo non significa che tutte le persone mature del film siano coscienziose: dal procuratore, all’amica di Irina, Kamaràtka, alla sua datrice di lavoro, che sta a far le pulci alle sue inquiline, alla sindaco, sono tutte persone concentrate sul proprio tornaconto. Ma la statistica si fa assai peggiore se si prendono in esame i personaggi più giovani: ad esempio, la giornalista, interessata solo al suo scoop, o Selský, il fighetto che faceva ginnastica, che fa il risentito quando si parla di neonazisti nel suo corteo ma poi, ascoltandolo al comizio, parla quasi come fosse lui stesso uno di loro. Sui partecipanti al comizio è poi inutile ogni commento, dal momento che hanno l’alibi di far parte del branco che, come noto, fa regredire al rango di bestia chi decide di farne parte. Così come è inutile soffermarsi sugli amici di Igor che, stando alle sue stesse parole, sono andati a trovarlo solo per avere delle storie da pubblicare su Instagram. Sarebbe bello poter sorvolare anche sulla fidanzata, vuota e ininfluente, se non fosse che, con la sua fuga vile e ignobile di fronte a Igor schiantato al suolo, meriterebbe la palma di peggior elemento del lotto senza tema di smentita. Ma il racconto filmico ci porta a chiudere questa deprimente panoramica sulla gioventù europea con quello che, se non è il peggiore di tutti, è certamente il motore di questa squallida vicenda, Igor. Vile quando gli conviene, coraggioso quando se lo può permettere, il ragazzo trova comodo il ruolo di vittima per scantonare le proprie responsabilità e fare indisturbato il proprio interesse. Che ci siano delle conseguenze per altri, la sofferenza della madre o il ragazzo rom detenuto in seguito alle sue parole, sono cose che non lo scalfiscono minimamente. E si può quindi dire che questo soggetto sia una vittima? No di certo. Ma, allora, qual è la vittima a cui si riferisce il titolo
La verità.




Vita Smachelyuk


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