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venerdì 25 aprile 2025

L'UOMO LEOPARDO

1658_L'UOMO LEOPARDO (The Leopard Man). Stati Uniti, 1943. Regia di Jacques Tourneur

Grazie al successo de Il bacio della pantera [Cat People, Jacques Tourneur, 1942], il produttore Val Lewton si vide forse allentare un po’ il guinzaglio dalla RKO, ottenendo maggiore autonomia. Naturalmente le tre regole che gli aveva imposto lo Studio –budget sotto i 150.000 dollari, durata inferiore ai 75 minuti e titoli dei film decisi preventivamente dalla società– andavano comunque rispettate. Inoltre, Lewton, che fu uno dei pochi Produttori cinematografici ad avere una sorta di pretesa autoriale, non si affidava, in ottica di veder rispettato la propria idea di cinema, a malleabili registi di second’ordine. Pur riuscendo ad imprimere, grazie ad una minuziosa supervisione che lo vedeva metter mano alle sceneggiature anche quando non venne poi accreditato, la sua personale visione delle cose, si avvalse di registi che, nel tempo, dimostrarono poi il proprio valore. Se Tourneur, quando diresse Il bacio della pantera, aveva un minimo di carriera alle spalle, Mark Robson e Robert Wise, poi cineasti di valore assoluto, furono fatti esordire dietro la macchina da presa proprio da Lewton. In quel 1943 l’unità della RKO che realizzava horror a basso costo, capeggiata dal produttore di origine russa, si poteva permettere di realizzare ancora un solo film alla volta e Tourneur, dopo Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie [I walked with a zombie, Jacques Tourneur, 1943] poté dedicarsi anche a L’uomo leopardo. Nonostante tutte queste premesse, anche ne L’uomo leopardo, è riconoscibile, più di ogni altra caratteristica, la cifra distintiva del cinema di Val Lewton. Come detto, i titoli erano scelti dallo studio a priori ed era compito poi di Lewton e dei suoi collaboratori imbastire qualcosa che fosse comunque plausibile. Il fascino felino che Il bacio della pantera aveva lasciato ancora aleggiante nell’aria spinse i capoccia della RKO ad inventarsi un improbabile «uomo leopardo» che Lewton e Tourneur sconfessarono poi sostanzialmente sullo schermo. Va comunque messo a referto che allo studio della torre radio, passato giusto qualche anno, riuscirono a proporre un doppio spettacolo di repliche che preannunciava due creature bestiali: King Kong [King Kong, Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933] e, appunto, L’uomo leopardo

Tornando alla realizzazione di quest’ultimo, per assecondare inizialmente l’idea dello studio, e per giustificare almeno in parte un simile titolo, si pensò di coinvolgere ancora Dynamite, il leopardo nero che già era stato portato sullo schermo ne Il bacio della pantera. Il pretesto, per la verità, è un po’ debole: Jerry Manning (Dennis O’Keefe), l’agente di Kiki Walker (Jean Brooks), una ballerina da night club, affitta un leopardo per enfatizzare l’entrata in scena della sua stellina. Uno stratagemma sensazionalistico, è evidente, ma c’è da contrastare il successo di Clo-Clo (Margo): siamo in un’imprecisata cittadina del New Mexico, e la ballerina di flamenco sta rubando la scena a KiKi, grazie al suo charme latinoamericano più in sintonia con l’ambiente. Non è un paese per bionde, il New Mexico, costata amaramente Eloise (Ariel Heath) la platinata ragazza delle sigarette; e allora tanto vale provarci con un bel gattone per sparigliare le carte. Nonostante L’uomo leopardo sia passato alla storia del cinema come uno degli archetipi dello slasher –genere horror basato sulle gesta di un maniaco omicida che furoreggerà una trentina d’anni dopo– non tutte le donne del film, seppur siano le vittime preferite di questi criminali, sono creature docili e indifese. In effetti, quando si ha a che fare con autori del calibro di Tourneur o Lewton, si scoprono significati sorprendenti in contesti impensabili. 

