391_ANASTASIA , Stati Uniti 1956. Regia di Anatole Litvak.
Il tema dell’ambiguità è al centro della vicenda raccontata
in Anastasia, la storia assai nota
della principessa russa smemorata. Gli artisti coinvolti, direttamente o
indirettamente, nella realizzazione del film del 1956, dagli autori della pièce teatrale alla base del soggetto,
Marcelle Maurette e Guy Bolton, allo sceneggiatore Arthur Laurents, fino
naturalmente al bravissimo regista Anatole Litvak, fanno un lavoro egregio
trasformando una questione dai vaghi contorni storici in un testo strutturato
in modo molto interessante. Ma è giusto dare spazio innanzitutto al lato
spettacolare dell’opera, su cui la produzione non ha lesinato spese,
regalandoci un autentico kolossal storico. La vicenda è ambientata a Parigi nel
1928: alcuni esuli russi, tra cui il generale Bounine (Yul Brinner, perfetto
nella parte) cercano disperatamente la principessa Anastasia, erede dei
Romanov, la dinastia reale russa. Girava voce, al tempo, che la principessa
fosse l’unica sopravvissuta all’eccidio della famiglia reale avvenuto durante
la rivoluzione; in realtà a Bounine e ai suoi soci interessa unicamente l’eredità
dei Romanov, custodita a Londra, ma per accedervi serve una discendente
riconosciuta pubblicamente come tale. Entra in scena così la protagonista della
nostra storia, Anna Korev (una straordinaria Ingrid Bergman, premio Oscar per
questa interpretazione), una smemorata, folle, sbandata, vagamente somigliante
alla descrizione della nobile rampolla, che i nostri simpatici esuli cercano di
far passare per Anastasia.
Si comincia quindi con un indottrinamento forzato per
creare una credibile principessa che,
pur tra le traversie che possa aver subito, convinca i nobili russi e
soprattutto l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Helen Hayes); in fondo è
passata una decina d’anni, eventuali differenze potrebbero essere anche
comprensibili. E, come detto, dopo il suo pubblico e fondamentale
riconoscimento, gli averi dei Romanov custoditi in Inghilterra tornerebbero a
disposizione, con lauta ricompensa per Bounine e i suoi collaboratori. Anna è
dapprima un’allieva difficile, poi la sua capacità di interpretare il ruolo di
principessa supera ogni rosea previsione, anche perché comincia a ricordare…
che sia davvero lei, Anastasia?
Su
questo dubbio poggiano i maggiori motivi che stimolano l’interesse dello
spettatore, ma Litvak e i suoi collaboratori imbastiscono a supporto anche un
valido intreccio melodrammatico, tra Anna/Anastasia, il principe Paul (Ivan
Desny) e Bounine, che vanno a comporre il classico triangolo sentimentale. La
storia prende subito, grazie anche al
prezioso lavoro svolto in tema di alleggerimento umoristico dalle comparse: la
baronessa Von Livenbaum (Martita Hunt), Chernov (Akim Tamiroff) e Petrovin
(Sacha Pitoëff) non fanno certo sbellicare dalle risate, ma stemperano i toni,
smorzandone gli eccessi melodrammatici.
Un lavoro notevole lo fa il regista di
origine ucraina con una messa in scena sontuosa che rispetta l’impostazione
teatrale ma ne aumenta la grandiosità, utilizzando anche gli scenari in esterni
con una capacità compositiva dell’immagine che ha pochi eguali. La matrice
teatrale mantenuta vivida anche nelle riprese in esterni non è un vezzo di
Litvak: sottolinea piuttosto la predestinazione della protagonista, nell’ottica
che abbia sangue regale, e di tutta quanta la vicenda stessa. Una
predestinazione, in entrambi i casi, poi smentita dal sorprendente e
progressista, si potrebbe quasi definire democratico,
finale.
Tutta la storia, tutte le difficoltà da superare, le diffidenze e lo
scetticismo da vincere, sembrano infatti una sorta di percorso che porti
Anastasia verso il premio finale, il riconoscimento come erede dei Romanov. Una
questione che ha un motore molto
borghese, il denaro dei Romanov ambito dagli esuli, sembra così, molto
romanticamente, sfociare in una storia d’amore d’altri tempi. Nostalgia
dell’epoca delle grandi monarchie: nel corso del film, l’ambientazione si
trasferisce, in effetti, dalla repubblicana Francia al Regno di Danimarca.
L’imperatrice madre sembra così quasi incarnare lo spirito della vicenda, con
la sua diffidenza verso quella che potrebbe essere unicamente l’ennesima impostora non
di sangue blu e, successivamente, la
felicità per la nipote di stirpe reale ritrovata. E il sentimento dell’anziana
sovrana è talmente forte da mettere in secondo piano la citata questione
economica. Ma, a sorpresa, a questo punto, quando tutta quanta la trama formalmente ben imbastita, sia
dentro la storia raccontata, (dalla ricerca fino al riconoscimento di Anastasia),
sia in senso cinematografico, (la messa in scena sontuosa e teatrale di Litvak),
ha preparato il gran finale, la cerimonia del pubblico riconoscimento, questo
viene sottratto alla storia dalla vera forza dirompente dell’opera. Ed, essendo
Anastasia un melodramma, questa forza
non può che essere l’amore. L’amore tra Anna/Anastasia, (una popolana o una
principessa?) e Bounine (un militare).
Un amore che, in ogni caso, è
trasversale alle classi sociali, e quindi moderno, ma è talmente vero e
genuino, in modo molto più certo dell’identità regale della protagonista del
film, che viene accettato anche dall’imperatrice madre; una donna che, si è
potuto costatare, sopra ogni cosa disprezza la falsità. E anche lei non può
convenire che il finale mancato, la fuga d’amore nascosta ai suoi e ai nostri
occhi, è la chiusura perfetta per una storia e per un film che è stato una
rappresentazione superficiale, formalmente impeccabile, ma priva di contenuti.
Un po’ come la presunzione divina delle teorie monarchiche; tanta forma, poca
sostanza. Litvak riesce, quindi, a rispettare i canoni di una storia con queste
coordinate, compensando la vacuità della questione con la confezione formale
della messa in scena e le interpretazioni degli attori (Bergman in testa), mentre
colma lo spazio vuoto intrinseco con la storia d’amore tra Bounine e Anastasia.
Una storia d’amore invisibile, nel film: in origine tra i due, non c’è questo
gran feeling, poi cominciano volontariamente ad evitarsi. La chiusura con il
finale mancato, che viene giustamente meno proprio per contrasto al tenore
della storia, è il perfetto epilogo per una vicenda basata sull’ambiguità
dell’apparenza. Cinematograficamente ben illustrata, ben mostrata, ha per
argomento un tentativo di ingannare le apparenze, in un mondo, quello dell’aristocrazia,
fondato su teorie, le dinastie, il sangue blu, concrete quanto l’apparenza stessa.
Cose a cui l’amore, quello vero, è del tutto indifferente.
Come del resto si rimane alla domanda che rimane un po’ sospesa: ma in fin dei
conti, la protagonista è Anna o Anastasia?
Mah, l’importante è che sia Ingrid Bergman.
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