Translate

mercoledì 7 agosto 2019

ANASTASIA

391_ANASTASIA , Stati Uniti 1956Regia di Anatole Litvak.

Il tema dell’ambiguità è al centro della vicenda raccontata in Anastasia, la storia assai nota della principessa russa smemorata. Gli artisti coinvolti, direttamente o indirettamente, nella realizzazione del film del 1956, dagli autori della pièce teatrale alla base del soggetto, Marcelle Maurette e Guy Bolton, allo sceneggiatore Arthur Laurents, fino naturalmente al bravissimo regista Anatole Litvak, fanno un lavoro egregio trasformando una questione dai vaghi contorni storici in un testo strutturato in modo molto interessante. Ma è giusto dare spazio innanzitutto al lato spettacolare dell’opera, su cui la produzione non ha lesinato spese, regalandoci un autentico kolossal storico. La vicenda è ambientata a Parigi nel 1928: alcuni esuli russi, tra cui il generale Bounine (Yul Brinner, perfetto nella parte) cercano disperatamente la principessa Anastasia, erede dei Romanov, la dinastia reale russa. Girava voce, al tempo, che la principessa fosse l’unica sopravvissuta all’eccidio della famiglia reale avvenuto durante la rivoluzione; in realtà a Bounine e ai suoi soci interessa unicamente l’eredità dei Romanov, custodita a Londra, ma per accedervi serve una discendente riconosciuta pubblicamente come tale. Entra in scena così la protagonista della nostra storia, Anna Korev (una straordinaria Ingrid Bergman, premio Oscar per questa interpretazione), una smemorata, folle, sbandata, vagamente somigliante alla descrizione della nobile rampolla, che i nostri simpatici esuli cercano di far passare per Anastasia. 


Si comincia quindi con un indottrinamento forzato per creare una credibile principessa che, pur tra le traversie che possa aver subito, convinca i nobili russi e soprattutto l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Helen Hayes); in fondo è passata una decina d’anni, eventuali differenze potrebbero essere anche comprensibili. E, come detto, dopo il suo pubblico e fondamentale riconoscimento, gli averi dei Romanov custoditi in Inghilterra tornerebbero a disposizione, con lauta ricompensa per Bounine e i suoi collaboratori. Anna è dapprima un’allieva difficile, poi la sua capacità di interpretare il ruolo di principessa supera ogni rosea previsione, anche perché comincia a ricordare… che sia davvero lei, Anastasia?  
Su questo dubbio poggiano i maggiori motivi che stimolano l’interesse dello spettatore, ma Litvak e i suoi collaboratori imbastiscono a supporto anche un valido intreccio melodrammatico, tra Anna/Anastasia, il principe Paul (Ivan Desny) e Bounine, che vanno a comporre il classico triangolo sentimentale. La storia prende subito, grazie anche al prezioso lavoro svolto in tema di alleggerimento umoristico dalle comparse: la baronessa Von Livenbaum (Martita Hunt), Chernov (Akim Tamiroff) e Petrovin (Sacha Pitoëff) non fanno certo sbellicare dalle risate, ma stemperano i toni, smorzandone gli eccessi melodrammatici. 
Un lavoro notevole lo fa il regista di origine ucraina con una messa in scena sontuosa che rispetta l’impostazione teatrale ma ne aumenta la grandiosità, utilizzando anche gli scenari in esterni con una capacità compositiva dell’immagine che ha pochi eguali. La matrice teatrale mantenuta vivida anche nelle riprese in esterni non è un vezzo di Litvak: sottolinea piuttosto la predestinazione della protagonista, nell’ottica che abbia sangue regale, e di tutta quanta la vicenda stessa. Una predestinazione, in entrambi i casi, poi smentita dal sorprendente e progressista, si potrebbe quasi definire democratico, finale. 
Tutta la storia, tutte le difficoltà da superare, le diffidenze e lo scetticismo da vincere, sembrano infatti una sorta di percorso che porti Anastasia verso il premio finale, il riconoscimento come erede dei Romanov. Una questione che ha un motore molto borghese, il denaro dei Romanov ambito dagli esuli, sembra così, molto romanticamente, sfociare in una storia d’amore d’altri tempi. Nostalgia dell’epoca delle grandi monarchie: nel corso del film, l’ambientazione si trasferisce, in effetti, dalla repubblicana Francia al Regno di Danimarca. 
L’imperatrice madre sembra così quasi incarnare lo spirito della vicenda, con la sua diffidenza verso quella che potrebbe essere unicamente l’ennesima impostora non di sangue blu e, successivamente, la felicità per la nipote di stirpe reale ritrovata. E il sentimento dell’anziana sovrana è talmente forte da mettere in secondo piano la citata questione economica. Ma, a sorpresa, a questo punto, quando tutta quanta la trama formalmente ben imbastita, sia dentro la storia raccontata, (dalla ricerca fino al riconoscimento di Anastasia), sia in senso cinematografico, (la messa in scena sontuosa e teatrale di Litvak), ha preparato il gran finale, la cerimonia del pubblico riconoscimento, questo viene sottratto alla storia dalla vera forza dirompente dell’opera. Ed, essendo Anastasia un melodramma, questa forza non può che essere l’amore. L’amore tra Anna/Anastasia, (una popolana o una principessa?) e Bounine (un militare). 
Un amore che, in ogni caso, è trasversale alle classi sociali, e quindi moderno, ma è talmente vero e genuino, in modo molto più certo dell’identità regale della protagonista del film, che viene accettato anche dall’imperatrice madre; una donna che, si è potuto costatare, sopra ogni cosa disprezza la falsità. E anche lei non può convenire che il finale mancato, la fuga d’amore nascosta ai suoi e ai nostri occhi, è la chiusura perfetta per una storia e per un film che è stato una rappresentazione superficiale, formalmente impeccabile, ma priva di contenuti. 
Un po’ come la presunzione divina delle teorie monarchiche; tanta forma, poca sostanza. Litvak riesce, quindi, a rispettare i canoni di una storia con queste coordinate, compensando la vacuità della questione con la confezione formale della messa in scena e le interpretazioni degli attori (Bergman in testa), mentre colma lo spazio vuoto intrinseco con la storia d’amore tra Bounine e Anastasia. Una storia d’amore invisibile, nel film: in origine tra i due, non c’è questo gran feeling, poi cominciano volontariamente ad evitarsi. La chiusura con il finale mancato, che viene giustamente meno proprio per contrasto al tenore della storia, è il perfetto epilogo per una vicenda basata sull’ambiguità dell’apparenza. Cinematograficamente ben illustrata, ben mostrata, ha per argomento un tentativo di ingannare le apparenze, in un mondo, quello dell’aristocrazia, fondato su teorie, le dinastie, il sangue blu, concrete quanto l’apparenza stessa.
Cose a cui l’amore, quello vero, è del tutto indifferente. Come del resto si rimane alla domanda che rimane un po’ sospesa: ma in fin dei conti, la protagonista è Anna o Anastasia?
Mah, l’importante è che sia Ingrid Bergman. 



Ingrid Bergman





Nessun commento:

Posta un commento