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giovedì 4 agosto 2022

HOMEWARD

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1061_HOMEWARD . Ucraina, 2019;  Regia di Nariman Aliev.

Dal 24 febbraio 2022 è divenuto forse più chiaro che la questione della Crimea, annessa otto anni prima alla Federazione Russa con un colpo di mano da parte di Mosca, era stata al tempo sottovalutata. La situazione è controversa e varia a seconda di quale prospettiva si adotti – ucraina o russa – ma il film Homeward di Nariman Aliev ci ricorda che esiste anche un altro punto di vista da tener di conto quando si parla di Crimea. La penisola che si affaccia sul Mar Nero non è solo una strategica postazione geografica ideologicamente contesa da Mosca e Kiev; è anche la casa dei Tatari di Crimea, che ne rappresentano più del dieci percento della popolazione. Una percentuale minore, è vero, ma anche perché i Tatari di Crimea dal 1783, ovvero da quando la penisola è finita sotto l’influenza russa, ne hanno passate di ogni: persecuzioni, deportazioni, carestie e chi più ne ha più ne metta. Ottimisticamente i Tatari chiamarono quel periodo il secolo nero; ottimisticamente perché son passati già quasi 240 anni e ancora non si vede la luce in fondo al tunnel. In ogni caso il film di Aliev non affronta questi temi generali, essendo un insolito road movie particolarmente minimalista. Ma questi aspetti vanno tenuti a mente, perché ci sono utili per valutare opportunamente il significato, nel contesto dell’opera, del comportamento intransigente del protagonista del film, Mustafa (Akthem Seitablaev) un tataro di Crimea musulmano praticante. Mustafa non è un tipo simpatico: tutt’altro. Ma va detto che gli è appena morto Nazim, il primogenito, volontario nell’esercito ucraino nella guerra contro la Russia. 

In ogni caso il suo comportamento, la sua assurda idea di non lasciar seppellire il figlio a Kiev, ma di portarne in auto il cadavere in Crimea, per rispettare le usanze del suo popolo, appare totalmente irragionevole. In questa improbabile impresa, trasportare con l’auto un corpo che andrà presto in decomposizione, lo accompagna l’altro figlio, il minore, Alim (Remzi Bilyalov), che frequenta l’università e che sembra decisamente meno ottuso. Alim è infatti in buoni rapporti con la cognata Olesya (Dariya Barikhashvili), la moglie ucraina di Nazim verso cui diversamente Mustafa non fa nulla per nascondere il risentimento. Secondo la logica dell’uomo, infatti, la morte del figlio è da imputare alla donna: non avesse sposato lei, non si sarebbe impicciato nelle beghe ucraine; questo almeno quello che si può desumere dall’astioso atteggiamento di Mustafa. 

Astioso, ingiusto e irrispettoso, perché esclude di fatto sua nuora da qualsiasi possibilità di partecipare al funerale del marito, arrivando a chiuderla a chiave in una stanza pur di levarsela di torno. Alim, ragazzo dall’atteggiamento riservato, non è d’accordo e cerca di mantenersi in contatto, almeno telefonico, con Olesya. Di nascosto dal padre, ovviamente; durante il viaggio, quando questi se ne accorge, strappa il cellulare di mano al figlio e dal parapiglia che ne succede i due finiscono con l’auto addirittura fuori strada. Tanto per dire che razza di padre-padrone sia Mustafa. Come detto Homeward (titolo internazionale dell’opera che significa verso casa) è un road movie in cui padre e figlio trasportano con l’auto la salma del congiunto verso la Crimea, la loro terra. I problemi, alcuni dei quali di natura burocratica anche comprensibili, si susseguono, visto che non è che si possa andare in giro con un cadavere in un’automobile senza adeguate protezioni; d’altronde Mustafa non vuole sentire parlare di bare di zinco o cose simili. La citata uscita di strada costringe i nostri ad una sosta da un meccanico da cui si genera un altro contrattempo, ispirato dalla graziosa Masha (Veronika Lukyanenko) a cui Alim non riesce a resistere. La gita al fiume si trasformerà in un tentativo di rapina da parte di alcuni ragazzi ucraini, con alcuni passaggi narrativi ben incastonati dal regista che dimostra di conoscere l’arte di raccontare. Finalmente si arriva al confine ucraino ma non c’è modo di passare la frontiera con un morto in macchina: Mustafa, che oltretutto è gravemente malato, si altera ma i soldati ucraini non vogliono sentire ragioni. 

