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martedì 27 agosto 2019

IL GRANDE CALDO

401_IL GRANDE CALDO (The Big Heat); Stati Uniti, 1953Regia di Fritz Lang.

Capolavoro assoluto del cinema, Il grande caldo rappresenta uno degli apici del periodo americano di Fritz Lang. Nel 1953, dopo la sosta forzata per via dell’ingiusta accusa di svolgere attività antiamericane, legata alle famose liste nere del famigerato senatore McCarthy, il geniale autore aveva già diretto, seppur un po’ sbrigativamente, il valido Gardenia Blu. Nel film serpeggiava una certa critica corrosiva alla società americana, forse in parte influenzata dalle suddette traversie. E’ quindi solo con il successivo Il grande caldo che Lang può finalmente ritornare al lavoro dietro la macchina da presa con la giusta predisposizione: per dirigere un grandissimo noir, e questo non è certo una novità, ma descrivendo contemporaneamente il paese che lo ospita ormai da anni, gli Stati Uniti, con uno sguardo più lucido e implacabile del solito. Ora, Lang, anche e soprattutto grazie alla vicenda MaCarthy, si era potuto fare un’idea più completa, di come funzionassero le cose in America. Certo, appena giunto dalla Germania nazista doveva essergli sembrata una sorta di paradiso: adesso sapeva di quanto si fosse sbagliato. Si è detto dei problemi avuti dal regista: forse in ossequio a quelli, il suo produttore Robert Arthur gli scrisse di attenersi scrupolosamente al codice Hays che Joseph Breen si premurava di far rispettare rigorosamente ad Hollywood. E’ in parte a queste raccomandazioni, unite a due fattori messi in campo dall’autore nato a Vienna, che dobbiamo come risultato un film di una durezza spaventosa, pur in una confezione impeccabile. 
Lang, in parte preoccupato di non incorrere in nuove noie, ma presumibilmente anche piccato da queste continue ingerenze piuttosto insulse, sfodera tutto il suo talento per rimanere nei limiti del codice di censura ma, proprio grazie alla sua geniale intelligenza, spinge oltre il limite la violenza intrinseca al suo film e, in modo meno diretto, muove una pesante critica alla società americana. Quest’operazione si traduce non solo negli atti espliciti mostrati sullo schermo che, quando ci sono, sono formalmente contenuti, ma anche in quelli indotti grazie alla sublime capacità comunicativa del regista. Già la prima sequenza, che oltretutto è un passaggio da manuale, è emblematica dell’abilità di Lang di suggerire senza di fatto mostrare. Nell’incipit del film viene lasciato intendere, senza che sia ovviamente filmato in modo diretto, il suicidio di un sergente di polizia. 
La composizione della scena è perfetta; una lettera e il distintivo appoggiati sulla scrivania, in breve si avrà la conferma che il poliziotto si è suicidato in preda al rimorso. Il che sottintende, di conseguenza, che fosse corrotto. Pochi istanti, e già un colpo assestato ad una delle istituzioni americane più rispettate, almeno al cinema. Ma Lang non concede scampo: al colpo di pistola, sopraggiunge Bertha Duncan (Jeanette Nolan), la moglie del sergente, che non sembra preoccuparsi troppo del marito morto ma è piuttosto interessata alla suddetta lettera. A quel punto la donna contatta Mike Lagana (Alexander Scourby), il mafioso della città, per imbastire un'evidente sorta di ricatto. E anche la famiglia, tra le istituzioni americane, si prende quindi la sua parte: Bertha tutto sembra tranne che una vedova addolorata; e neppure ricorda una donna onesta, per la verità. 
Ma questo è semplicemente l’inizio, una sorta di carica del meccanismo che Lang arma, e che poi, quasi di inerzia, lentamente, rilasciandosi, produce tutti gli effetti a catena che vedremo svilupparsi nel lungometraggio. Questo preambolo permette di vedere molti dei personaggi: di alcuni si è detto, ma poi facciamo conoscenza col gangster Vince Stone (un allucinato Lee Marvin), il suo scagnozzo Larry Gordon (Adam William), ma soprattutto la donna del bandito, quella che scopriremo essere la vera protagonista del film, Debbie, (una straordinaria Gloria Grahame). Perché in prima istanza, e anche ufficialmente, il protagonista è il sergente Dave Bannion (Glenn Ford, in una delle sue migliori interpretazioni), incaricato di indagare sul suicidio del collega. A quel punto, il film, sembra quasi concedersi una sorta di pausa: Bannion indaga, sospetta, intuisce, e viene redarguito dal suo capo, il tenente Wilks (Willis Bouchey), perché sta curiosando troppo. 

