837_LA BANDA DEGLI ONESTI . Italia; 1956; Regia di Camilla Mastrocinque.
Anche stavolta, Camillo Mastrocinque si conferma valido regista, in grado come pochi di gestire al meglio una presenza in un certo
senso ingombrante come quella di Totò. In questo La banda degli onesti il comico napoletano è la figura centrale,
ovviamente, ben coadiuvato dalla spalla Peppino de Filippo con cui si muove agilmente su storia
costruita dal duo Age & Scarpelli (soggetto e sceneggiatura) orchestrata con maestria. Ulteriore merito della struttura alla base del film, anche gli altri personaggi che compaiono nella storia sono funzionali ad un meccanismo
che ruota tutt'intorno alla banda degli onesti del titolo, ovvero il trio
di protagonisti (oltre a Totò e Peppino c’è anche Giacomo Furia). Il pretesto
narrativo è interessante: Antonio Bonocore fa il portiere di un complesso
condominiale e un inquilino, in fin di vita, pentitosi per il furto, gli
consegna gli stampi autentici per stampare banconote da 10.000 lire, con la
richiesta della promessa di distruggerli. Antonio non ne vuole sapere, in
quanto onesto; ma l’obbligo di una promessa fatta sul letto di morte, lo 'costringe' moralmente a prendere la valigia ed occuparsene. Da qui, la
tentazione lo farà ladro, e finirà per coinvolgere Giuseppe Lo Turco (Peppino),
tipografo, e Cardone (Giacomo Furia) pittore, allo scopo di falsificare un po’
di banconote. Dopo mille peripezie il tutto si risolverà per il meglio,
naturalmente, dal momento che si tratta comunque di una semplice commedia per
sorridere un po’. L’importanza del film, oltre che basata e sorretta dalla verve di Totò e
Peppino, è però più profonda: la storia raccontata ne La banda degli onesti smentisce il luogo comune che l’Italia sia un
paese di mariuoli, ma ci pone altri interrogativi. Innanzitutto Antonio rimane
invischiato nella faccenda dal momento che si sente in obbligo verso il vicino a cui ha fatto una promessa in punto
di morte; perché di suo se ne sarebbe stato alla larga. C’è quindi un'onestà di
fondo, anche se è vero che in ogni caso poi il nostro cede alla tentazione. L’aspetto
veramente interessante della storia è però rivelato nel finale, quando si
scopre che tutti e tre i complici hanno preferito non spendere il denaro falso,
ma piuttosto indebitarsi per comprare chi le scarpe e chi il cappotto nuovi.
Questo è un passaggio curioso perché conferma quell’onestà di fondo di cui si
diceva sopra, dell’italiano medio, che però, e qui sta la vera sorpresa, quasi se
ne vergogna e, per nasconderla, per evitare di essere additato come onesto e
quindi poco furbo (in questo caso agli occhi dei complici), ricorre addirittura
ad un prestito. Quindi si ricorre all’indebitamento non tanto per la brama per
l’oggetto nuovo da sfoggiare ma per non passare per fesso, del timoroso che
non spende i soldi fasulli e quindi disonesti.
Insomma, la retorica dell'italietta, quella autartica del dopoguerra, alla lunga viene fuori lo stesso e se non ci vuole ladri ci dipinge come codardi.
Insomma, la retorica dell'italietta, quella autartica del dopoguerra, alla lunga viene fuori lo stesso e se non ci vuole ladri ci dipinge come codardi.
mi sa che il regista alla fine ha voluto essere realistico e non ce l'ha fatta a fornire un'interpretazione troppo candida di questi personaggi... avrei preferito anch'io che non si scivolasse nel solito culto della furbizia, ma vabbè... con Totò ci possiamo accontentare :)
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