400_STEREO ; Canada, 1969. Regia di David Cronenberg.
Oggi, forse, la politica
degli autori, la corrente di critica cinematografica nata in Francia negli
anni cinquanta, è spesso usata a sproposito o altrimenti considerata superata. Ma
ci sono ancora casi in cui è utile, come strumento, per capire meglio l’opera
di un regista; o forse questo è solo un pretesto per apprezzare opere minori,
ancora grezze ed immature, di quegli autori che in seguito manifesteranno in
modo compiuto la propria arte. E’ chiaro, insomma, che Stereo, bizzarro e spiazzante lungometraggio d’esordio di David
Cronenberg, può interessare unicamente coloro i quali avranno apprezzato i
lavori, spesso capolavori, del maestro canadese. Stereo è però un film piuttosto anticonvenzionale, si può definire
al massimo un film d’avanguardia se
non proprio un film sperimentale, e
lo spettatore comune può restare facilmente basito e annoiato di fronte alle
immagini che scorrono sullo schermo. Cosa che succederà anche in seguito, con
alcuni film di Cronenberg, e quindi anche in questo senso Stereo si presenta come parte integrante della poetica dell’autore
e nient’affatto come corpo estraneo ad essa. Perché la cosa più evidente
nell’opera prima del regista (al netto dei cortometraggi in 16 mm ) è che ci
sono molti elementi che l’autore organizzerà in modo più comprensibile nei suoi
successivi lavori. Il problema principale di Stereo è che Cronenberg, già padrone in modo notevole della
capacità di messa in scena o di aspetti prettamente tecnici del cinema, non ha
la piena consapevolezza del meccanismo della comunicazione autore-pubblico. Non a caso, forse, il tema del racconto è la
telepatia, ovvero la capacità di intendersi in modo completo senza bisogno di
meccanismi artificiali come il linguaggio, che di fatto è eliminato dal film.
Stereo, infatti, non prevede l’uso di
dialoghi, i protagonisti non parlano mai, e il sonoro del film è affidato a
voci fuoricampo che descrivono la natura delle teorie e degli esperimenti condotti nella struttura,
l’Accademia Canadese della Ricerca
Erotica, dove è ambientata la vicenda. Già da questi primi elementi si può
scorgere la genialità del giovanissimo autore: da un limite, la rumorosità
della cinepresa a noleggio, l’idea di separare la traccia video da quella audio
(da qui il titolo dell’opera, Stereo),
che seguono percorsi diversi ma che contribuiscono a rendere il quadro
completo. Che, come si accennava prima, rimane troppo poco intellegibile per lo
spettatore comune: Cronenberg arriverà, nella sua ascesa professionale, fino ai
fasti di Hollywood (La Mosca , 1986), per
comprendere pienamente il meccanismo della comunicazione del media cinema, e forse solo
successivamente la sua arte si potrà dire pienamente consapevole. Perché l’idea
su cui si sviluppa Stereo, checché se
ne dica, è ottima e potrebbe essere ancora oggi una valida trama per una storia
fantascientifica. In un istituto di ricerche vengono isolati una manciata di
giovani elementi con facoltà telepatiche che non dovranno mai far ricorso
all’uso della parola tra loro ma comunicare mediante la telepatia, accentuata
da macchinari o sostanze chimiche.
Questo nell’ottica di comprendere quanto le
infrastrutture culturali, l’idea di famiglia, le differenze di ruoli sessuali,
possano incidere nella realizzazione di ognuno e, di riflesso, nello sviluppo
della società. Le teorie del dottor Luther Stringfellow, alla base del centro
di studi, ricorrono alla leva dell’attrazione sessuale per giustificare la
necessità di andare oltre i criteri di famiglia e del canonico ruolo del sesso
stesso. Del resto è stato quello stesso strumento, ovvero l’idea che il sesso
serva principalmente alla riproduzione, ad erigere l’eterosessualità come unica
condizione accettabile e la famiglia come risultato dei rapporti conseguenti.
Il personaggio principale del film è Ronald Mlodzik, icona gay canadese ed
effettivamente personaggio stravagante nonché di fattezze vagamente effeminate.
