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venerdì 5 febbraio 2021

L'ETA' DELLA VIOLENZA

743_L'ETA' DELLA VIOLENZA (The Good Die Young)Regno Unito1954. Regia di Lewis Gilbert.

Nella cinematografia inglese del periodo, un posto di spicco lo merita L’età della violenza, opera con cui il regista Lewis Gilbert dà una personale interpretazione del crime movie con forti ascendenze noir. Per la verità il film, tratto da un soggetto dello scrittore Richard Macaulay, volendo potrebbe essere ascritto ai caper movie, i film che raccontano dell’organizzazione di un colpo o una rapina che, dopo Giungla d’asfalto (1950, regia di John Huston), avevano ridefinito i propri codici. L’impressione deriva più che altro dalla struttura narrativa, con il racconto che comincia poco prima della rapina e, dopo un lungo flashback, lì vi ritorna per l’azione vera e propria che conduce alla conclusione la storia. Se in questo modo è possibile apprendere come si sia arrivati al momento critico, da un punto di vista simbolico la circolarità del grosso del racconto (poco prima del finale ci si ritrova al punto di partenza) rafforza il pessimismo di cui è intrisa la pellicola. Ma, al contempo, l’idea che passa è che tutte le vicende dei personaggi, per quanto esse siano indipendenti, facciano parte dell’improvvisata preparazione per il colpo al vagone postale. Non è naturalmente così, visto che si tratta di puro caso ma, seguendo l’interpretazione fatalista di cui è intrisa l’opera, è come se le disavventure dei quattro componenti dalla pseudo banda siano l’opera di un Destino che si sostituisce all’organizzatore di colpi criminali. 

Perché Miles ‘Rave’ (Lawrence Harvey), che il colpo lo idèa, da un punto di vista organizzativo è una frana; del resto preparare per bene un colpo è un lavoro, un concetto del tutto alieno all’aitante giovanotto. Lui è buono solo a spassarsela e a raggirare ragazze (come l’impiegata delle poste a cui ghermisce le informazioni), la moglie (Margareth Leighton), che lo mantiene, o tre sconosciti incontrati per caso al bar di cui si finge amico pur di averne l’appoggio per il colpo. I tre assoldati per rapinare il convoglio postale sono Joe (Richard Basehart), Eddie (John Ireland) e Mike (Stanley Baker); la voce fuori campo che si prende la briga di descrivere i personaggi quando comincia il flashback, alimenta l’impressione di essere di fronte a qualcosa di ineluttabile, di già definito, in quanto ci troviamo in presenza di qualcuno che ci racconta gli eventi come se li conoscesse. Se è anche vero che i quattro si ritrovano insieme nel momento cruciale della loro vita per una semplice combinazione, la costruzione del racconto veicola quindi l’idea che non avessero molte alternative. Joe è un americano, tornato da poco dalla guerra di Corea, ha perso il lavoro per venire a Londra, dove è ambientata la storia, per recuperare la moglie. Mary, una giovane e deliziosa Joan Collins, è incinta ma, soprattutto, deve accudire l’anziana madre, donna ipocondriaca che non esista a ricattarla moralmente, inscenando perfino il suicidio, pur di non venir abbandonata dalla figlia. 


Per quanto Mary e Joe appaiano sinceramente innamorati, la famiglia, nella figura della madre/suocera, si presenta come un insormontabile ostacolo verso la felicità dell’individuo, una situazione simile a tutti i casi dei personaggi del film. Eddie è un aviatore che, dopo la guerra, si è arruolato in modo permanente; sua moglie Denise (la splendida Gloria Grahame) è un’attrice e lo tradisce impunemente con un divo del cinema. Mike è un pugile, sembra avere un buon rapporto con la moglie Angela (René Ray) se non che questa, proprio nel momento cruciale per la coppia, utilizza tutti i faticosi risparmi del marito per pagare la cauzione del fratello, uno smidollato perdigiorno. Anche in questi casi, sia la consorte fedifraga che il cognato, sono elementi famigliari nocivi per l’individuo. 


