404_PLATOON ; Stati Uniti, 1986. Regia di Oliver Stone.
Il giovane regista Oliver Stone, dopo il pur apprezzato Salvador, fa letteralmente saltare il
banco con il successivo Platoon, una
pellicola notevole e di grandissimo impatto emotivo. Stone aveva appunto già destato
segni di valore, sia con il precedente film, ma anche per il lavoro di
sceneggiatore. Per il quale aveva ottenuto addirittura il Premio Oscar praticamente al suo esordio, nel 1979 con Fuga di Mezzanotte. Che questo regista
statunitense abbia il cinema nel sangue, è quindi assodato. Nel sangue di quest’uomo scorre
però anche un vigore poderoso, come dimostrato in Platoon, un film nel quale il regista affronta (anzi ri-affronta,
visto il precedente cortometraggio Last
Year in Vietnam, sua assoluta opera prima) i tormenti interiori
legati all'esperienza vissuta in Vietnam. E’ davvero un privilegio assistere ad un’opera come Platoon:
ci sono stati altri film di guerra, e altri film sulla guerra del Vietnam, più
lucidi, più distaccati, più obiettivi. Pochi di questi però possono eguagliare
la potenza emotiva, la partecipazione in presa diretta, il tormento vissuto in
prima persona, di questo film di Oliver Stone. Stone conosce la guerra del
Vietnam, non ne parla da un punto di vista narrativo, storico o ideologico: no,
Stone ci prende per mano, ci carica su un elicottero e ci sbatte insieme al
soldato Chris Taylor (Charlie Sheen) in prima linea. Prima linea per modo di
dire: già i titoli di testa sbucano ora a destra, ora a sinistra, ora in alto,
ora in basso, come a dire che l’attenzione, nella giungla del Vietnam, deve
essere posta a 360°.
Infatti la minaccia vietcong, resa mirabilmente dal
regista, è poco visibile eppure onnipresente, e il nemico non sarà tanto
davanti, oltre trincea, come nei vecchi film di guerra ma ovunque, a destra
come a sinistra, ma anche sotto,
nascosto in una buca, o sopra, in cima ad una palma. Ma la cosa più
sconcertante di questo Platoon, che
si intitola giustamente Plotone, è
che l’obiettivo di questo film sulla guerra del Vietnam non risiede nel nemico
asiatico, ma nel plotone stesso. Sotto l’obiettivo della macchina da presa di
Stone c’è infatti principalmente proprio il drappello di soldati americani che
è chiamato a combattere i vietcong. Ma che, in realtà, è scosso da una o più
guerre intestine: le due fazioni, quella del Sergente Maggiore Barnes (un
demoniaco Tom Berenger), il cattivo, e quella del Sergente Elias (un eccellente
Willem Defoe) il buono, sono lampanti.
Ma ce ne sono altre, neri contro
bianchi, ricchi contro poveri, veterani contro novizi, fumatori di erba contro
non fumatori: il plotone è tutt’altro che unito. E Oliver Stone rimarca
esplicitamente questo aspetto, nel commiato finale fuori campo di Charlie
Sheen, che evidenza come la guerra del Vietnam sia stata per l’America una
guerra contro sé stessa, contro il proprio sogno, il Sogno Americano. Non ci sono John Wayne od eroi di sorta, nel
Vietnam: ci sono professionisti della guerra come il sergente Barnes (nome che
ha assonanze con il termine burn,
bruciare), che mette a ferro e fuoco qualsiasi cosa si pari sul proprio cammino
e non esita a commettere ogni genere di crimine contro l’umanità, se può
portarlo alla vittoria. Questa è l’unica realtà della guerra, non avere nessuno
scrupolo, Barnes lo dice apertamente “Io
sono la realtà”.
E’ vero che ci sono anche gli idealisti come Elias, nome
biblico di un grande profeta, ma nella giungla vietnamita finiscono inascoltati
e eliminati proprio per il loro essere scomodi. E quelli ingenui come il
soldato Taylor, che è fuori luogo quanto potrebbe essere un ragazzo degli anni
’80 in un simile inferno, non possono che prendere mano a mano coscienza della
differenza tra la propaganda americana e la tragica realtà della guerra. Cosa
che la maggioranza, come il tenente Wolfe, preferisce evitare, fingendo di non
vedere e non sapere pur di evitarsi troppe complicazioni. E proprio per
queste persone Oliver Stone ha fatto il film: venite e guardate, guardate
l’orrore della guerra del Vietnam, non ci sono più scuse. Ma Platoon non è un film di
contropropaganda, non siamo negli anni 70. Corrono gli anni 80, ah se corrono,
e Reagan vuole rinverdire il mito del sogno americano: Oliver Stone ce ne
mostra soltanto il volto più autentico.
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