Il suo stile medioevale, nel contesto della struttura minimalista
dell’istituto, ne rincara l’effetto straniante e potenzialmente affascinante in
quanto altro, diverso.
Il suo arrivo scombussola gli equilibri, ed è proprio in
un ambito come quello dell’istituto scientifico del film, dove non si fa
ricorso alla parola ma i pensieri (e i desideri) sono condivisi dagli individui
in gioco, che si potrà valutare che ruolo abitualmente hanno la cultura e
l’educazione nel mortificare le vere ambizioni o le volontà profonde di ognuno.
Alla fine il risultato dell’esperimento sfugge però di mano ai ricercatori che decidono
così di separare i soggetti: ma è troppo tardi, in seguito a questo, due di
loro si suicidano. Nel finale, vediamo la ragazza bionda rincontrarsi nel
corridoio dell’istituto con il giovane aitante, quello con cui sembrava avere
più feeling; lui la scaccia in malo modo. Sono soggetti dotati di facoltà telepatiche e sono quindi in contatto tra loro; lui sa qualcosa che noi, che non possiamo leggere la mente altrui, non sappiamo.
La ragazza abbandonata dall’uomo, si
avvolge in un mantello nero come quello fin lì usato da Ronald. Sono forse
questi, i risultati rischiosi degli esperimenti dell’istituto? La personalità,
o parte di essa, di alcuni soggetti si è trasferita da un corpo all’altro, con
il catastrofico risultato di indurre al suicidio due di loro? E’ stata forse la
ragazza bionda ad indurre al suicidio i compagni, e per questo l’uomo l’ha
maltrattata? Questo non spiegherebbe il particolare del mantello. Allora è più
probabile che sia stata la personalità di Ronald a pervadere l’involucro fisico della donna, per
arrivare a giacere con l’aitante amante di lei.
Come si vede, comunque la si guardi, la struttura narrativa
alla base di Stereo non è affatto
banale e anzi presenta molti spunti interessanti. Il punto dolente è che, come
in parte esplicitato già dal titolo di natura metalinguistica, il film di
Cronenberg non si relaziona allo spettatore in qualità di canonico spettatore,
ma lo tratta come fosse una parte in causa dell’opera. Noi siamo come i
ricercatori che osservano gli sviluppi all’interno dell’istituto, con la
difficoltà che ci troviamo in un ambiente fortemente alieno, oggi potremmo dire
fortemente caratterizzato dalla sensibilità dell’autore. Un po’ come se ci
trovassimo, noi stessi, con una sorta di azione telepatica, nella testa di
Cronenberg.
E’ questo, in fondo, il vero motivo che rende Stereo un film a suo modo fondamentale, pur coi limiti citati: c’è
il primo, problematico fin che si vuole, tentativo dell’autore di integrarsi
con il suo pubblico. L’errore di Cronenberg è non rendersi conto che per lo
spettatore è impossibile compiere su due piedi l’operazione richiesta; per
questo, per apprezzare l’autore canadese, è indispensabile rispolverare la politique des auteurs, perché i suoi
intenti artistici sono molto elevati e richiedono tempo e costanza. In seguito,
Cronenberg per parlare della sua arte, farà l’esempio della presa elettrica: ci
sono tantissimi tipi di spine e non tutte sono compatibili con la tua presa.
L’arte è la capacità di rendere la tua presa accessibile a tutte le spine. Come
si vede, un intendimento opposto a quello che l’autore aveva messo in piedi con
Stereo, dove lo spettatore è
catapultato nell’universo croneneberghiano
senza nemmeno gli strumenti del cinema di
genere per orientarsi un minimo, come invece accade, ad esempio nei primi
suoi film horror. Tuttavia dal punto
di vista visivo, la purezza delle inquadrature geometriche, l’uso di
stratagemmi raffinati come il fermo-immagine
che simula una sorta di ralenti,
evidenziano già il talento tecnico di un autore che darà il suo meglio quando smetterà
i panni di esploratore cinematografico in luogo di quelli di artista di primo
livello.
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