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mercoledì 2 giugno 2021

L'ATTENTATO - SARAJEVO 1914 (a seguire QUANDO LA STORIA... )

826_L'ATTENTATO - SARAJEVO 1914 (Das Attentat - Sarajevo 1914). Austria, Germania, 2014; Regia di Andreas Prochaska. 

Un film su un fatto storico colpisce l’immaginario degli spettatori soprattutto per il racconto dell’episodio in questione, in particolar modo se questo é di grande portata. E ce ne sono pochi di paragonabili, nel corso dell’intera Storia dell’umanità, all’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria. L’attentato, avvenuto nel 1914 a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina, è considerato la scintilla che fece scoppiare la Prima Guerra Mondiale. E già questo è un carico mica da ridire; ufficialmente la responsabilità fu fatta ricadere su movimenti di matrice serba. Certo, lo stesso L’attentato – Sarajevo 1914, film austriaco per la televisione di Andreas Prochaska, lascia intendere che l’uccisione dell’erede al trono degli Asburgo sia stato un pretesto quasi auspicato dagli stessi ambienti di Vienna, che non vedevano di buon occhio le idee politiche dell’aspirante sovrano. Il protagonista del film, il magistrato Leo Pfeiffer (Florian Teichtmeister), è nominato a capo dell’inchiesta che dovrà far luce sull’attentato. Per la verità l’autore materiale dell’assassino è stato catturato, è Gavrilo Princip (Eugen Knecht) e con lui è stato arrestato il complice Nedeljko Čabrinović (Mateusz Dopieralski), ma sembrano poco più che ragazzini. E Pfeiffer è un giudice attento e scrupoloso e troppi pezzi del puzzle della ricostruzione già prontamente imbastita non combaciano: la questione serba era nota ma, allora, perché l’erede al trono si era così esposto? Perché si era reso pubblico il tragitto? Perché, una volta che Čabrinović aveva fallito il primo attentato, il corteo aveva riattraversato la città? 

E perché invece di una strada più scorrevole si era scelto la via dei vicoli, per di più sbagliando una svolta e arrivando a fermare l’auto con a bordo Francesco Ferdinando e consorte, proprio davanti a Princip? Ma a Vienna non interessano affatto tutti questi dettagli; certo, Pfeiffer, deve indagare, ma sbrigandosi, e deve piuttosto firmare il rapporto che riveli la mano serba dietro l’attentato dando il via libera alla reazione austriaca. Che è già pianificata: l’Austria ha in mente di scatenare una guerra per conquistare la Serbia senza dare il tempo alla Russia di intervenire in soccorso al paese slavo. Tira quindi una brutta aria per i serbo-bosniaci, a Sarajevo: i Jeftanovic presto dovranno lasciare la loro sontuosa residenza. Stojan Jeftanovic (Juraj Kukura) sostiene che il piano austriaco sia condiviso dalla Germania e l’obiettivo sia una ferrovia che unisca Berlino alla Turchia e, guarda caso, la Serbia è proprio sulla strada. Sua figlia Marija (Melika Foroutan) pur se preoccupata, trova il tempo per allietare le indagini di Pfeiffer, tingendo di rosa una trama che diversamente sarebbe rimasta davvero troppo plumbea. Ma, in ogni caso, in un film storico il destino è già scritto e sappiamo bene che le cose andranno come peggio non si potrebbe. Ma tutto questo è legato, con un certo grado di fedeltà, agli avvenimenti storici; il che è anche uno degli elementi di spicco del film. 