Lang approfitta di questa fase interlocutoria per dare uno sguardo alla vita famigliare di Bannion: le innocenti schermaglie scherzose con la dolce moglie Katie (Jocelyn Brando) o i passaggi teneri con la figlioletta. Il regista ci mostra quindi quello che è possibile nella liberale società americana, una vita serena, felice, pacifica; a patto di stare al tuo posto e soprattutto di stare al gioco, che tanto liberale non è. L’insoddisfazione di Bannion è via via sempre più crescente, per via dei continui richiami dei superiori o delle velate minacce dell’ambiente in cui si muove nella sua indagine. Nel frattempo, visivamente, Lang alimenta la tensione sotterranea al suo film con passaggi di grandissima efficacia. Quando viene trovata morta Lucy (Dorothy Green), non ne viene mostrato il cadavere ma, dal dialogo, emerge che è stata torturata visto che il corpo mostra bruciature di sigarette. 
In quel momento Bannion spegne la sua nel posacenere del tenente premendo con insistenza, veicolando l’immagine della tortura subita dalla povera Lucy. Presto si capirà che il responsabile è Vince, le scottature inflitte alle donne sono il suo marchio: lo vedremo spegnere il sigaro sul polso della povera Doris (una delicata e deliziosa Carolyn Jones), in uno dei passaggi violenti mostrati in modo esplicito; e, successivamente, farà di peggio alla povera Debbie in una delle scene più famose della storia del cinema. Ma siamo ancora alla quiete che precede la tempesta, quella fase in cui la violenza corre sottotraccia, è indotta ma, a parte qualche accenno come quello allusivo delle bruciature di sigaretta (siamo pur sempre in un crime-movie, sarebbe quindi lecito attendersi ben di peggio) non si manifesta in modo compiuto. 


Lo stato di tensione è sostenuto a vari livelli: nel merito specifico della storia raccontata sullo schermo con il contrasto tra l’idillio famigliare di Bannion e l’ambiente circostante corrotto, dal lavoro alla società in generale; in senso assoluto per il grado di immoralità diffuso, con le ragazze marchiate a fuoco come bestiame o le autorità che si sottomettono alla criminalità. E, contemporaneamente, da un punto di vista registico, tramite i dialoghi, secchi, senza fronzoli, con Bannion che non dice mai una parola fuori posto ma inchioda l’interlocutore di turno con battute senza possibilità di replica e con tutta quanta la messa in scena complessiva: la fotografia (Charles Lang Jr.) un bianco e nero limpido e documentaristico che lascia però intravvedere l’eredità espressionista e le inquadrature rigorose, con una composizione accurata di ogni minimo dettaglio della scena. Chissà che i sei mesi in cui il giovane Fritz Lang aveva studiato architettura non abbiano qualche eco nella sublime capacità del maestro di illustrare le ambientazioni d’interno dei suoi lungometraggi. Il colpo di scena che spacca letteralmente in due il film è un altro passaggio magistrale, tenuto addirittura fuori scena in senso superficialmente letterale, ma quasi preannunciato, dalla situazione generale e dal ricamo narrativo in cui si evidenzia l’occasionalità del fatto che sia Katie e non il marito ad andare all’automobile. 

L’esplosione dell’auto, che entra visivamente nell’inquadratura dai vetri della finestra, arriva quasi prevista, con il tempismo perfetto del meccanismo narrativo per cui il colpo di scena, dopo che è avvenuto, sembrava tanto atteso da essere prevedibile. In questo modo l’enfasi è amplificata, perché allo spavento si è sommata una suspense crescente pur se quasi inconscia. Questo passaggio divide in due il film: il tema della divisione interiore, della presenza di male e bene nello stesso individuo, è centrale in Lang ma soprattutto ne Il grande caldo. D’ora in avanti Bannion getta la maschera di persona recalcitrante ma diligente e sfodera una determinazione che lo porterà vicino alla totale perdizione. Ma non è lui, si diceva, il vero protagonista del film. 

