749_L'ISOLA NEL SOLE (Island in the Sun). Stati Uniti; 1957. Regia di Robert Rossen.
In genere considerato come uno dei passaggi a vuoto
del quotato Robert Rossen, L’isola nel sole è, in effetti, un film che
non coglie, se non minimamente, le proprie potenzialità. Nonostante un cast
stellare, (James Mason, Joan Fontaine, Dorothy Dandridge, Joan Collins, Harry
Belafonte) una location esotica (Santa Marta, presunta isola caraibica), un
canovaccio con una miriade di spunti buoni per incendiare il classico drammone
del periodo, Rossen non riesce ad andare oltre ad un’onesta messa in scena. Per
la verità qualcuno degli interpreti cerca di nobilitare il risultato ma,
purtroppo, anche l’operato del cast non è omogeneo e viene meno proprio in uno
dei suoi cardini previsti. A deludere maggiormente è infatti Harry Belafonte: nel
film è David Boyeur, nativo dell’isola che rivendica la libertà per il suo
popolo, ma si rivela un personaggio stereotipato a cui il glorioso cantante
americano non riesce a dare il carisma necessario per interpretare la
parte del leader dei diritti civili. Il paragone con Maxell Fleury, evocato
anche dal confronto diretto durante un comizio politico, sebbene siano lampanti
le ragioni di Boyeur, è cinematograficamente impietoso. James Mason, chiamato
ad interpretare Fleury, un proprietario di una piantagione presso la quale
lavorano decine di persone del posto, sfodera una prestazione attoriale degna
delle sue capacità che, sebbene appaia di altro tenore rispetto a quella di
Belafonte, non viene però valorizzata dalla mancanza di una sponda adeguata.
D’altra parte anche Patricia Owens, che è Sylvia, la moglie di Fleury, è troppo
anonima e allora Mason ha le sue uniche occasioni con Michael Rennie (è Carson)
o con il caratterista John William (è il colonnello Wittingham), che hanno però
ruolo solo nella traccia gialla che, ad un certo punto, subentra nella storia. Nei
drammoni hollywoodiani degli anni cinquanta l’elemento delittuoso poteva anche
capitare, visto le forti tensioni emotive, ma in questo caso l’operazione non
viene gestita a dovere da Rossen: forse aiuta il regista a dare un po’ di ritmo
al suo racconto ma è una deviazione che, vista la tanta carne al fuoco, sembra
del tutto superflua. Ma a patire maggiormente della prestazione scialba di
Belafonte, a cui non basta nemmeno uno breve spazio canoro per risollevare il
suo contributo, è Joan Fontaine che interpreta Mavis, una donna non più
giovanissima che se ne innamora.
Il contrasto tra una star dalla bellezza
delicata e nobile come quello della Fontaine, la cui recitazione sospesa
amplificava queste sue caratteristiche, e un interprete poco espressivo come
Belafonte non funziona granché anche se, volendo, può sottolineare come non
fosse possibile un’intesa nemmeno tra i loro personaggi. Ma è una consolazione
da poco. Alla fine, visto i problemi riscontrati dal bravo Mason (che deve
vedersela anche con Delitto e Castigo, il libro di Dostoevskij;
francamente, in aggiunta al confronto razziale, a quello famigliare e alla
trama gialla, sembra un po’ troppo in un solo film anche per un attore del suo
rango) a salvare L’isola nel sole dal naufragio sono la brava Dorothy
Dandridge e, soprattutto, la giovane ma già decisiva Joan Collins. La Dandridge
interpreta Margot, una ragazza nativa di cui si invaghisce un funzionario
inglese: la semplicità con cui la giovane scarica Boyeur, con cui
avrebbe composto una canonica coppia di colore, per accasarsi con un partito
più vantaggioso, considerato il contesto sociale, provoca un po’ di amara
ironia da parte del leader politico degli isolani. Ma è solo la sua incapacità a
guardare oltre agli steccati che pure egli stesso vuole abbattere, a farlo
parlare così. Forse, si tratta del punto di vista di Rossen, o comunque della
vicenda, visto che, nel finale, è sottolineato come al tempo fosse accettabile
che un uomo bianco avesse una relazione con una donna di colore mentre il contrario
non veniva tollerato. Considerazioni innegabili ma a cui va dato il giusto
rilievo, diversamente si rischia di accrescerne l’influenza: ad esempio, non si
combatte il razzismo facendo l’illazione che Margot scelga un inglese piuttosto
che un uomo locale perché vittima lei stessa del pregiudizio, quando invece la
risposta più ovvia potrebbe essere perché ne è semplicemente innamorata.
