1386_IN THE REARVIEW (Skad dokad). Polonia, Francia, Ucraina 2023; Regia di Maciek Hamela.
Difficile parlare di In the rearview come fosse un film; quello di Maciek Hamela sembra piuttosto una raccolta di frammenti di vite umane, qualcosa oggi di un valore più urgente, necessario, indispensabile. Ma probabilmente è solo l’emozione del momento. Perché, in questo stesso momento, viene anche il dubbio che questo Maciek Hamela, sia un supereroe, visto quello che combina in Ucraina, di questi tempi. Prima che cineasta, Maciek è un volontario che scarrozza, con il suo pulmino, le persone in fuga dal conflitto. Già il fatto di recarsi in Ucraina, oggi, ci dice del coraggio del regista polacco; e poi il sangue freddo di fronte ai posti di blocco, alle strade minate, alla possibilità, affatto remota, che un missile decida improvvisamente di colpire proprio il suo veicolo. Ma, a stupire, perfino più del coraggio o del carattere socievole che Maciek mostra anche in questi delicati frangenti, è la sua pazienza. L’uomo non perde mai la calma; la gente che deve prelevare non sempre sembra consapevole del tutto della situazione e spesso ci appare distratta da questioni del tutto irrilevanti, come i bisogni fisiologici del proprio gatto o la posizione con cui stare seduta durante il tragitto. Ovviamente, tutto ciò appare strano o inopportuno guardando le cose da una comoda poltrona di una sala cinematografica; nella loro realtà, questi individui, cercano probabilmente di non impazzire di fronte ad una tragedia come quella che stanno vivendo, aggrappandosi anche a questi, relativamente superficiali, dettagli che li tengono però in qualche modo ancorati alla realtà quotidiana. Hamela, evidentemente lo sa e, allora, pazientemente si ferma e fa scendere il passeggero davanti, per permettere alla donna col gatto di far fare i bisognini al micetto. Tutto questo in un paese come l’Ucraina del dopo 24 febbraio 2022, dove un missile, una bomba, una mina, il proiettile di un cecchino o qualsiasi altra diavoleria bellica, può scrivere la parola fine alla tua vita senza alcun preavviso. Intano il minibus è ripartito e, d’improvviso, la donna col gatto passa dalle questioni del suo felino alla sua tragedia privata; la donna nella fila davanti si commuove, mentre Maciek guida tra le rovine di un paese devastato. La sobrietà e il sottile umorismo della gente ucraina, rende i vari racconti intimi e toccanti, proprio per la loro discrezione. La gente si alterna, all’interno del mezzo di trasporto, e non c’è tempo di approfondire rapporti e relazioni e neppure di conoscere nel dettaglio le vicissitudini di ognuno. Sono rapide ed efficaci pennellate di vita, che il regista condivide con noi, immergendoci, seppur brevemente, nella realtà ucraina contemporanea.
E tutto questo sembra confermare che In the rearview sia qualcosa più attinente alla realtà che al cinema: ma, seppur molto credibile, quello di Hamela rimane puro cinema. La cartina tornasole che ci mette sulla strada giusta è l’altro esempio citato: Maciek sembra davvero avere i super-poteri, ma è “solo” un uomo di buona volontà. Tra l’altro, un supereroe sarebbe un comodo alibi, per lo spettatore comune. Diversamente, quello che fa il cineasta polacco è eccezionale, questo fuor di dubbio, ma ognuno, nel suo piccolo, può prenderne esempio, perché quello che l’uomo mette in campo lo fa ricorrendo a semplici doti umane, comuni, magari in quantità e qualità diverse, a ciascuno di noi. Ma, se Maciek non è quel super-eroe che sembra, allora anche In the rearview, più che vita reale è semplicemente cinema. Buon cinema, ottimo cinema, ma cinema. Il che non ce lo rende meno credibile, sia chiaro; al contrario. Un reportage giornalistico, per quanto onesto, è sempre di parte; anche il cinema, è ovvio. Ma il cinema è arte e l’arte può assurgere a verità, quando si esprime nella sua forma più alta. Come il cinema di Maciek. Il regista coglie la lezione di John Ford che, in Ombre rosse (1939), metteva un gruppo di personaggi nella diligenza, per spedirli nel selvaggio west, ma il fuoco dell’obiettivo era proprio sul mezzo di locomozione. Tanto è vero che, nell’originale americano, il film si intitola Stagecoach, diligenza, appunto.
