748_FERMATA PER 12 ORE (The Wayward Bus). Stati Uniti; 1957. Regia di Victor Vicas.
Il romanzo La corriera stravagante del 1947 di
John Steinbeck era stato a lungo sul punto di essere messo in produzione, con
un casting che aveva toccato moltissimi nomi altisonanti di Hollywood. Poi, nel
1956, per la 20th Century Fox uscì Fermata d’autobus, commedia di
Joshua Logan con Marilyn Monroe, che fu un bel successo al botteghino. Allo
studio californiano avevano sotto contratto anche l’altra bionda platinata del
momento, Jayne Mansfield, e il soggetto di Steinbeck venne ripescato per
cercare di sfruttare le similitudini come effetto traino. Sotto questo aspetto,
alla 20th Century Fox saranno rimasti delusi dal risultato al box-office
di Fermata per 12 ore che ottenne giusto qualche ricavo rispetto al
budget investito. Ma, crucci dei produttori a parte, l’esordio hollywoodiano di
Victor Vicas è un film molto interessante e pienamente riuscito. Certo, alcuni
limiti sono evidenti, allo studio avevano deciso di investire molto di meno
rispetto al citato Fermata d’autobus (un’idea di quanto ce l’ha da lo
stesso rapporto che può esserci tra Marilyn Monroe e la sua rivale Jayne
Mansfield). Tuttavia alcuni fattori concorreranno a favore di Fermata per 12
ore: ad esempio la mano discreta di Vicas in regia, che lascia emergere il
racconto alla sua base. Il soggetto di Steinbeck verteva su una serie di
rapporti interconnessi, tra i personaggi che si ritrovano sul vecchio Sweetheart,
uno scalcagnato bus che fa la tratta tra Rebels Corners e San Juan, nelle
montagne interne della California. E se la messa in scena non è certo quella di
un tipico film mainstream della Hollywood del tempo, il bianco e nero e le
location malmesse contribuiscono a rendere il racconto uno spaccato di
quell’America rurale che spesso si poteva vedere nei B-movie ma dove sarebbe stato
difficile imbattersi in una sventola come la Mansfield. Che, per la verità, non
è la vera star femminile dell’opera, nonostante la platinata diva faccia
pienamente la sua parte; perché il ruolo più importante nel film è affidato a
Joan Collins, che lo valorizza da par suo. Il valore artistico dell’attrice
inglese era già noto sin dai suoi esordi e si può vedere come, in un film che,
come detto, vuole sfruttare l’effetto bionda platino alle prese con un
corteggiatore sull’autobus (elementi comuni all’opera di Logan), il nome
della Collins venga sempre prima e sia messo in maggiore evidenza sui
cartelloni e sui titoli di testa.
Non è una questione secondaria, perché
sottolinea come in piena golden age del divismo femminile più
scintillante, ci fosse già posto per la figura di una donna dalla personalità
più strutturata, più tridimensionale, che la Collins era perfetta nel rendere
sulla scena. In realtà Joan rientrava a pieno titolo nella galleria delle
divinità cinematografiche di assoluta bellezza ma, rispetto alle colleghe,
aveva una personalità meno passiva, meno soggetta allo sguardo del partner.
Portava naturalmente in dote alcune caratteristiche di emancipazione di cui la
donna si sarebbe appropriata negli anni, sia in campo professionale (in questo
film è lei che tiene i cordoni della borsa) che sessuale (al marito dice
testualmente “ti ho sposato per poterti mettere le mani addosso”).