Così, quando Boyeur pontifica che un’unione con Mavis non possa funzionare
perché, prima o poi, magari in un momento di rabbia, lei gli avrebbe
rinfacciato di essere un negro [cit. dai dialoghi del
film], si arriva al nocciolo della
questione. Ecco, forse il limite in questo aspetto del film è in quel terrore
di una parola, di un concetto, che invece andrebbe depotenziato: va bene, in
americano nigger è un termine offensivo ma il significato che veicola
non lo è.
Non è offensivo avere sangue africano e forse bisognerebbe dare più
peso al vero significato delle parole rispetto a quello che qualcuno gliene
vuole dare. Poi, per carità, la vita reale è un altro discorso che non è però
legato necessariamente al cinema e a questo film; perché, forse, il cinema,
quando decide di affrontare temi sociali, dovrebbe provare a spostare
l’asticella un po’ più in là e non a rifugiarsi velocemente nel politicamente
corretto o sciatterie simili. In punto è che Boyeur ritenga inaccettabile
essere offeso dalla compagna in una lite, se quell’offesa è inerente alla sua
etnia piuttosto che ad una sua eventuale calvizie o obesità; rinfrancando, in
questo senso, la solidità delle discriminazioni razziali. Cosa anche
comprensibile, umanamente, sia chiaro, ma da uno che si professa leader di un
intero popolo (e da un film che si pone quello razziale come argomento negli
anni cinquanta) ci si aspetterebbe molto più coraggio e almeno un pizzico di
audacia. Molto meglio l’atteggiamento di Margot allora, che, fatta salva una
saggia circospezione di natura pratica, affronta l’argomento di un’unione mista
(lei caraibica e lui inglese) per quello che è: un’unione tra un uomo e una
donna.
In questo guazzabuglio di convenzioni, convinzioni e discriminazioni,
meglio ancora si dipana il personaggio di Jocelyn, che poggia le sue fortune
sulla verve interpretativa (oltre che sulle notevoli grazie) di Joan Collins,
attrice capace come poche altre di tratteggiare personalità controverse e
combattute, spesso anche con debolezze, ma sempre volitive. In L’isola nel
sole, in sostanza, sono le sfumature che riesce ad imprimere al suo
personaggio gli aspetti più interessanti di tutta quanta l’opera. Certo, la sua
Jocelyn avrebbe meritato un successo come Un posto al sole (1951, di
George Stevens) o un altro drammone dell’epoca ma, come detto, il minestrone
assemblato dal produttore Darryl F. Zanuck era troppo pesante per le capacità
di Rossen.
Tuttavia, la serie di colpi di scena che interferiscono nella storia
d’amore tra Jocelyn e Euad (Stephen Boyd), il figlio del governatore dell’isola,
danno modo alla Collins di sfoderare la sua personalità, mai banale e sempre
stimolante. Joan è di una bellezza che vale qualunque altra diva nella Storia
di Hollywood (senza eccezioni) ma ha, oltre a quella, un fascino magnetico
nello sguardo, qualcosa in grado di andare al di là della gradevolezza
dell’aspetto, che l’attrice fu fin da subito, fin dagli inizi della carriera,
in grado di valorizzare al meglio, piegandola alle varie necessità
interpretative. In L’isola nel sole è una splendida ragazza nubile,
figlia di proprietari terrieri, che perde il tempo spassandosela, almeno per
quello che una piccola isola caraibica può concedere ad una giovane.
Quando la
vede Euad, figlio del governatore e Pari d’Inghilterra, se ne innamora
seduta stante (comprensibilmente, visto come la Collins si aggira in costume da
bagno). L’interesse di un Pari d’Inghilterra non è cosa da poco
ma Jocelyn non stramazza ai piedi di Eaud come una banale ragazzina; probabilmente
vorrebbe anche farlo, vista la portata dell’occasione, ma prova a darsi un po’
di contegno, con mestiere. E già qui la Collins è notevole, nella calcolata
incertezza con cui prova a rendere quest’impressione. Quando le cose sembrano
andare per il meglio, e il nobile giovane dichiara la sua intenzione di sposare
la ragazza, dal giornale locale arriva la notizia scioccante che la nonna di
Jocelyn era di sangue misto. L’obiettivo dell’articolo era colpire Maxell (il
personaggio di Mason) impegnato in una campagna politica, ma ad andarci di
mezzo è anche sua sorella Jocelyn. L’idea che un Pari d’Inghilterra possa
congiungersi in matrimonio ad una donna con sangue africano nelle vene non è
tanto praticabile e la ragazza, per amore di Euad, decide di fare un passo
indietro. Pur nel romanticismo di questi passaggi, che sono peculiari dei
drammi degli anni cinquanta, Jocelyn non è ipocrita, lamentandosi, in un primo
momento, di veder svanito tutto quanto il proprio mondo fatato. Ma non
sottopone a questo innegabile rimpianto, ovvero godere di privilegi
(umanamente, sentimento comprensibile) le proprie scelte visto che, piuttosto
si afferma, dentro di lei, la volontà di non sposare Euad, nonostante questi
insista incurante delle dicerie diffuse dalla stampa.
