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mercoledì 18 settembre 2019

I TRE DELLA CROCE DEL SUD

412_I TRE DELLA CROCE DEL SUD (Donovan's Reef); Stati Uniti, 1963Regia di John Ford.

L’anno successivo a L’uomo che uccise Liberty Valance, John Ford diresse I tre della Croce del Sud. Il film, spesso considerato una semplice e divertente storia d’avventura esotica, riprende e universalizza l’amarezza del bellissimo western precedente. Forse I tre della Croce del Sud patisce la mancanza della struttura ben codificata, e ben conosciuta da Ford, del genere western e, a quel punto, la sarcastica mano del regista di origine irlandese finisce per svilire eccessivamente l’opera. I tre della Croce del Sud non è un filmetto leggero come spesso è stato inteso, questo assolutamente no ma, nel complesso, manca di quell’equilibrio che lo avrebbe reso un classico. E’ probabile che sia un effetto voluto dall’autore ma, a differenza che in L’uomo che uccise Liberty Valance, l’opera di decostruzione di Ford, in I tre della Croce del Sud, non trova il giusto dosaggio. Negli ultimi anni della sua carriera Ford concentra la sua attenzione sul genere western nei film ambientati negli Stati Uniti, un genere certamente da sempre prediletto ma non necessariamente in modo così esclusivo. Se intende uscire dal genere, ambienta le sue storie altrove, come ad esempio nella Polinesia de I tre della Croce del Sud. Si tratta di un mondo estraneo, alternativo, a quello americano, eppure in parte collegato ad esso, essendo stato teatro di quella Seconda Guerra Mondiale che sancì la supremazia culturale a stelle strisce su gran parte del globo. Si può quindi azzardare una sorta di parallelo: il genere western sta alla conquista dell’America come i film ambientati nel pacifico stanno alla nascita dell’imperialismo yankee.
Si potrebbe considerare il genere bellico più adeguato a questo scopo, ma in fondo I tre della Croce del Sud ha tantissimi rimandi al conflitto nel Pacifico tanto che potrebbe essere inteso, per i film di guerra, quello che è un tardo western o un western crepuscolare per il genere che raccontava la conquista del west. I tre protagonisti, Guns Donovan (John Wayne), Boats  Gilhooley (Lee Marvin) e il dottor Dedham (Jack Warden) sono tre ex-compagni d’armi  della Seconda Guerra Mondiale che trovarono rifugio sull’isola Haleakaloha, continuando a combattere e finendo per stabilircisi a conflitto concluso. Analogamente a quanto fatto per L’uomo che uccise Liberty Valance, Ford ambienta la sua storia in un contesto non realistico: il precedente western, girato in un anacronistico e plumbeo, ma bellissimo, bianco e nero, era esplicitamente il luogo dove la leggenda batteva la realtà storica; in questo I tre della Croce del Sud ci sono altrettanti elementi in questo senso. Intanto l’isola di Haleakaloha è del tutto inventata, infatti il nome è la contrazione di Haleakala (nome di un vulcano dell’isola di Maui, nelle Hawaii), e aloha, famoso e accogliente saluto anch’esso hawaiano; ma è anche l’unione delle parole hawaiane casa, ridere e amore.

E anche la scelta del tipo di pellicola indica la volontà del regista di rendere astratto il suo testo: in questo caso non utilizza il ritorno al bianco e nero ma, al contrario, forza i colori enfatizzandone le tonalità, aiutato in questo dal mare, dal cielo, dai fiori e dalla flora lussureggiante. L’impressione è comunque di una messa in scena posticcia con colori eccessivi: soprattutto per le numerose cerimonie che scandiscono il racconto e che sono comunque, pur nella loro artificiosità, tra i momenti migliori del lungometraggio. Bellissima la musica, con la splendida Pearly Shells che è un motivo sonoro degno di un classico: memorabile ed evocativo. Tra questi momenti corali il passaggio cruciale è la processione dei magi, il giorno di Natale: dopo lo scultoreo sergente Menkowicz (Mike Mazurki) nei panni del Re della Polinesia e mister Eu (Jon Fong) in quelli dell’Imperatore della Cina, arriva Gilhooney, addobbato in modo improbabile nella surreale parte del Re degli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti d’America, il paese della democrazia, del sogno americano, concetti totalmente estranei ad ogni idea monarchica ma che avevano ormai tradito i propri ideali, erano rappresentati in modo spietatamente lucido dalla figura ai limiti del kitsch di Lee Marvin, addobbato con una corona di carta d’orata in testa.