La ricostruzione, gli scenari, il vestiario, soprattutto pensando che si tratta di una produzione televisiva, alimentando una rappresentazione fortemente evocativa sono un altro fiore all’occhiello de L’attentato – Sarajevo 1914. Ma l’aspetto migliore del film è un altro; non è nei fatti narrati quindi, e nemmeno nella ricostruzione scenica. No, la cosa che sferza maggiormente lo spettatore sono gli sguardi. Pfeiffer, che si sente legittimamente austriaco in quanto cittadino dell’Impero, è ebreo. Ogni volta che passa accanto ad un militare austriaco, si distingue chiaramente lo sguardo di questi che lo osserva, non a lungo, solo un’occhiata o poco più, ma implacabile. Pfeiffer interroga gli attentatori; il poliziotto austriaco distoglie lo sguardo dall’irredentista sotto torchio e lo posa sul magistrato. 

Lo soppesa per un po’. Solo poi torna a guardare se l’attentatore dà segni di cedimenti o meglio decida di rivelare i mandanti serbi. Pfeiffer arriva alla stazione di polizia, il piantone lo segue con lo sguardo; Pfeiffer passa vicino ad una sentinella, questa gli getta una rapida occhiata e, anche se la ripresa è in campo lungo, si fa comunque in tempo a notare. Sempre. In modo ossessivo; uno sguardo dall’alto verso il basso, essendo i soldati austriaci tutti marcantoni e il magistrato di statura media. In ogni caso è impossibile non avvertire l’onnipresente malcelato disprezzo che segue Pfeiffer, in ogni suo spostamento. Uno sguardo che sembra quasi rivelare un malvagio rammarico premonitore: ora è il turno degli slavi, ma ci sarà il tempo anche per gli ebrei. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
LA GERMANIA E LE ORIGINI DELLA GRANDE GUERRA








Melika Foroutan



Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

LA GERMANIA E LE ORIGINI DELLA GRANDE GUERRA

Mentre a Berlino Philipp Scheidemann dal Reichstag proclamava, a mezzogiorno del 9 novembre 1918, la nascita della repubblica tedesca, il Kaiser Guglielmo II a Spa, dopo aver invano tentato di assicurarsi per l’ultima volta la fedeltà dei suoi ufficiali, si dirigeva in esilio: gli Hoenzollern cessavano così di esistere come casa regnante del Brandeburgo-Prussia e con loro crollava il secondo Reich, quella costruzione tanto recente, ma che aveva radici storiche lontane che datavano all’epoca in cui la piccola Prussia si era affacciata al panorama della grande politica europea. Solo poche ore più tardi, l’imperatore austro-ungarico Carlo rinunciò al trono, pur rifiutandosi di abdicare formalmente, con un gesto di dignità della quale quel carattere pur così docile non era certo privo; anche lui andrà in esilio qualche mese più tardi, in Svizzera, non lontano dalle rovine del castello di Habitchsburg, sulle rive dell’Aar, proprio il posto dal quale i suoi antenati più di 600 anni prima erano partiti per andare a regnare sull’Austria prima, e sull’Europa poi.
La scomparsa delle storiche dinastie regnanti d’Asburgo, Hoenzollern e Romanov non era la sola conseguenza della guerra: 9,3 milioni di soldati erano morti durante la Grande Guerra, 12 milioni i civili che persero la vita a causa della stessa; la Russia non esisteva più, sostituita da una Federazione Sovietica che incarnava la realizzazione di tutti i peggiori incubi delle classi superiori europee del fin du siécle; l’impero ottomano a sua volta era stato sradicato con la violenza senza che si fosse pensato a come sostituirlo e gli effetti tragici di questa leggerezza li sperimentiamo, oggi, sulla nostra stessa pelle; l’Europa dell’Ottocento, l’Europa di Van Gogh e di Nietzsche, l’Europa romantica e impressionista, l’Europa che dominava il mondo e che vedeva in sé stessa, nei decenni precedenti la guerra, il culmine della civiltà occidentale assieme all’epoca classica, quell’Europa non esisteva più. Annegata nel fango delle trincee, l’Europa sarà d’ora innanzi solo capace di generare mostri come Auschwitz o i gulag siberiani; e tutto questo era percepito dai contemporanei, e lo è ancora da noi, come una conseguenza della Grande Guerra. Perfettamente logico, quindi, che le conseguenze estreme, drammatiche del conflitto abbiano aperto una discussione infinita sulle cause dello stesso: si ha la percezione che, chiunque ne sia stato il responsabile, l’abbia fatta davvero grossa.