Comunque, per calarsi nel ruolo di Alice Chicoy, la Collins viene un po’
trascurata al trucco e dal costumista, tanto che la sua cameriera, l’anonima
Norma (Betty Lou Keim) la accusa di essere gelosa di lei. E, a titolo di
ulteriore sberleffo, aggiunge anche di comprenderla, vista la sua condizione. Ora,
Joan Collins aveva al tempo 24 anni e basta dare uno sguardo al contemporaneo L’isola
nel sole (1957, di Robert Rossen) dove si aggira in un attendibile costume
da bagno, per farsi un’idea del suo personale; in Fermata per 12 ore
veste semplicemente i panni di una donna che deve mandare avanti un locale nei
pressi della stazione dell’autobus. Suo marito, Johnny (Rick Jason), l’autista del
citato Sweetheart, è un marcantonio ed è innamoratissimo di lei,
ricambiato.
Ma, si è detto, la Collins oltre alla bellezza dava sempre ai suoi
personaggi un mix di forza e debolezza, e dal contrasto tra le due componenti
l’attrice riusciva sempre a ritagliare personalità memorabili. Come la Alice di
Fermata per 12 ore: capace, ad esempio, di litigare con il giovanissimo
e volenteroso aiutante del marito, Ed Kit Carson detto Brufoli
(Dee Pollack), per una misera fetta di torta, schiaffeggiare la povera Norma,
litigare a più riprese con Johnny e, per finire, ubriacarsi senza ritegno. Ma
poi, poteva chiedere pubblicamente scusa alla cameriera rimborsandole pure i
danni morali, essere fedele al marito mandando a quel paese energicamente il
poliziotto che cercava di approfittare delle sue liti coniugali e,
naturalmente, riprendersi il proprio uomo con tenacia, dolcezza e comprensione.
Nonostante la storia tra Alice e Johnny sia quella preponderante, Fermata
per 12 ore è un film corale, con storie che si sviluppano e
contemporaneamente si intrecciano, come tipico nei romanzi. La Mansfield è
Camille, una ballerina di burlesque (in incognito, se così si può dire) che
deve andare a fare uno spettacolo privato a San Juan e finisce sotto le
attenzioni di Ernst (Dan Dailey), un venditore. In questo caso lo sviluppo è
molto più prevedibile: inizialmente Ernst, un tizio qualunque sulla mezza età,
non ha alcuna possibilità con l’avvenente ragazza. Poi, quando il pullman
deraglia e lui si getta sopra di lei per proteggerla, finendo ferito al volto,
le cose cambiano; ora Camille comincia a ponderare meglio le avventate proposte
di matrimonio dell’uomo.
Che una donna come Jayne Mansfield si intenerisca per
la promessa di un appartamentino arredato in stile spagnolo con il forno
automatico non è tanto credibile e va detto che questa traccia che vorrebbe
essere tenera è, in effetti, più che altro un po’ debole. Il passaggio
decisivo, nel suo sviluppo, accade quando Ernst scopre la professione di
Camille: sul momento decide di interrompere la relazione. Poi avrà modo di
ravvedersi, confermando lo schematismo di questa trama sentimentale che certo
non contribuisce più di tanto a rendere memorabile l’opera. In questo, Jayne se
la cava molto meglio ondeggiando le curve e i capelli biondo platino e va detto
che la sua presenza scenica è, in ogni caso, un elemento a favore del film. Anche
perché, personaggio di Alice a parte, gli altri protagonisti del racconto di
Steinbeck sono più che altro figure caratteristiche che servono per tenere in
piedi una vicenda che si svolge quasi tutta dentro un pullman.
Sì, ci sono i
passaggi ad alta tensione, con la frana e il ponte pericolante, che una certa
povertà nella messa in scena contribuisce a rendere quasi naif, e quindi
accettabili in quest’ottica, ma i rapporti umani hanno un peso determinante. I
personaggi sono però tutti mezze caricature: Van Brunt (Will Wright) è il
classico vecchio ottuso che non vede al di là del proprio specifico interesse,
i coniugi Pritchrad (Kathryn Giveney e Larry Keating) battibeccano continuamente
come una coppia di una sit-com, mentre la figlia Mildred (la bella
Dolores Michael) li provoca andando a stuzzicare l’autista, sapendo di
indispettire la madre. Sul pullman salgono anche Brufoli, che nel viaggio saprà
guadagnarsi il rispetto perdendo quindi tale appellativo, e Norma; ma si tratta
solo di personaggi appena abbozzati. Visto il soggetto d’origine, è chiaro che uno
dei punti di forza del film sia la struttura dell’intreccio e i pregevoli
incastri narrativi: come l’orecchino perso da Mildred nella stalla, prima
di passarci del tempo con Johnny, e non dopo o durante questo. A causa del
mezzo diluvio che si era abbattuto sulla corriera, Sweetheart era finito
impantanato e l’autista si era recato in una fattoria vicina a chiedere l’aiuto
del trattore.
