1740_IL FAUNO DI MARMO , Italia 1977. Regia di Silverio Blasi
Con una lunga carriera alle spalle, il regista televisivo Silverio Blasi si prese, nel 1977, una bella gatta da pelare: trasformare il romanzo Il Fauno di Marmo di Nathaniel Hawthorne in uno sceneggiato. Le difficoltà erano oggettive e notevoli, a cominciare dalla natura sfuggente e indefinita del racconto letterario di Hawthorne, davvero rischiosa da mettere sullo schermo. Inoltre, gli sceneggiati italiani, nella seconda metà degli anni Settanta, cominciavano a mostrare la corda e Il Fauno di Marmo, pur non essendo affatto un prodotto totalmente negativo, è un valido esempio di questa tendenza. Con un regista esperto, un testo all’origine di assoluto livello, un cast con almeno un paio di attori importanti come Marina Malfatti (è Miriam) e Orso Maria Guerrini (Kenyon), il risultato dovrebbe essere garantito. Diversamente, per quanto si possano apprezzare molti aspetti de Il Fauno di Marmo, è innegabile che si tratti sostanzialmente di un’occasione persa. Il rischio della noia era già presente tra le pagine Hawthorne ma lo scrittore americano era naturalmente abile per gestire questa deriva e utilizzarla per creare quell’atmosfera di incertezza strisciante che alimentava l’inquietudine. Qualcosa di impalpabile, insomma, che rischiava, una volta tradotto in immagini esplicite, di mostrare tutti i suoi limiti. Gli sceneggiatori, Massimo Franciosa e Luisa Montagnana, ne erano al corrente e cercarono una soluzione coraggiosa: “Il romanzo era molto più vicino al fantastico che al reale, le vicende apparivano ovattate, come in un limbo. Noi abbiamo scelto di abbandonare Hawthorne. Bisognerebbe sempre far così: prendere un classico, meglio se poco noto, e farne una riduzione originale”. [M. Franciosa e L. Montagnana, dichiarazione tratta da Il fascino indiscreto della suggestione, Fiammetta Rossi, Radiocorriere Tv n. 39, 1977, pagine 15 e seguenti]. Dal canto suo il regista Silverio Blasi corresse un po’ il tiro: “Ho cercato di entrare nel clima della vicenda. Quando leggo l’Odissea, in quel momento credo a Minerva e a Giove; con la stessa fede ho partecipato al gioco fantastico del fauno” [S. Blasi, ibidem].
Come si vede, il tema è abbastanza scivoloso, dal momento che gli stessi autori dello sceneggiato ebbero approcci non totalmente coincidenti, almeno da quel che si può intendere dalle loro stesse parole. Forse il problema, o parte di esso, si desume dalle stesse parole di Fiammetta Rossi, l’autrice dell’articolo citato del Radiocorriere Tv, quando sostiene che Il Fauno di Marmo si inserisca nel genere Parapsicologico che stava prendendo sempre più piede in quegli anni nella televisione italiana. Come esempi di questo filone vengono citati Il segno del comando ed ESP, ma si fa cenno anche a L’amaro caso della baronessa di Carini e a Ritratto di donna velata. Osservazioni pertinenti e condivisibili, ovviamente, che nascondono forse la prima insidia per questo genere di narrativa: finché ci si riferiva ad essa con il termine «fantastico» si poteva accettare tutto e il contrario di tutto, proprio per l’assenza di legame con la realtà. Nel momento in cui si cerca di iscriverne i fenomeni in una pseudoscienza –la Parapsicologia, appunto– si rischia di minarne il fascino. Senza per altro ottenere, in cambio, l’accettazione ufficiale nel campo del reale, dal momento che la comunità degli studiosi rifiuta di riconoscere la Parapsicologia come disciplina scientifica. Ma questo interessa poco da un punto di vista narrativo, si potrebbe semmai discernere se faccia più paura l’ignoto oppure scoprirne i suoi risvolti pseudorazionali, ma anche questo probabilmente non rientra nel compito proprio di un racconto. Il Fauno di Marmo rimane sostanzialmente in mezzo al guado di tutti questi interrogativi: non è un racconto fantastico come quello di Hawthorne ma non propone nemmeno spiegazioni pseudoscientifiche. Hawthorne credeva molto di più alle sue paure di quanto non faccia Blasi, nonostante le parole di quest’ultimo, e per questo era molto più convincente.
Gli sceneggiatori si allontanano dalla natura ambigua e ovattata del testo originale, forti del fatto che certi argomenti siano ormai quasi accettati in ambito scientifico, o almeno ci si gioca un po’ su. Insomma, tanti buoni spunti ma, complice anche il declino degli sceneggiati, il risultato finale non è del tutto soddisfacente. La fine dell’età dell’oro della televisione italiana era vicina, e si sarebbe concretizzata di lì a poco con l’arrivo sulla scena di Berlusconi e del suo circo, e parte delle ragioni sono forse da ricercare dal precedente tramonto del teatro. Il teatro, infatti, era una fonte artistica indispensabile per questo tipo di produzioni televisivi, fornendo la necessaria «mano d’opera» qualificata da anni di palcoscenico. Gli sceneggiati, al loro apice, funzionavano infatti grazie ad una preziosa alchimia per cui la relativa povertà della Produzione –scenografia, arredi, tecnologia degli strumenti di ripresa– era superbamente bilanciata dalla capacità recitativa degli attori. Questi erano chiamati ad enfatizzare le loro interpretazioni, e lo facevano anche in modo riconoscibile, ma rimanevano sempre nei limiti di una credibilità che rendeva la fruizione piacevole, anche qualora fosse evidente il loro approccio teatrale al ruolo. Nel citato articolo del Radiocorriere, Blasi spende belle parole per i suoi protagonisti: “Orso Maria Guerrini ben si adattava alla figura di Kenyon e gli occhi della Marina Malfatti erano fatti per il personaggio di Miriam” [Ibidem]. Si può convenire con il regista, peccato che i più giovani personaggi protagonisti, Hylda e Donatello, siano interpretati da Consuelo Ferrara e Donato Placido che sembrano più adatti ad un fotoromanzo che ad uno sceneggiato. L’impressione è che, mentre scivolava il terreno sotto i piedi al format degli sceneggiati, gli autori abbiano provato un’operazione rischiosa, tradurre un testo ambiguo come quello di Hawthorne, senza nemmeno avere le idee totalmente allineate. Il risultato è Il Fauno di Marmo, qualcosa di sfuggente oltre che a tratti noioso, che lascia intendere buone potenzialità che non raccoglie veramente mai.
Marina Malfatti
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