Il predominio internazionale successivo alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale aveva rappresentato per gli Stati Uniti la fine di ogni velleità di uguaglianza e libertà: un percorso, stavolta su scala planetaria, analogo a quanto era accaduto al loro interno e stigmatizzato da Ford con gli ultimi western. Nel film, la critica alla società americana è feroce, sebbene sempre in chiave ironica, nel paragone tra le immagini ultra colorate e vivaci della Polinesia e il grigiore popolato da vecchie mummie dell’ufficio di Boston. Nella riunione dove si cerca un pretesto per estromettere il dottor Dedham dalla florida compagnia di famiglia, sua figlia, l’austera Amelia Dedham (Elizabeth Allen) viene inviata in Polinesia per verificare se il padre abbia tenuto un comportamento moralmente degno. L’uomo, dalla fine della guerra, non è mai ritornato negli Stati Uniti e non ha mai conosciuto la figlia che, nel frattempo, con la maggiore età ha assunto le redini della compagnia di navigazione in questione. Notare come, se è vero che il padre non abbia fatto in tutti quegli anni nulla per incontrare sua figlia, questa sia mossa ad un viaggio tanto impegnativo non già da necessità affettive o quantomeno da curiosità famigliare, ma dal mero interesse. Vero è che il film ha un tono farsesco che fa capolino abbastanza spesso, ma la stoccata rimane. Il punto dolente è che il dottor Dedham, all’oscuro dei suoi parenti in America, durante questi anni polinesiani si è sposato con la principessa locale, Manulani, da cui ha avuto tre figli: Leilani (Jaqueline Malouf), una ragazza adolescente, e i due piccoli Cheryline e Lucky. La bella Manulani è morta, e il dottore è assai indaffarato tra l’attività di padre, nella quale è aiutato dallo zio Guns, e il ruolo di medico per l’intero arcipelago.

Infatti, all’arrivo di Amelia a Haleakaloha, l’uomo non è in casa perché è impegnato nelle sue visite mediche sulle altre isole; i due ex commilitoni, preoccupati di quello che possa pensare l’austera figlia del dottore a proposito dell’esistenza di fratellastri meticci, trasferiscono i tre giovani a casa di Guns, che si spaccerà provvisoriamente per il loro padre. C’è l’intenzione, al ritorno del dottore, di lasciare a lui la patata bollente di dare le spiegazioni alla figlia americana; ma c’è anche una consapevolezza, che lascia piuttosto amareggiati, di come si consideri naturale temere obiezioni o perplessità a fronte di figli con donne di etnie non di ceppo europeo.
Certo, potrebbe essere anche un semplice precauzione visto che il dottore era già sposato con la madre di Amelia; ma Leilani manifesta esplicitamente il concetto di essere discriminata in quanto non bianca, e nemmeno Guns riesce a rassicurala, non avendo lo stomaco di mentire in una simile circostanza. In realtà Amelia si rivelerà tutt’altro che antipatica o, peggio, razzista ma, se da un lato questo potrebbe stemperare la critica alla cultura americana, che secondo Ford è in grado di educare giovani di idee aperte, liberali e progressiste, è vero anche che la scelta della ragazza di restare in Polinesia è un implicito rifiuto alla vita nel proprio paese. Amelia sceglie di restare su Haleakaloha formalmente per la storia sentimentale con Guns ma, dal momento che Ford stempera la vicenda amorosa nella satira di grana grossa, la decisione sembra più legata all’ammirazione per il lavoro svolto dal padre.

