392_L'IMPERATRICE CATERINA (Scarlett Empress), Stati Uniti 1934. Regia di Josef Von Sternberg.
Se, nei sette film girati insieme, nell’apparenza
cinematografica, la figura di Marlene Dietrich era servita al regista Josef Von
Sternberg per una sorta di celebrazione della divinità femminile, accanto a
questo innegabile e devoto approccio, il regista nato a Vienna se ne era
servito con uno scopo assai più approfondito. Nelle mani di Von Sternberg, la Dietrich era una chiave
per accedere alla più profonda natura umana, quella legata al desiderio, quella
che era in sostanza il motore di ogni attività dell’uomo. Questo aspetto era
alla base del primo film girato insieme, il magnifico L’angelo azzurro, dove una sconosciuta attrice tedesca, incarnando
perfettamente il desiderio umano più intimo, era divenuta Marlene Dietrich, la
diva. Un desiderio che pulsava nel profondo, talmente atavico da essere forse
antecedente al ‘dimorfismo culturale’
che, nella società umana, aveva enfatizzato quello sessuale. Le derive velatamente androgine della per altro
bellissima attrice erano perfette per stimolare un’attrazione sessualmente
indefinita: la cristallizzazione dell’essenza stessa del desiderio. In L’imperatrice Caterina Von Sternberg ci
porta all’origine di questo processo. La vicenda, che ha basi storiche legate
alle gesta di Caterina la
Grande di Russia, è ambientata nel ‘700: Sofia Federica (Marlene
Dietrich) è una principessina tedesca, educata in modo assai rigido nel
rispetto del suo ruolo femminile. La Dietrich ha 33 anni e, per interpretare una
ragazzina diligente che si prodiga in continui inchini e baciamani a tutti i
presenti a corte, deve fare appello alla propria ancora immacolata bellezza.
Ma
non sarebbe comunque abbastanza credibile se l’attrice, coadiuvata dalla messa
in scena del regista, non virasse in leggero tono di farsa il suo continuo
saltellare da una parte all’altra del palazzo di corte. Von Sternberg ottiene
qui un effetto doppio: riesce a spacciare un’attrice sulla trentina per una
ragazzina, mentre enfatizza gli aspetti assurdi e innaturali dell’educazione
femminile dell’epoca, per altro cruciali per definire le coordinate nel merito
ancora vigenti. A questo punto Sofia Federica viene mandata in Russia, in sposa
all’erede al trono Pietro III; qui, ad attenderla, troverà più che altro la
madre di questi, l’imperatrice Elisabetta (Louise Dresser). L’impatto è duro:
le viene cambiato il nome in Caterina, e si trova in una società molto più
grezza, arretrata, rispetto alla sua Germania. In Russia, nel XVIII secolo, il
compito della donna è essenzialmente quello di procreare, nello specifico della questione che stiamo seguendo, dando
un erede maschio all’impero russo.
Quella che Von Sternberg realizza è una
sorta di reazione chimica: una raffinata e diligente principessa, educata
secondo le moderne regole del 1700, viene messa in un contesto estremamente
brutale ed arretrato. Il risultato è che Caterina, spogliata delle
infrastrutture culturali della sua educazione, ricorre alle sue naturali doti
che fanno spudoratamente leva sul desiderio sessuale che induce in quanto
femmina di splendido aspetto. La femminilità è quindi una forma di potere per
Caterina ma, a questo punto, il potere che appunto ne ricava le permette una
risolutezza nelle decisioni da prendere che le conferiscono al contempo la
solita (per la Dietrich )
matrice androgina.
Ma è una risolutezza che deriva dalla consapevolezza del
proprio fascino; quindi, quelle che sono abitualmente riconosciute come
connotazioni tipicamente maschili e femminili sono strettamente interconnesse. La
scena nel finale in cui cavalca in uniforme bianca, bellissima e sensuale ma
spavaldamente vestita come un soldato tra i soldati, è emblematica in tal
senso. Von Sternberg immerge questo suo particolare approfondimento in una
messa in scena grottesca, simbolica, carica di elementi decorativi; le sue
tipiche dissolvenze sono utilizzate sia per sfumare i contorni del racconto, ma
anche per indurre suggestioni oniriche e ipnotiche.
La narrazione visiva sembra
far quasi ricorso agli stilemi del cinema muto, tant’è che c’è un largo uso di
didascalie che scandiscono il racconto. In tale flusso quasi astratto di
immagini, la Dietrich
si destreggia bene, dopo la prima fase da ingenua fanciulla si mostra via via
sempre più sicura del fatto suo, e la sua presenza scenica è naturalmente in
sintonia con il tenore enfatizzato ed estremo della resa visiva. Von Sternberg,
infatti, non si pone alcun limite, L’imperatrice
Caterina è, dei suoi film interpretati dalla Dietrich, certamente il più
delirante nei suoi eccessi grotteschi: le inquietante statue disseminate per tutte
le scenografie, i dipinti, le icone, ma anche alcuni personaggi, come il
granduca Pietro III (Sam Jaffe), vero e proprio freak, a cui fa da contrasto la sciatta, banale e rozza imperatrice
Elisabetta.
Per l’atmosfera che regna sulle immagini, sembra davvero di essere
in un laboratorio a metà tra quelli degli scienziati pazzi dei film dell’orrore
e quelli degli antichi alchimisti. Il distillato che alla fine Josef Von
Sternberg ne ricava è il desiderio al netto di genere sessuale, cultura,
condizione sociale, periodo storico.
Il desiderio allo stato puro: Marlene Dietrich.
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