1473_LA TERRA DEGLI APACHES (Walk the Proud Lane). Stati Uniti 1956; Regia di Jesse Hibbs.
Durante il secondo conflitto mondiale, Audie Murphy fu un vero eroe di
guerra, tanto da guadagnarsi il titolo di militare più decorato dell’Esercito americano.
Una volta in congedo, Murphy si dedicò al cinema, ancora una volta con onore,
seppure non riuscendo a ripetere i fasti delle sue imprese belliche. Reciterà
in tantissimi film, spesso da protagonista, ma finendo via via quasi sempre più
confinato in produzioni di serie B. A tarpare le ali alle sue velleità
artistiche –ad inizio carriera fu diretto da registi come John Huston o Joseph
l. Mankiewicz, ma poi, come detto, diverrà uno specialista delle produzioni
minori– furono alcuni suoi limiti tecnico-estetici. Non aveva una presenza
scenica che si imponesse, aveva sì un bel viso, pulito, ma con poco «carattere», e,
malauguratamente, pur sapendo reggere lo schermo, non era interprete di grande
spessore. Tuttavia, forse per il suo passato di eroe, non finì relegato al
ruolo di comparsa: era un protagonista, ma adeguato unicamente a pellicole senza
particolari approfondimenti. Storie semplici, psicologie appena abbozzate, figure
simboliche più che tridimensionali: i B-movie, appunto. In qualche caso questa
ricetta funzionava e, ad Hollywood, se qualcosa poteva funzionare, erano in
grado di farla funzionare meglio e più spesso. La terra degli Apaches,
western di Jesse Hibbs è un classico esempio in tal senso. Il film è
indiscutibilmente apprezzabile per una serie di motivi, tra i quali la
valorizzazione di un interprete come appunto Murphy, altre volte –al di là della
benevolenza con cui è sempre stato trattato– onestamente poco convincente. La
terra degli Apaches è un film di serie B un po’ atipico perché si prende la
briga di raccontare una vicenda storica, impostata su un periodo della vita di
uno dei protagonisti reali del west, vale a dire John Clum.
Clum è una figura
abbastanza nota dell’epopea della frontiera americana, non fosse altro perché
ai tempi della sparatoria dell’Ok Corral a Tombstone era il sindaco della
città, nonché amico fidato di Wyatt Earp. Il suo è un ruolo che non manca quasi
mai nei film dedicati all’evento e, in effetti, lo possiamo trovare tanto nel
classico Sfida infernale (1946, regia di John Ford), come negli esempi
più recenti Tombstone (1993, di George Pan Cosmatos) o Wyatt Earp
(1994, di Lawrence Kasdan). Ma Clum è un personaggio storico assai più
importante per un altro motivo: fu il primo agente indiano a trattare gli
Apaches con umanità e trasformò letteralmente la riserva di San Carlos, in
Arizona, che arrivò a dotarsi di autogoverno, con tanto di forze di polizia
autonome. La clamorosa esperienza di Clum come agente indiano venne narrata dal
figlio, Woodworth Clum, nel libro Apache agent, che servì agli
sceneggiatori Gil Doud e Jack Sher e al regista Jesse Hibbs, per realizzare La
terra degli Apaches. Era il 1956, giova ricordarlo, e un film, un B-movie a
sfondo storico prodotto ad Hollywood, metteva oltre ogni minimo dubbio gli
Apaches dalla parte della ragione e la cavalleria degli Stati Uniti da quella
del torto. La terra degli Apaches, va riconosciuto, è piuttosto
schematico, non approfondisce i temi e, oltretutto, la regia di Hibbs non si
segnala per particolari guizzi o intuizioni. Tuttavia il formato CinemaScope,
accompagnato dalle calde immagini in Technicolor, riescono anche stavolta
nell’impresa di nobilitare almeno sul piano tecnico un lavoro valido ma non
proprio eccezionale. Tornando alla stilizzazione del racconto, il film si
schiera apertamente con gli Apaches –che del resto avevano esattamente quelle
ragioni che vengono mostrate– ma non rischia di cadere nell’apologia indiana
visto che, accanto a personaggi postivi, tra i nativi, sono mostrati anche
quelli assai più discutibili.
Tra i primi meritano una citazione il capo
Eskiminzin (Robert Warwick) e Taglito, [che si pronuncia Tagh-lito]
interpretato dal ballerino e coreografo Tommy Rall. Se Santos (Victor Millan),
figlio di Eskiminzin, è solo un po’ irrequieto – oltre che coinvolto
sentimentalmente in una disputa con Clum, cosa che lo rende particolarmente
ostile all’agente indiano– ben diverso è il caso di Geronimo, il bellicoso condottiero
degli Apaches ribelli. Ad interpretare questa cruciale figura storica, venne
chiamato un vero specialista: Jay Silverheels. Famoso più che altro per essere
stato Tonto nella serie televisiva di Lone Ranger, l’attore di etnia Mohawk
era già stato un credibile Geronimo ne L’amante indiana (1950, di Delmer
Daves) e in Kociss, l’eroe indiano (1952, George Sherman). Anche
stavolta, Silverheels riesce a tratteggiare un villain decisamente
affascinante, pur se ben poco amichevole. Il film è romanzato seppur rispetti
formalmente alcuni dettagli storici: la scorrettezza delle autorità che
gestivano San Carlos per il proprio tornaconto a danno degli Apaches, la
riforma della riserva voluta da Clum, e perfino la cattura di Geronimo da parte
di questi e della polizia indiana senza bisogno di ingaggiare uno scontro ma
beffandolo con un trucco. Nel racconto il tutto è semplificato perché, tra l’altro,
ci sono un paio di tracce sentimentali che si intersecano e occorre condensare il
film entro l’ora e mezza canonica per le produzioni minori. La prima delle protagoniste
femminili è una fulgida Ann Bancroft nel ruolo di Tianay, una vedova Apache che
si innamora di Clum, ma lei stessa è l’oggetto del desiderio di Santos.
L’agente indiano è, per altro, già fidanzato, e sposerà, nel corso del film, Mary
(Pat Crowley) che, arrivando dall’est, si troverà catapultata nel mezzo di una polverosa
e ben poco accogliente riserva indiana. Ad aiutarla a superare i prevedibili problemi
d’ambientamento e a ritrovare la giusta sintonia con Clum saranno proprio i
saggi consigli di Tianay, che, pur se malincuore, riuscirà a vincere la legittima
rivalità. Il finale riserva un piccolo accenno che lascia intendere che Tianay
finisca per accettare la corte di Carlos. E vissero, quindi, tutti felici e
contenti? Mica tanto, perché prima della chiusura si assiste al ritorno sulla
scena dell’esercito degli Stati Uniti, nient’affatto rassegnato a vedere San
Carlos autogestita dagli Apaches. La cavalleria americana trovò il pretesto per
tornare a spadroneggiare sulle terre dei nativi, come era sempre stata solita
fare. Va bene romanzare per esigenze culturali, educative o anche solo
spettacolari, ma, considerato la Storia, probabilmente un lieto fine per gli Apaches
può figurare unicamente in un film di fantascienza.
Nessun commento:
Posta un commento