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domenica 20 giugno 2021

IL MIO NOME E' NESSUNO

836_IL MIO NOME E' NESSUNO Italia, Francia, Germania Ovest; 1973; Regia di Tonino Valerii.

La prima didascalia dei titoli di testa mette subito le cose in chiaro: Sergio Leone presenta. Il mio nome è nessuno è un film di Tonino Valerii, ma quella prima dichiarazione d’intenti, e anche qualche voce di corridoio che indica l’inventore dello spaghetti western come regista di alcune scene, lasciano intendere che lo stesso Sergio Leone voglia dire una sua ultima parola sul genere. Si tratta, infatti, come per la verità per altri western all’italiana, di un’operazione metalinguistica, una riflessione sul cinema, ovviamente con l’attenzione posta sul genere dei cowboys. Già il titolo è emblematico: Il mio nome è Nessuno, oltre a riprendere idealmente il personaggio del cowboy senza nome della trilogia del dollaro, sembra il capitolo finale si una saga dedicata ai nomi dei personaggi interpretati da Terence Hill. Lo chiamavano Trinità, …continuavano a chiamarlo Trinità, …e poi lo chiamarono il Magnifico, tutti film in cui Terence Hill interpreta più o meno sempre lo stesso scanzonato personaggio, una versione burlesca del Clint Eastwood della trilogia leoniana. In Il mio nome è Nessuno a contendergli la scena c’è Henry Fonda, un attore rimasto leggendario per alcuni suoi western classici (basti citare Sfida infernale di John Ford) ma con un importante ruolo in C’era una volta il west di Sergio Leone. Nel film Fonda interpreta Jack Beauregard, il classico pistolero tutto d’un pezzo, che metaforicamente rappresenta il cinema western classico; al suo cospetto, Nessuno, a parte l’umiltà del nome che porta, si rivela più moderno, più simpatico, e anche più svelto. E naturalmente, nella citata metafora, il ruolo di Nessuno è quello dello stesso spaghetti-western, che quindi vuol semplicemente, con un approccio umile (Nessuno), aggiornare il mito western per renderlo appetibile agli anni settanta. 

Questo adeguamento ai tempi, negli intenti di Leone e Valerii, è una semplice operazione di puro svago, divertimento, e questo è rimarcato dall’indole giocosa di Nessuno oltre che alle esplicite parole di Beauregard. Leone lascia che Terence Hill, che per tutti è Trinità, il personaggio che lo ha reso celebre, parli anche a nome suo, del suo western, che non aveva una così esplicita vena comico/farsesca: nel duello finale, Nessuno indossa uno spolverino che ricorda l’abbigliamento alla Clint Eastwood, salvo poi levarselo e rivelare la classica maglia sdrucita di Trinità. Questo tipo di citazioni abbonda nel film, che sostanzialmente si regge proprio su questi continui e disparati rimandi cinefili: western di casa nostra nella storia degli spari nei cappelli (Per qualche dollaro in più) o per la scena iniziale (Il buono, il brutto e il cattivo), ma perfino Charlot ne Il circo, ripreso da Nessuno che mangia di soppiatto la mela al bambino nel luna park. Ci sono poi i soliti riferimenti alla tipica degenerazione del western all’italiana che, con il suo insistere sul tema scatologico, sembra sempre voler ribadire che siamo ormai alla fine del ciclo vitale del cinema che ha raccontato la conquista dell’ovest americano. 


Ma il colpo più basso Leone lo rifila, o meglio, cerca di rifilarlo, a Sam Peckinpah, reo, pare, di aver sdegnosamente rifiutato di collaborare con il regista romano per quello che sarebbe divenuto Giù la testa. Peckinpah viene mostrato al cimitero, sotto una lapide: come dire, il western crepuscolare, diversa evoluzione rispetto a quella italiana del genere, è morto e sepolto. Inoltre, Il mucchio selvaggio, titolo sia dei nemici di Beauregard che del capolavoro dell’autore californiano, è una presenza ossessiva, ma piuttosto ottusa, nel film, e il gruppo di 150 cavalieri viene falcidiato, in modo talmente facile da essere privo di senso, dal personaggio interpretato da Fonda, prima che questi si possa mettere in salvo aiutato da Nessuno. L’ottusità del western crepuscolare si scaglia senza costrutto contro il western classico, che si salva, pur se in condizioni di inferiorità (i tempi cambiati sono la difficoltà rappresentata dall’enorme differenza numerica nel film, uno contro 150) grazie all’intervento del western all’italiana.
Può far sorridere, ma si tratta di una metafora davvero troppo esplicita per poter evitare di notarla. E nemmeno si può negare che la critica al cinema di un maestro come Peckinpah, se pur fatta dal bravo Sergio Leone, allo stesso modo può strapparci non più di una risata.
Come del resto questo suo film.



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