Mentre aspettava il contadino, Johnny era stato raggiunto da
Mildred, che aveva quindi atteso con lui, nella stalla. Appena entrata la
ragazza si era accorta di aver perso l’orecchino; questo particolare, quando
ritorna a più riprese, è equivocato e l’idea che passa è che sia stato perso durante
la permanenza della giovane in compagnia dell’uomo, prevedibilmente a causa di una
situazione movimentata, veniva a quel punto facile da immaginare. Anche
l’intervento dell’elicottero dello sceriffo è ben gestito, ancora una volta
sottolineando come la tempistica sia la chiave per fare reggere un racconto in
cui, sostanzialmente, non succede niente. Infatti, se il pullman, nonostante i
rischi se la cava comunque, anche gli sbandamenti sentimentali rimangono tali
senza deragliare completamente.
Di Johnny e Mildred nella stalla, si è detto,
e, dopo questo, Alice riceve la visita dello sceriffo che arriva in elicottero.
Il suo aiutante vorrebbe anch’egli scendere dal velivolo per prendere qualcosa
alla locanda ma lo sceriffo lo rassicura: ti porterò una tazza di caffè, dopo.
La cosa è sottolineata dall’aiutante che chiede stupito “dopo cosa?”. Lo
sceriffo, è proprio il caso di dirlo, ha fatto i conti senza l’oste, perché
nonostante Johnny sia andato via sbattendo la porta, l’oste in
questione, Alice, non intende tradirlo. Neanche dopo le insinuazioni del tutore
dell’ordine che cerca di approfittare scorrettamente dello stato disperato
della donna. Ma, come detto, Alice tiene il punto e, piuttosto, si fa portare
con l’elicottero sul luogo dove il pullman si è impantanato. Il suo arrivo è
quanto mai intempestivo: Johnny e Mildred tornano dalla loro presunta
scappatella e perfino Camille, che per via del suo aspetto appariscente era
vista con un po’ di sospetto da Alice, si trova a solidarizzare con lei. In una
situazione che lascia intendere una possibile rottura definitiva, Alice riesce
invece a trovare la forza per pagare i suoi debiti (con Norma) e perdonare
l’eventuale tradimento del marito. Un finale commovente che valorizza l’intero
film, perfettamente credibile soprattutto grazie alle capacità artistiche di
Joan Collins. La classe è classe anche in abiti da taverniera.
Joan Collins
Jayne Mansfield
bello il parallelismo fra gli sbandamenti subiti dall'autobus e quelli sentimentali dei personaggi :)
RispondiEliminafra l'altro l'autobus è un qualcosa che fa parte del mio immaginario da tanto tempo, mi capita sovente di sognare degli autobus e ci ho pure scritto qualche breve racconto in passato...
molto bella la foto in cui la Collins posa insieme alla bionda sul retro dell'autobus! :))
Mandaci il Gaviale in autobus, allora, nel prossimo episodio! :))
RispondiElimina(ehm... ehm... quella che definisci genericamente "bionda" è Jayne Mansfield, mica una pischella qualsiasi :)))
sì, avevo letto il nome nella rece... ho poi scritto "bionda" per semplificare, fra di noi ;)
RispondiEliminaSi, scherzavo! :)
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