754_I SETTE LADRI (Seven Thieves). Stati Uniti; 1960. Regia di Henry Hathaway.
Il regista Henry Hathaway, pur essendo uno dei registi più versatili della Hollywood classica, non è però considerato uno dei giganti del cinema; in effetti gli manca un po’ di cifra autoriale. Eppure spesso riusciva ad interpretare nel modo giusto gli elementi a disposizione e lo faceva quasi in modo naturale e senza rimarcalo. In genere le sue scelte erano nell’ottica della tradizione; ma qualche volta no come, ad esempio, nell’utilizzo di Marilyn Monroe in Niagara (1953) con la diva che fornisce una prestazione molto valida anche se un po’ fuori dai suoli soliti cliché; e, a pensarci, è un peccato che non sia stata una soluzione ripetuta altre volte. Quindi è forse in una sorta di spontaneità che risiede uno degli aspetti più interessanti di Hathaway: pur in una poetica che si affidava alla consuetudine, a volte, verrebbe da dire quasi ingenuamente, riusciva a cogliere qualcosa in controtendenza. In I sette ladri, film che racconta di un colpo al Casinò di Montecarlo, Hathaway si trova a gestire una storia corale, anche se gli interpreti di peso, in definitiva non sono poi molti. E anche in questo caso, pur senza strafare, Hathaway riesce ad essere un po’ spiazzante, pur mancandogli, come suo solito, il colpo da KO. In effetti, nel complesso, I sette ladri è un film che, per la sua impostazione, per il cast, per la tensione che trasmette, meriterebbe una considerazione assai più alta, di quella che normalmente gli è concessa. Ma è anche vero che poi l’operazione nel suo insieme non è totalmente riuscita o, almeno, non lo è nella misura in cui ci si potrebbe aspettare. Del resto anche il colpo al Casinò ha un po’ lo stesso risultato: tutto fila per il meglio eppure il finale si risolve con un nulla di fatto.
Sorprende una chiusura politicamente corretta su cui il regista sembra scherzare (la vincita alla roulette come premio per l’onestà), ma l’impressione è che alla storia finisca per mancare un po’ di nerbo. In ogni caso uno dei punti di forza è il cast e su tutti spicca il nome di Edward G. Robinson (è il professor Theo Wilkins); al tempo, dopo un periodo in tono minore, la carriera del grande attore di origine rumena si apprestava ad avere una fase molto positiva e I sette ladri inaugurerà una serie di crime-movie in cui l’attore, ormai anziano, lasciava la ribalta agli altri limitandosi ad un ruolo di supervisione. In questo senso il film di Hathaway è, per Robinson, un deciso rilancio eppure l’attore non riesce a lasciare una traccia degna del suo antico carisma. Neppure Rod Steiger (Paul), che prende presto il centro del ring in qualità di uomo più in gamba della banda, alla fine riesce a spuntarla in questo senso. Certo, Steiger è un mastino ma, in questo film, sembra lasciare troppo in evidenza il suo lato tenero; che poi, anche se in genere molto meglio occultato, è uno dei tratti distintivi della sua natura attoriale. E naturalmente non sarà Eli Wallach (Pancho) ad essere l’elemento chiave; lui, come suo solito, è il migliore tra i comprimari. No, a prendersi la ribalta è la figura femminile della banda, come già evidenziato dai manifesti e dai bellissimi titoli di testa: la vera rivelazione de I sette ladri è infatti Joan Collins nei panni di Melanie.
L’attrice britannica ingrana subito la quarta e sfodera un paio di numeri sul palco del night club in cui chiarisce bene le sue qualità anatomiche e sensuali: in questo ambito la ragazza sa il fatto suo. Dopodiché, vista l’ottica buonista del film di Hathaway, pur in un contesto del tutto insospettabile, la Collins comincia tratteggiare una personalità onesta e desiderosa di moralità. Questa vena che pervade tutta l’opera è curiosa, per un film incentrato su una banda di ladri, ma è comune almeno ai tre personaggi principali, ovvero il professore, Paul e Melanie. L’impronta principale è quella del professore, un brillante studioso ripudiato dalla comunità scientifica per uno sbaglio e marchiato a fuoco con il segno dell’infamia. Non è una questione chiarita, nel film, ma appena decifrabile da qualche dialogo: non sembra, però, che la sete di rivalsa di Wilkins sia giustificabile; al massimo umanamente comprensibile. Il personaggio del professore è tratteggiato con simpatia e perfino tenerezza, sia da Hathaway che Robinson, che forse esagerano in quest’ottica. Interessante però il finale con Wilkins che, dopo aver indotto la morte apparente a Pancho, ai fini della riuscita del furto al casinò, mentre questi si riprende, muore serenamente dopo aver metaforicamente messo il tappo alla bottiglia. Questa espressione, che viene usata più volte dal professore per indicare una sorta di suggello alla propria carriera, fa il paio con un’altra affermazione dello stesso personaggio.
e così entriamo negli anni '60... però che peccato che debba prendere piede questo pragmatismo... i tappi per chiudere le bottiglie mi fanno pensare a tutti questi attori che si controllano, oscurando alcune delle loro qualità :(
RispondiEliminaBeh, in effetti è un film che non è pienamente riuscito.
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