Ma, si è detto, il
segmento narrativo dedicato alla famiglia Fleury (che annovera anche i problemi
di Maxell col padre, la madre e la moglie) sarebbe stato da solo sufficiente
come soggetto per l’intero film e il successivo colpo di scena è che Jocelyn è
già rimasta incinta. Confidandosi a colloquio con la madre cerca da lei
conforto e aiuto per andarsene da sola in Canada, un luogo abbastanza lontano
per provare a non recare scandalo all’amato. Dopo qualche prevedibile
reprimenda per l’inopinata scappatella, la madre, al contrario, la invita ad
accettare l’ultima proposta dell’uomo, che vuole sposarla al più presto; in
questo modo i tempi potrebbero essere plausibili. Ma Jocelyn teme che il suo
sangue africano possa fare capolino, in questo figlio o in eventuali altri, e
non vuole comunque fare correre rischi di scandalo ad Euad.
Probabilmente è
questo il passaggio più delicato dell’intero film, oltre che un momento assai interessante.
La madre accusa Jocelyn di avere idee arretrate, il che può anche essere vero,
in generale, ma in questa circostanza le motivazioni della giovane sembrano di
natura diversa. In questo momento Jocelyn è talmente innamorata di Euad che non
vuole recargli alcun danno; non si preoccupa minimamente della natura,
legittima socialmente o meno, di questi danni. Non vuole essere la causa di
sofferenza per l’amato, che è una delle condizioni portanti del sentimento
amoroso che deve avere infatti intenti opposti al creare problemi a chi si ama. La questione razziale, da
Jocelyn, è trattata con noncuranza, in questa circostanza, nonostante la
riguardi da vicinissimo; in fondo ha appena appreso di essere una meticcia.
Eppure, a fronte dell’amore per Euad, non sembra dare alcun peso alla cosa, in
sé, visto che è preoccupata solo dell’eventuale scandalo che potrebbe colpire
il futuro marito. Il trasporto sentimentale con cui la Collins evidenzia questo
passaggio è il suggello ideale: non solo l’amore è un tema di rango superiore
al problema razziale, ma è anche la risposta per risolverlo. Tuttavia
l’ennesimo colpo di scena è dietro l’angolo: la madre confessa a Jocelyn di
aver tradito a suo tempo il marito e, di conseguenza, la ragazza non è
discendente dalla nonna con sangue misto nelle vene. Basterà chiarire la cosa
col governatore, umiliazione a cui la madre si offre di sottoporsi ma che Jocelyn
non accetta come sacrificio. In fondo, il rischio di un figlio coi capelli
crespi è scongiurato e quindi la ragazza può partire con Euad per
l’Inghilterra. Il che sembra un po’ il tipico cerchiobottismo della narrativa
di un tempo (quella in cui, dopo aver combattuto contro i privilegi nobiliari, il
protagonista di umili origini, dopo mille imprese rivoluzionarie, scopriva che lui
stesso era di stirpe aristocratica). Invece no. Perché l’aeroplano che porta
Jocelyn e Euad imbarca anche Margot e il suo fidanzato inglese, e la cosa è
rimarcata da un’altra coppia mista, Boyer e Mavis, con un certo rimpianto.
Coppie miste con l’uomo bianco, sono ancora accettabili, coppie miste se l’uomo
è di colore, no: è quanto convengono i due, prima di lasciarsi. Quindi, forse è
un dettaglio narrativo, certo, ma Jocelyn accetta di passare per meticcia pur di
sposare l’amato Euad; d’accordo, il fatto che questi sia un Pari
d’Inghilterra non è che sia vissuto come un peso, questo è evidente. Ma il
denaro, la posizione sociale, sono dettagli; o meglio opportunità che, se
possibile, è meglio cogliere, come fa anche Margot, anch’essa a bordo. Il punto
cruciale è ancora quello: la soluzione della questione razziale è l’amore.
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