Nel finale, prima di un’ultima processione alla residenza Dedham, vediamo Amelia essere sbalzata dalla Jeep CJ di mister Eu atterrando sulla strada polverosa con il sedere, manco fossimo in una comica dei tempi del muto; sedere che poi viene anche sonoramente sculacciato da Guns. Insomma, più che un lieto fine, sembra una parodia che, se da un lato ne smorza il sentimentalismo, a quel punto rende difficile da prendere sul serio la storia d’amore al centro del film. Del resto questo tipo di operazione comica coinvolge tutto quanto I tre della Croce del Sud che altro non è che la versione parodiata del precedente Uragano (1937) dello stesso regista. Salta all’occhio subito la presenza in entrambi i film di Dorothy Lamour: all’epoca era l’avvenente e giovanissima eroina, mentre nel suo ruolo più recente è una sfiorita ragazza di vita, presa in giro da Gilhooley che le promette di sposarla senza mantenere mai la parola, mentre Guns si occupa di ridicolizzarla su un piano più concreto, gettandola dal primo piano nella vasca dei pesci. Poi c’è il governatore di Haleakaloha, che si chiama DeLage (interpretato da Cesar Romero), ovvero in modo assai simile a quel De Laage che governava l’isola in Uragano, ma che non ha nulla che vedere con l’interessante personaggio di quella storia. In I tre della Croce del Sud il governatore è solo un briccone che cerca di impalmare qualche ricca pollastrella, ma è comunque più che altro una macchietta.


Tuttavia gli sberleffi di Ford non si limitano soltanto al suo cinema, ma vanno direttamente al cuore dell’America, il cuore americano del Pacifico, per la  precisione. Il 7 dicembre tutti gli americani sanno che è una ricorrenza importante, è il giorno del vile attacco giapponese a Pearl Harbor. Nel film è più che altro il contemporaneo compleanno di Guns e Gilhooney, che non badano certo alla celebrazione del cruciale evento bellico, ma festeggiano, ogni anno, con una scazzottata di bassa lega. Per onestà va precisato che i valori della vita militare non vengono intaccati nel racconto filmico, neanche dalle risse che coinvolgono i marinai di passaggio: tra i tre ex compagni d’arme c’è una ferrea amicizia e questo è un aspetto su cui Ford non si mette a scherzare, nemmeno in I tre della Croce del Sud. Così com’è salvaguardata la sacralità della famiglia, forse il vero baluardo a cui sembra attaccarsi l’autore di origini irlandesi: Amelia viene a contatto con una nuova famiglia, più vitale rispetto alle mummie di Boston, e nella quale è rapidamente assorbita. Si nota subito una sua forte somiglianza con Manulani, raffigurata in quadro alla parete di casa Dedham, nemmeno fossero madre e figlia. In effetti la principessa sarebbe stata per lei una sorta di matrigna; nei confronti dei tre giovani figli del dottore, Amelia invece si comporta giustamente come sorella sebbene, vista l’età (e appunto la somiglianza con Manulani) finisca per fungere un po’ anche da madre, almeno per i due più piccoli. In tema famigliare c’è però uno scherzo che Ford tira all’amico Wayne, costringendolo ad imbastire una storia d’amore con la Allen, una ragazza così tanto più giovane di lui. La differenza è notevole e, in effetti, la situazione è un po’ ridicola; i due poi sembrano saperlo sin da subito, visto che cominciano con una gag che li vede finire a mollo.

Ford dichiarò che Wayne aveva chiesto al regista di scritturare la più matura Maureen O’Hara per la parte, ritenendola più adatta. Il regista rifiutò la richiesta all’amico, rispondendogli: “Sarai tu a dirle che è perfetta perché è vecchia?”. In realtà, evidentemente, il regista aveva intenzione di sminuire anche la figura dell’eroe americano che, in effetti, viene addirittura surclassato da Amelia in una gara di nuoto. Certo che se John Wayne si fa battere dalla mingherlina, seppur apprezzabile, Elizabeth Allen, vuol proprio dire che è finita l’era classica di Hollywood. Anche perché guardando Lee Marvin, impersonare il Re degli Stati Uniti potrebbe venire il dubbio di stare guardando un peplum di Cinecittà. Ma di quelli pacchiani.










Dorothy Lamour



Elizabeth Allen






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