Se dovessimo fare una classifica degli argomenti storici più controversi e dibattuti, certamente la discussione sulle cause della prima guerra mondiale salirebbe di diritto sul podio, assieme a pochi altri “pezzi da novanta” come i motivi della caduta dell’impero romano, o le differenti valutazioni del periodo giacobino della Rivoluzione francese. La cosa non ci deve sorprendere affatto, per i motivi di cui sopra. Ma c’è un altro aspetto che una discussione simile comporta, ossia le differenti filosofie della storia che essa coinvolge: la guerra fu, secondo la prospettiva leninista, un inevitabile portato del sistema, la fase suprema del capitalismo, oppure fu una tragedia occasionata dalle decisioni personali di un gruppo di persone, persone con nomi e cognomi, che nell’estate del 1914 valutarono il conflitto come il minore dei mali? Come al solito, l’estremismo non è un buon consigliere e probabilmente c’è del vero in entrambe queste due letture: il sistema sociale, economico e politico europeo rendeva la guerra una possibilità, una possibilità persino auspicata da parte di alcune potenze; ma questo era vero nel 1914, come poteva esserlo nel 1905, nel 1911 o durante le guerre balcaniche a maggior ragione, eppure il conflitto era stato sempre evitato in occasione di quelle crisi. 

Nel 1914 invece la spinta decisionale di un gruppo di individui, alcuni dei quali insospettabili, fece propendere la bilancia dalla parte della guerra; non c’è lo spazio nell’ambito di questo articolo per un’analisi articolata che dovrebbe comprendere uno studio della politica balcanica della Russia e il suo sogno costantinopolitano, così come l’ipotesi di una “triarchia” Austro-Ungaro-Slava propugnata a Vienna da Francesco Ferdinando, entrambi aspetti questi che mettevano i due imperi centro-orientali in rotta di collisione; non abbiamo lo spazio per accennare al fatto che molti dei più convinti bellicisti, come il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hotzendorf, propugnavano la guerra anche per motivi strettamente personali, intimi persino; nel suo caso infatti, entrava in gioco la speranza di diventare un eroe di guerra, che gli avrebbe permesso di ufficializzare il suo scandaloso rapporto  con l’aristocratica italiana Virginia von Reininghaus, sposata con un altro uomo. Infine, bisognerebbe analizzare anche l’influenza delle masse su questa decisione, in particolare delle masse cittadine delle grandi capitali europee le quali reagirono, come si sa, non con spavento di fronte alla minaccia della guerra, ma con entusiasmo. Lo spirito del 1914 coinvolgerà anche molti intellettuali non certo addentro alle cose della politica: Freud ricorderà come in quei giorni, “la mia libido era rivolta tutta all’Austria-Ungheria”. Molti anni dopo, da parte di persone che soffrirono lutti e disgrazie durante la guerra, quei gironi di luglio-agosto 1914 verranno ricordati come i più intensi e spiritualmente profondi della loro vita.

