415_IL COLOSSO DI RODI; Italia, Spagna, Francia 1961. Regia di Sergio Leone.
Il colosso di Rodi
è un’opera che è divenuta oggetto di interesse in seguito al successo che il
suo autore, Sergio Leone, ebbe coi successivi lungometraggi, a cominciare dai
famosi spaghetti-western. In sé, il
film, un peplum all’italiana, non è
certo memorabile e si inserisce senza particolari evidenze nella produzione
nazionale del genere. A livello narrativo, la storia ha una buona struttura,
sebbene si dilunghi eccessivamente; visivamente l’opera è interlocutoria. Ci
sono scene molto interessanti accostate ad altre meno efficaci e piuttosto
dozzinali. Intanto, rispettando i canoni del genere, il film ha un fondamento
storico, facendo riferimento alla civiltà di Rodi all’epoca del colosso, che era una delle sette meraviglie
del mondo antico. E’ giusto ricordare che ai peplum non era certo richiesto un rigore storico: tuttavia Leone
spara subito a raffica una serie di inesattezze, spesso completamente gratuite,
quasi a voler delegittimare ogni pretesa anche solo vagamente attendibile del
suo racconto. A posteriori, si può notare come alcuni degli elementi più
interessanti de Il colosso di Rodi
anticipino parte del lavoro che Leone farà per rinnovare il western. Il
personaggio principale in Il colosso di
Rodi, Dario (Ray Calhoun) è uno straniero, un simpatico perdigiorno che ha
come unico interesse correre dietro alle sottane e riposarsi. E’ un eroe di
Atene, sia chiaro; ma delle sue imprese ne parlano altri, mentre lui ripete spesso
che si deve riposare. L’atteggiamento di cercare di togliersi dal centro della
scena, mentre è conteso dalle parti in causa nella lotta, verrà poi ripreso per
gli anti-eroi degli spaghetti western. Un discorso analogo, almeno parzialmente,
si può fare per l’uso, nell’opera, della figura femminile. Qui le donne sono
due, Diala (Lea Massari) e Mirte (Mabel Karr).
La prima è bella, affascinante,
ambigua; la cosa è resa figurativamente da Leone dal fatto che è spesso intenta
a rimirarsi allo specchio. Personaggio simbolico e al tempo stesso di una buona
resa scenica, tradisce l’eroe ma poi lo salva, a parziale riscatto della
propria vita. Un modo importante di intendere la donna che, almeno in
principio, sarà estraneo agli spaghetti western. Meno strutturato il
personaggio di Mirte: è vero che alla fine riesce a conquistare Dario, ma
sembra più che altro una figura di contorno. E questo è, invece, il tipico
spazio concesso alla figura femminile in molti western all’italiana. Inoltre,
anche il ruolo giocato dal terremoto che, di fatto, ristabilisce la pace a
Rodi, ricorda il destino ai cui
capricci saranno sottoposti molti dei personaggi dei successivi film di Sergio
Leone.
Ma, come detto, oltre a questi spunti personali, il regista romano
rispetta, seppur in modo un po’ sbrigativo, i cliché del peplum italico: ci sono i muscoli esibiti, il balletto
coreografico, le belve feroci, i duelli all’arma bianca, le catastrofi. Il
cinema di genere vuole i suoi
passaggi obbligati e Leone non si sottrae; ma è indubbio che, per quanto il
film non sia certo un capolavoro, ci siano numerosi elementi da sottolineare
per la consapevolezza del regista nel realizzarlo. Ad esempio, molto
interessante è l’uso di un doppio registro, drammatico e umoristico, nel duello
notturno in cui Dario si scontra con Peliocre (Georges Marchal) e i suoi
fratelli; nell’altra stanza vediamo Lisippo (George Rigaud) dormire beato con i
tappi nelle orecchie incurante del finimondo che gli accade accanto. C’è quindi
un po’ di ironia diffusa, di cui questo è un esempio esplicito, mentre c’è forse
anche un divertimento, da parte di Leone, nel prendere in giro un po’ il genere
peplum, che era in effetti spesso
enfatizzato ai limiti del ridicolo. Forse la resa un po’ sciatta, dimessa, degli
eventi catastrofici è voluta dall’autore per sottolinearne l’artificiosità.
Del
resto, in una scena, viene anche mostrato un plastico dettagliato dell’isola di
Rodi e dell’enorme statua, che appare un po’ fuori luogo rispetto al tempo del
racconto; così come anche i complicati marchingegni dentro al colosso sembrano
di natura tecnica più moderna. C’è forse un tentativo di mostrare i meccanismi
della macchina cinema, dei suoi
trucchi, coi modellini per le riprese panoramiche; in qual caso con una
consapevolezza metalinguistica notevole da parte di un autore che era all’inizio
della carriera. In ogni caso, in altre scene, come quelle sulla sommità del
colosso, l’autore rivela senza alcun ombra di dubbio, una qualità registica
sorprendente quando riesce a citare in modo convincente nientemeno che
Hitchcock. L’omaggio più evidente è ad Intrigo
internazionale (film del 1959) dove i personaggi si inseguono sulle facce
dei presidenti del Monte Rushmore; ma può venire in mente anche Sabotatori (1942), sempre del grande Hitch, con le scene cruciali riprese
sulla Statua della Libertà di New York. Insomma, un’opera non completamente
compiuta, questo Il colosso di Rodi
ma, come è facile a dirsi col senno di poi, dalla quale emerge già la stoffa
dell’autore.
Lea Massari
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