Ci pensa Alim, che da scettico nei confronti delle astruse intenzioni del genitore, si va via sempre più adeguando all’idea, con uno stratagemma a distrarre l’attenzione delle guardie di frontiera, e il blocco viene forzato. La penultima tappa è dal fratello di Mustafa, Refat (Akmal Gurezov), dove i nostri vengono accolti gelidamente dalla moglie di questi, Galina (Larysa Yatzenko). Ci si capirà poco, delle ragioni di questa ostilità della donna, se non che Mustafa, in passato, aveva avuto un comportamento non certo amichevole anche con lei. Insomma, non proprio una brava persona questo Mustafa che ora si prende tutta questa briga per seppellire secondo tradizione mussulmana il proprio figlio. E Alim, che è più aperto e istruito, non può non rendersene conto, nonostante si stia parlando di suo padre. 

E poi, ormai, anche Mustafa l’ha capito, di essere nel torto, con le sue assurde convinzioni, e decide, nonostante si sia sentito malissimo e sia ormai in fin di vita, di finire il viaggio da solo. Attraverserà il lago in barca con il figlio morto per raggiungere la terra dei suoi padri; mentre stava male, ha avuto l’umiltà di chiedere perdono a Galina e, per giunta, le ha raccomandato di prendersi cura di Alim, proprio a lei, la donna che al tempo aveva maltrattato. E’ notte, Mustafa con una barca a remi vuole portare Nazim in Crimea: viste le condizioni dell’uomo, è un’impresa impossibile. In soccorso arriva a nuoto Alim, per uno dei passaggi più evocativi trai tanti dispensati nel film, formalmente eccellente. E, successivamente a questo momento, il drammatico finale, magistralmente illustrato da altre immagini suggestive: sulla spiaggia, Alim intona la preghiera funebre tradizionale mentre trascina il cadavere di Nazim seguito da un Mustafa ormai alla fine della pista. Ne valeva la pena, verrebbe da chiedersi? Era così fondamentale ritornare proprio in Crimea per seppellire Nazim? Non lo si poteva seppellire a Kiev, come voleva Olesya, o anche vicino alla casa dello zio Refat, nella zona di confine, insieme ad altre tombe di famiglia? Era davvero necessario morire per compiere quest’impresa? Che poi, Mustafa, non era affatto sembrato un tipo così irreprensibile, visto che aveva costellato il racconto filmico con polemiche e liti con chiunque avesse incontrato. E allora perché Alim lo aveva alfine assecondato, finendo di compiere l’opera? Certo, era suo padre. Ma ormai, dopo la crisi in casa dello zio Refat, era evidente che sarebbe morto di lì a poco. 

Il regista, davvero bravissimo essendo oltretutto Homeward un’opera prima, ce lo fa capire, ad un certo punto fuori dalla casa di Refat, quando inquadra il cadavere di Nazim senza veli e, per un attimo, sembra che si tratti della salma di Mustafa. Mustafa muore di fatto quando chiede perdono a Galina e, sostanzialmente, Alin in Crimea si porta due cadaveri: fratello e padre. E, tornando alle domande sollevate precedentemente, fa benissimo ad andarci. Perché, e qui si arriva al punto, la Crimea è, e deve essere, di chi ci ha abitato, di chi la considera la propria terra. Sia che siano essi la maggioranza etnica, sia che siano la minoranza e sia che siano anche una sparuta minoranza, tipo il dieci per cento o anche meno. E sia che siano brave persone, emancipate, giuste; e sia che siano persone meno brave, meno emancipate e meno giuste, proprio come Mustafa. Che abbiano motivazioni valide, logiche, condivisibili o che non le abbiano, come il voler seppellire un morto che poteva anche essere seppellito a Kiev. Con buona pace di Putin, Mosca, Kiev o di chiunque voglia decidere dove si debba vivere e dove si debba morire e perfino dove si debba essere seppelliti.



Dariya Barikhashvili  


 
  Veronika Lukyanenko



Larysa Yatzenko


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