Un quadro quantomai complesso, quindi, nel quale noi ci limiteremo ad analizzare il ruolo della Germania, alla quale il trattato di Versailles conferì ufficialmente la responsabilità della guerra in un articolo così pesante che causò il quasi immediato pentimento dei suoi stessi autori. Oggi il focus sulle decisioni tedesche è quasi totale, a causa delle conseguenze che la guerra ebbe sulla Germania, in particolare l’ascesa di Hitler; così però dimentichiamo appunto temi quali il conflitto balcanico austro-russo, temi che a noi possono non dire più niente, ma che erano molto sentiti dai contemporanei. La Germania, in ogni caso, era la prima potenza europea del tempo e qualsiasi mossa in direzione della pace o della guerra sul continente passava attraverso Berlino. La situazione strategica del Secondo Reich era cambiata, in peggio, con la salita al trono del giovane Kaiser Guglielmo II; l’asse sulla quale si reggeva la politica bismarckiana, ossia l’alleanza con Vienna e San Pietroburgo, in una sorta di “internazionale conservatrice” che garantiva reciproco supporto in caso di sommosse sociali interne o pericoli esterni, si era spezzata: le continue crisi balcaniche, che avevano portato Russia e Austria allo scontro diplomatico, misero la Germania nella difficile posizione di dover scegliere tra i due alleati; essendo impensabile rompere il legame con l’Austria, fu rotto quello con la Russia, con gravi conseguenze. La Russia si legò alla Francia, chiudendo così il Reich in un abbraccio soffocante a Est e a Ovest. Il nuovo alleato, l’Italia, non garantiva gli stessi benefici strategici della Russia, anche se gli accordi commerciali tra i capitalisti dei due paesi contribuirono notevolmente alla crescita economica di entrambe le nazioni. Tuttavia c’era la questione dei territori cosiddetti irredenti , cioè le regioni che l’Italia reclamava dall’Austria (Trento, Trieste) a minare la stabilità della Triplice Alleanza; il tentativo, che pure fu fatto, di convogliare il nazionalismo italiano in funzione anti-francese (Nizza, Savoia, la Corsica) non ebbe risultati apprezzabili.

Venne a determinarsi una situazione da guerra fredda con due blocchi contrapposti tra di loro; certo, a differenza della guerra fredda USA e URSS non c’era opposizione ideologica tra i due blocchi; in realtà non c’era neanche una reale inimicizia: il tempo stava persino mitigando le ferite della Francia a seguito della guerra del 1870. Purtuttavia, la presenza di un impero tedesco in continua ascesa in un’area, quella dell’Europa centrale, che per secoli era stata poco più di un campo di battaglia tra Austria e Francia, era sufficiente a creare un elemento perturbatore dell’ordine europeo. Le psicosi reciproche si alimentavano facilmente: la Francia, in crisi demografica e economica rispetto alla Germania, si tutelava questo continuo declino che la poneva in posizione subordinata rispetto al potente vicino cercando alleati in Russia e Inghilterra, cosa che contribuiva ad aumentare il senso di accerchiamento tedesco; le riforme dell’esercito russo, necessarie dopo la sconfitta col Giappone e le rivolte del 1905, venivano a loro volta viste da Berlino come una mossa antitedesca, anche perché si calcolava che, nel giro di un decennio, la Russia sarebbe stata in grado di armare un numero di soldati considerevolmente superiore a quello del Reich. E purtuttavia, malgrado tutte queste tensioni, la guerra veniva vista come extrema ratio , come risposta eventuale ad una aggressione che poteva sì accadere, ma che le armi della diplomazia avrebbe dovuto evitare. Ci sono segnali che, a Berlino, la guerra non era pensata come probabile prima del 1914: nel 1912 l’esercito prussiano rifiutò di aumentare il suo numero di tre corpi d’armata (più di 800,000 uomini) per timore che la “coesione sociale” del corpo ufficiali ne avrebbe sofferto; nell’estate del 1914, le scorte di munizioni erano ben sotto i livelli richiesti, spesso anche inferiori al 50%; più importante ancora, se c’erano piani strategici militari a bizzeffe (come in tutti gli altri stati europei) mancavano totalmente degli obiettivi per una ipotetica guerra: cosa si sarebbe chiesto in caso di vittoria? E a chi? Domande che trovarono risposte solo a guerra iniziata, perché prima nessuno pensava davvero che una guerra fosse lì lì per iniziare.