Per quel che riguarda Miles, è piuttosto lui ad essere nocivo, sia nei confronti della povera ricca moglie, sia nei confronti di suo padre, a sua volta ricchissimo ma assolutamente convinto a non concedere un centesimo allo sciagurato figlio. Sia come sia, il quadro critico all’istituzione famigliare si completa con il cerchio dei protagonisti; in questo senso sembra molto insistito il discorso del film di Gilbert, se anche Angela, che sembra davvero una brava donna, mette nei guai suo marito, dopo che questi, con l’ultimo incontro sul ring, aveva addirittura perso una mano. Come detto, a vederlo, L’età della violenza si presenta come un noir, un genere ancora molto in voga al tempo; nei noir, la figura che interpretava il destino era la femme fatale. Ma, nonostante passassero per cattive, le dark lady più che la figura femminile incarnavano i sogni, le speranze, dell’individuo (il protagonista era sempre un maschio) che si rivelavano tanto desiderabili quanto vani. In ogni caso, Gilbert si libera da questa chiave di lettura: la presenza di Gloria Grahame, attrice americana in un cast perlopiù inglese, già dark lady in noir memorabili (basti citare Il Grande Caldo, 1953, di Fritz Lang), che nel film interpreta un’attrice di cinema, sembra davvero un tocco metalinguistico. 

Con il quale il regista prende le distanze dall’idea della donna come simbolo di perdizione, in quanto Denise è sì una pessima moglie ma la sua uscita di scena, col volo nella vasca da bagno ancora vestita, sembra uno sberleffo alle arie da femme fatale che il suo personaggio si dà. Nel cast, volendo, c’era anche la Collins, ancora giovanissima ma con bellezza, portamento e classe che si intuiva immediatamente le avrebbero permesso di reggere il ruolo, ma gli unici dubbi che ha la sua Mary sono se seguire il marito o restare con la mamma, non certo pensieri della natura che avevano le dark lady dei noir. 

Il problema, per Gilbert, sembra essere molto più vasto, più radicato, più capillare: quattro personaggi diversi, quattro storie diverse, differenti anche per condizione sociale, hanno però lo stesso denominatore comune, la famiglia come primo elemento di ostacolo verso la felicità. I protagonisti sono tra loro più o meno sconosciuti ma nel film li vediamo legati sin da subito dai nodi del racconto che, come detto, si sviluppa poi grazie ad un lungo flashback: e nella storia narrata il futuro è già scritto, essendoci una voce che ce la racconta. Non c’è quindi via di fuga. Nemmeno per Joe, l’americano che, rispetto agli inglesi della storia, poteva vantare un’origine che spezzasse l’isolamento; e che in effetti arriva a pochi metri dal traguardo, l’aereo in partenza per gli Stati Uniti. 

Dopo le splendide scene della fuga nella metropolitana, il duello finale vede Joe e Miles, affrontarsi, nel chiuso di una cabina telefonica, quasi a replicare il momento critico dei western ma a cui manca l’elemento tipico di quel cinema, lo spazio. La specularità del risultato, i due si ammazzano a vicenda, conferma che ci troviamo in un mondo senza vie di uscita; come del resto avevano già evidenziato le morti di Mike ed Eddie, uccisi a tradimento da Miles e non dalla polizia durante lo scontro. Nello sviluppo a spirale, chiuso su sé stesso, anche la fine arriva dall’interno e non da agenti esterni al racconto. La morte di Joe, che cade a pochi passi dall’aereo che doveva portarlo via, segna la fine di un incubo che, nella società dell’epoca, poteva capitare a chiunque, senza distinzioni. Le poche banconote rubate che l’uomo si era tenuto, svolazzano sulla pista e di disperdono come illusioni che svaniscono nel buio della notte; chissà se è la citazione di questa scena, il finale di Rapina a mano armata (1956) di Stanley Kubrick. Nel caso, sarebbe il perfetto sigillo di qualità per il film di Gilbert.     


  Gloria Grahame





Joan Collins






René Ray



Margaret Leighton


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