Come, nel caso specifico, con l’uomo più colto e istruito che si rivela ben più pericoloso di una belva feroce. Perché il buon Dynamite, il leopardo che è apparentemente al centro dell’attenzione del film, se la squaglia quasi subito, ovvero non appena Clo-Clo lo affronta sfoderando i suoi, di artigli, metaforicamente parlando. Come previsto da Jerry, Kiki aveva fatto il suo ingresso in scena, gattone al guinzaglio, con il preciso scopo di rompere le uova nel paniere a Clo-Clo, che stava ammaliando il pubblico al ritmo di nacchere e movimenti sinuosi. All’arrivo del leopardo la ballerina di flamenco non si scompone: non sarebbe stato certo quel micione troppo cresciuto a mettere in discussione il suo successo e lo mette subito in chiaro con un duro faccia a faccia col l’animale. Detto, fatto: il leopardo, al cospetto di una simile tigre, taglia la corda e si dilegua prima che qualcuno possa bloccarlo. L’idea di Lewton e Tourneur, almeno per imbastire il proprio racconto, è quindi avere un leopardo libero di scorrazzare per il piccolo villaggio, mettendo a rischio l’incolumità degli abitanti. Certo, l’animale è addestrato ma, una volta solo e affamato, potrebbe diventare davvero pericoloso. Una situazione simile è l’ideale per questi horror targati RKO degli anni 40 che aggiornarono il genere dopo il decennio di marca Universal: atmosfere cupe, ombre che nascondono insidie, una paura strisciante che pervade tutta quanta la storia. Da un punto di vista narrativo, anche il soggetto, ispirato al romanzo Black Alibi di Cornell Woorlich, non offre una sponda sicura, ma continua a cambiare punto focale. L’obiettivo della macchina da presa di Tourneur è sempre una ragazza, ora Kiki, ora Clo-Clo, ora Terésa (Margaret Landy), ora Consuelo (Tuulikki Paananen) e, di volta in volta, il racconto indugia su di loro, al punto che ognuna sembra poter divenire la protagonista della nostra storia. Ma si tratta di false piste. Come è, del resto, una falsa pista anche il titolo: non c’è, infatti, nessun «uomo leopardo» del tipo che sarebbe facile immaginare –seppure ci sia un cameriere che rimane graffiato dal felino, quasi a lasciar intendere una possibile «infezione» di stampo fantastico– e perfino il leopardo stesso è un indizio fuorviante. Ma il tema della falsa pista è davvero costruito a più livelli: perché, in realtà, sebbene non venga mai citato espressamente, un uomo leopardo c’è: è Charlie (Abner Biberman), il proprietario del felino, che reca questo altisonante nome d’arte –The Leopard Man– sul carrozzone da artista ambulante. 

È quindi lui il killer seriale, l’«uomo leopardo» a cui si riferisce il film? Sembra impossibile, vedendo il tipo; eppure… Ma, come detto, siamo in mezzo ad un dedalo di false piste: il vero colpevole, quello davvero colpevole perché si macchierà di delitti «bestiali», talmente brutali da essere attribuiti ad una belva, sarà l’uomo più acculturato del lotto. E qui torniamo alla riflessione sui risvolti imprevedibili del cinema di Lewton di cui si accennava poco sopra: una giovane ragazza può tener testa a un leopardo, ma nulla può contro l’animale più feroce della terra, l’uomo civilizzato. La trama prevede che, con il felino in libertà, una serie di efferati omicidi mietano vittime tra la popolazione femminile del pueblo. Subito si pensa alla belva: Terésa, Consuelo, Clo-Clo sarebbero quindi state uccise dal leopardo. Oppure no? Se Terésa, protagonista suo malgrado di una delle più terrificanti sequenze della storia del cinema dell’orrore, sembra davvero finita sotto gli artigli dell’animale, a Jerry, che si sente giustamente responsabile di questa situazione, qualche dubbio sorge nel merito dei successivi omicidi: perché la belva non si è cibata delle carni delle sue vittime? Neppure il professor Galbrath (James Bell), esperto di zoologia, ha una spiegazione plausibile e si dice comunque scettico sull’ipotesi di Jerry, che pensa possa esserci un uomo dietro gli omicidi. Galbrath non prende troppo sul serio questa teoria e, provocatoriamente, cerca di incolpare il mite Charlie, il proprietario del leopardo. Il domatore, la sera, è solito recarsi alla cantina a farsi un goccio, e Galbrath, che ne conosce la propensione ad alzare il gomito, ipotizza che potrebbe aver agito sotto l’influsso dell’alcool, dimenticandosi di quanto fatto una volta passata la sbronza. Il professore è talmente persuasivo, seppur con un fare tra il sornione e il divertito, che Charlie si autoconvince di essere il colpevole e si costituisce alla polizia. Quello della colpa è il tema de L’uomo leopardo, un argomento talmente strisciante che finisce per coinvolgere anche chi non dovrebbe, come appunto Charlie; ma, forse, il tema è proprio quello della colpa indiretta, di una colpa non specifica. Perché, a ben vedere, Charlie, seppure sia ovviamente innocente dei delitti in modo diretto, è comunque in qualche modo corresponsabile del fatto che una belva feroce sia stata portata fin lì dall’Africa e abbia poi ucciso la povera Terésa; e volendo, degli sviluppi successivi della storia che ne sono in qualche modo la conseguenza. Il leopardo, per quanto sia quindi il «colpevole» del primo omicidio, è ampiamente giustificato dalla propria natura e dalle circostanze; ma è l’unico ad avere serie e credibili attenuanti, oltre a pagare con la vita, saldando con ampio margine ben più dei suoi debiti, qualora ci fosse chi volesse chiedergliene conto. Il killer seriale, in ogni caso, non è Charlie ma è, come mezzo anticipato, Galbrath, l’uomo di cultura della vicenda; certamente una soluzione a sorpresa, soprattutto se si pensa che il film è del 1943. Ma i motivi che portano lo studioso a compiere i delitti sono solo abbozzati; L’uomo leopardo è comunque un film antesignano di questi temi, tuttavia più di dieci anni prima nel capolavoro di Fritz Lang M – Il mostro di Düsseldorf [M – Il mostro di Düsseldorf (M), Fritz Lang, 1931] il personaggio di Peter Lorre aveva dato ben altro spessore ai turbamenti interiori del maniaco. Forse il punto nevralgico è che a Lewton e Tourneur non interessa la figura deviata, malata, ma il contesto che facilita poi la fuoriuscita del Male dall’individuo. 