In Germania come in altri paesi, prima del 1914 erano i militari, non i politici, a insistere sull’opportunità di una guerra preventiva, da combattersi prima che la Russia fosse stata forte abbastanza da essere in pratica imbattibile. Helmuth von Moltke jr. , il capo di stato maggiore tedesco, condivideva con il suo collega viennese Conrad, il carattere ansioso e la propensione a scendere in guerra prima che fosse troppo tardi. Le analogie finiscono però lì: a differenza dell’ateo, materialista e libertino Conrad, von Moltke era profondamente religioso e riteneva imminente la Seconda Venuta di Cristo. Egli vedeva il suo ruolo come una missione nell’imminente “conflitto tra Germani e Slavi”; la responsabilità del comando pesava molto su di lui e lo condurrà a varie crisi di nervi durante la battaglia delle frontiere e infine, alla morte. La sua paura della Russia e la sua ostilità verso la Serbia che egli vedeva (non del tutto a torto) come un agente russo nei Balcani, ripetute mille e mille volte nelle riunioni nel Reichstag, finirono con influenzare i membri del gabinetto tedesco; questi ultimi, non erano della razza dei Bismarck. Fautori di teorie come il pangermanesimo e il darwinismo sociale, in realtà erano schiacciati dalla personalità dei militari e incapaci di farsi ascoltare dal Kaiser con la stessa persuasione di cui era capace Moltke. Il cancelliere Bethmann-Hollweg finì per convincersi che, sì, forse Moltke aveva ragione e che dopotutto era più facile mettersi dalla parte degli influenti militari prussiani che non contro di loro; all’indomani di Sarajevo la sua decisione, fatale, di concedere carta bianca agli austriaci per una guerra contro la Serbia, faceva parte di una strategia diplomatica di rischio calcolato: non voleva la guerra come prima opzione, ma la contemplava come possibilità in caso che fosse sfuggita la vittoria diplomatica. Bethmann-Hollweg contava, appoggiando l’Austria contro la Serbia, di isolare il conflitto alla sola Europa orientale dal momento che, egli credeva, la Francia e l’Inghilterra non sarebbero scese in campo per difendere il turbolento regno serbo e/o gli interessi russi nei Balcani; senza i suoi alleati, la Russia avrebbe fatto marcia indietro, la Serbia sarebbe stata alla mercé degli austriaci e la Germania avrebbe spezzato l’asse anglo-franco-russo: una grande vittoria diplomatica, insomma. 

Certo, c’era anche l’eventualità che invece Francia e Gran Bretagna appoggiassero la Russia per davvero: allora sarebbe stata la guerra, che avrebbe portato all’espansione dell’egemonia tedesca con altri mezzi, mezzi violenti, appunto. D’altra parte se c’era un momento ideale per correre un simile rischio era proprio quello: non lo dicevano forse anche Moltke e i militari? La strategia del cancelliere non era assurda, ma si scontrò non tanto contro quella russa o serba: ma contro quella di Moltke. Infatti il piano militare in caso di guerra con l’Intesa prevedeva l’attacco alla potenza più debole, la Francia (causando così l’estensione del conflitto a occidente), passando attraverso il Belgio (cosa che avrebbe significato l’automatico intervento inglese): la localizzazione del conflitto nei Balcani si rivelò impossibile a causa della strategia militare dello stato maggiore tedesco; la corona d’alloro della vittoria diplomatica, che Bethmann-Hollweg già vedeva sulla sua fronte, gli fu sottratta da Moltke. In poche ore l’intero continente era in guerra. Per quanto riguarda la Germania, il maggior peso dei militari, la classe che aveva costruito l’impero tedesco, rispetto ai politici fu la causa dell’allargamento del conflitto e del precipitare degli eventi. Moltke e i militari fecero pressioni insostenibili sul Kaiser e i sui dirigenti politici insistendo sul fatto che un secondo in più concesso ai russi avrebbe significato la catastrofe; questo velocizzò il processo di mobilitazione e l’attuazione del piano Schlieffen (invasione della Francia attraverso il Belgio) mentre i progetti diplomatici dei dirigenti politici furono presi in contropiede e accumularono un ritardo fatale rispetto agli avvenimenti.
Bisognerà aspettare il 1945 prima che questo ritardo torni a essere colmato. 

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