I passeggeri della quale rappresentavano le varie anime del paese che si andava costruendo; quella di Ford era un’operazione simbolica, dal momento che gli Stati Uniti, nel 1939, erano già una potenza mondiale e, il film, serviva come spunto epico per celebrare appunto la nascita della nazione. Occorreva, in sostanza, fare un salto nel passato, ai tempi della conquista del west e il linguaggio del grande regista americano era quindi quello dei racconti alla “c’era una volta”. L’Ucraina è, oggi, in una situazione per certi versi simile a quella del selvaggio west, con un paese da costruire sulle macerie di un conflitto in parte anche intestino, tra russofoni e ucraini di lingua ucraina, e un’identità nazionale che si va fortificando, ma che non era completamente condivisa, almeno fino a prima dell’aggressione russa. Per questo ad Hamela non serve inventarsi una storia epica, qui non “c’era una volta” ma c’è adesso, in questo preciso istante. Per cui, in luogo di personaggi simbolici, si possono prendere direttamente le persone vere, ascoltare le loro fugaci parole, i loro pensieri, i loro ricordi, le loro paure, che sono molto più efficaci di qualsiasi racconto. Inoltre, Maciek utilizza sapientemente lo strumento del mezzo di trasporto che, per definizione, non è vincolato a nessun posto in particolare, rappresentando, in questo caso sì in modo simbolico e artificioso, lo sradicamento a cui sono sottoposti i cittadini ucraini evacuati. John Ford utilizzò in modo sublime la diligenza come mezzo per attraversare le insidie di un paese ancora ostile e pericoloso, un paese da unificare e costruire.
Maciek si serve del suo pulmino in modo simile: i passeggeri sono decontestualizzati dal panorama circostante: ci sono sì alcuni passaggi in cui li si vede mentre si preparano o caricano i bagagli, ma il film è interamente ambientato all’interno del minibus. La realtà che ci raccontano, ci arriva attraverso l’evocazione che sfrutta un ambiente a noi molto famigliare: l’interno di un’automobile, tra i più intimi della nostra quotidianità. Se la televisione è stata, per anni, il focolare domestico, l’auto è, tutto sommato ancora, una sorta di focolare itinerante, nella quale, tutti, prima o poi, abbiamo fatto o sentito qualche confessione intima e segreta di un amico o conoscente. Le persone di In the rearview non si conoscono, al contrario, ma la situazione eccezionale in cui si trovano, e il momento di estrema condivisione enfatizzato dall’esiguo spazio nella vettura, creano la magia di cui la responsabilità va attribuita a Hamela, che si rivela essere anche un bravo alchimista. Oltre che bravissimo regista: perché, a ciò, si aggiunge il citato panorama esterno, il contesto a cui i personaggi del film vengono strappati, sradicati dalla guerra e raccolti dal minibus di Maciek. Il regista utilizza questo sfondo, costantemente inquadrato dai finestrini del mezzo di locomozione, per mostrarci, quasi in sovraimpressione, la devastazione, la distruzione, il pericolo, a cui è sottoposta la popolazione ucraina.
Il contrasto tra la relativa intimità del minibus, con le chiacchere a volte dolcemente ironiche –come la storia di Bellezza, la mucca della signora raccolta all’inizio del film– a volte drammatiche –il marito di un’altra signora, morto facendo il soldato assaltatore– e le immagini che “scorrono” sui finestrini –ponti crollati, macchine bruciate, condomini distrutti– enfatizza le sensazioni dello spettatore. Il pulmino di Hamela è una lente di ingrandimento che passa sull’Ucraina devastata dalla guerra, isola e mette brevemente a fuoco qualche sporadico esempio che una didascalia finale ci informa essere preso su milioni di altri disperati, costretti a lasciare il proprio paese. Se sia possibile avere una speranza per la rinascita dell’Ucraina è difficile dirsi, soprattutto vedendo la distruzione seminata da questa guerra, che sembra davvero senza soluzione, e tutte queste persone che, per sentirsi al sicuro, sono costrette ad andare via dalla propria casa. Questo è un concetto tremendo, perché la propria abitazione, il luogo in cui si vive, dovrebbe essere il posto più confortevole. In questo senso, seppure l’opera cinematografica di Maciek Hamela sia davvero encomiabile e meritoria, non è che ci rinfranchi troppo. Perché, almeno in linea di principio, un film girato su un mezzo di trasporto che porta in salvo, ma lontano da casa, non è la cosa più ottimistica che ci possa essere, almeno concettualmente.
Non che sia colpa del regista, sia chiaro; in ogni caso, per il momento, è una cosa che ci dobbiamo far bastare.
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