Il Male primordiale e belluino è sì già dentro l’uomo, perfino dentro all’uomo più emancipato ed istruito; ma sono le condizioni a portarlo alla luce. Condizioni che, negli Stati Uniti, e nel mondo occidentale in generale, si stavano evidentemente creando o quantomeno incrementando. Dal terrore evidente e diffuso, con il mondo sull’orlo di una guerra mondiale quando ancora non si era spento il ricordo della precedente –che il cinema aveva manifestato con l’espressionismo tedesco e i film horror Universal– si passava ad una situazione diversa. La Seconda Guerra Mondiale era alfine scoppiata e, dopo l’ormai proverbiale reticenza, anche gli Stati Uniti ne erano rimasti coinvolti. D’acchito, trovare i colpevoli di averla scatenata era oltremodo semplice: Adolf Hitler, i nazisti e i loro alleati italiani e giapponesi. Ma, ad uno sguardo un po’ più approfondito, qualcosa non tornava. E la domanda delle domande finiva per essere sempre sostanzialmente una: era stato fatto davvero tutto per evitare il ripetersi di una simile catastrofe? La colpa diretta era una questione semplice da archiviare; più difficile trovare qualcuno che si azzardasse a fornire una risposta al secondo quesito, vuoi per la generale diffusione delle responsabilità, vuoi per la scomodità di doverle ammettere. Era un tasto scomodo, e questo tipo di responsabilità rimase aleggiante, senza che nessuno se ne facesse carico. Forse è anche per questo ne L’uomo leopardo e, nel complesso, nei film prodotti da Lewton per la RKO, la sensazione di colpevolezza indiretta è così diffusa. Nel film di Tourneur, il tema della colpa del serial killer non è molto approfondito; quasi per contraltare, ci sono accenni, per quanto lievi ma sono comunque numerosi, alle colpevolezze minori degli altri personaggi. Ad esempio il tormento di Jerry e Kiki che, pur di conquistare la ribalta dello spettacolo, si erano presi un rischio enorme senza calcolarne adeguatamente le conseguenze. Fanno gara a chi è più cinico, in prima istanza, ma in realtà il rimorso li rode eccome. E che dire ancora di Charlie, che affida la sua belva ad un bellimbusto per niente pratico di animali, soltanto per il compenso? E poi c’è la madre di Terèsa, che la lascia fuori dalla porta, mentre sua figlia, terrorizzata, sta per essere aggredita dal felino, nella tremenda scena citata. E ancora il fidanzato di Consuelo, che se ne va, probabilmente in anticipo, incurante di quello che potrebbe accadere alla ragazza. Ma può forse passarla totalmente liscia, almeno da un punto di vista morale, il custode del cimitero?  D’accordo, l’uomo avverte la giovane dell’orario da rispettare ma, detto questo, fa ben poco per evitarle eventuali seccature. In questo caso, le seccature sono ben più gravi di quanto prevedibile, e questo non è certo colpa del custode, ma anche rimanere chiusi in un campo santo la notte non è un’esperienza esattamente simpatica eppure l’uomo bada unicamente ai fatti suoi. Insomma, tutto quanto il film è permeato di questo senso di colpa indiretta, sul quale il capo della polizia (Ben Bard) si esprime direttamente, prima minimizzandolo ma poi sottolineandolo in modo sibillino. E perfino nel battibecco iniziale tra Kiki e Eloise, il problema tra le due ragazze sembra essere il successo della prima, quasi fosse una colpa, a dispetto delle ambizioni frustrate della seconda. Se presi in chiave sociale o addirittura geopolitica, gli horror Universal mettevano in guardia dal grande pericolo che incombeva sul mondo. Il cinema di Val Lewton è, in un certo senso, più costruttivo e ci pone un’angosciosa domanda. Si era certi di aver fatto –chiunque, in prima persona– tutto il possibile per scongiurare questo pericolo?








2 commenti:

  1. Uhm, un film complesso... E che almeno non mostra Donne sempre immancabilmente fragili e indifese...

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  2. Beh, non direi complesso. In sé si vede come un tipico horror da intrattenimento. I sottotemi ci sono, è evidente, ma non disturbano la fruizione leggera, quella in cui ci si gode il racconto.

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