Perché dall’esplosione in poi tornano prepotentemente al centro della scena i criminali della storia e, totalmente in modo inaspettato, a prendersi gli onori di vera protagonista è Debbie, la pupattola senza cervello di Vince. Donna effettivamente frivola, affascinata dalla brutalità del suo macho, rimane colpita quando questi abbassa le penne e se la fila di fronte ad un Bannion ormai senza controllo. Il suo interesse per il sergente sembra in parte della stessa natura di quello che la lega a Vince: alla fine è stato uno scontro di forza tra i due uomini, e il vincente è stato Bannion. Ma è anche vero che il poliziotto è entrato in azione quando il gangster se l’è presa con la povera Doris. 


Qualcosa, e la Grahame è strepitosa in questo senso, sembra cominciare a mulinare nella graziosa testolina di Debbie: non è che sia un genio, ma forse è la prima volta che vede qualcuno fare qualcosa di giusto, e trova così una sorta di conferma ai propri mal di stomaco, che le procura vivere con una bestia come Vince. Il passo decisivo la induce a farlo proprio il criminale, nella scena più famosa del film, quella del caffè bollente sul viso della ragazza: scena che doppia, ribadendo il tema speculare dell’opera, il significato del titolo. The Big Heat è un termine gergale della malavita, per intendere un elevarsi del grado di attenzione da parte della polizia nei confronti della criminalità, ma qui è chiaro anche un riferimento al passaggio cruciale del lungometraggio. 


Perché l’ustione ai danni di Debbie è una svolta, che doppia quella dell’esplosione dell’auto di Bannion, un ulteriore momento caldo, ancora una volta tenuto fuori dallo schermo e ancora più importante del precedente. Perché se il primo passaggio aveva spinto il sergente oltre il limite, sul punto di uccidere a sangue freddo una donna, la vedova Duncan, sarà solo grazie al secondo che Debbie deciderà di porre rimedio alla propria frivola condotta, addossandosi le responsabilità delle azioni necessarie e salvando, di conseguenza, la moralità di Bannion. E’ chiaro, c’è un nesso tra la svolta morale di Debbie e la perdita della bellezza: ora che è una donna sfregiata, non può più essere la pupa del gangster, e quindi ecco un concreto incentivo alla sua redenzione. 


Ma non ci si può certo aspettare che proprio Lang bari su questo terreno: solo il dolore, la disperazione, la perdita della bellezza, la rabbia, la voglia di vendicarsi, possono essere il combustibile che Debbie trasforma in un’azione moralmente giusta, anche se estrema. Di fatto, nella migliore scena del film (costituito, come intuibile, da un succedersi continuo di sequenze d’alta scuola) Debbie si presenta a tu per tu con la vedova Duncan. Il confronto tra le due donne è il vero punto nevralgico ma, prima di arrivarci, vale la pena soffermarsi sulla sublime capacità di Lang di preparare in modo sottile le svolte decisive del suo racconto. Il maestro non si limita a mostrare le immagini del suo film ma, giocando in anticipo con l’immaginazione dello spettatore, può alimentare ora la suspense ora la sorpresa degli avvenimenti. 

Bannion è appena andato a trovare la sua bambina, sorvegliata dal cognato e da alcuni ex commilitoni; sul portone incontra il tenente Wilks e il collega Gus (Robert Burton), che offrono la loro collaborazione nella protezione della piccola. Prima di congedarsi chiedono al sergente se ha bisogno di compagnia: Bannion rifiuta, e allo spettatore non può non venire in mente che, nella camera accanto a quella del poliziotto, ha trovato rifugio la povera Debbie, dopo lo sfregio subito. Bannion ha già compagnia. Poi Gus arriva al dunque: al comando devono aver saputo che Bannion ha quasi strozzato a mani nude la signora Duncan: l’uomo chiede al collega se intende tornare dalla vedova. Bannion risponde di no. Stacco, un campanello suona, una donna in pelliccia di visone (Debbie?) scende da una scalinata di quella che sembra essere casa Duncan: ma cosa ci fa Debbie a casa della vedova? 

Calma, quella che scende dalle scale impellicciata non è Debbie, ma appunto la signora Duncan, che si reca alla porta, dove stanno suonando. E’ Debbie. Le due donne, evocate dal dialogo precedente, si ritrovano ora specularmente faccia a faccia, vestite in modo uguale; la cosa è anche notata dall’ex ragazza del gangster. Sono davvero una lo specchio dell’altra: la vedova rispettabile, è moralmente corrotta; la poco di buono, è ora decisa a riscattare la propria coscienza. Uguali e contrarie. Il passaggio in cui Debbie uccide a sangue freddo la vedova è un po’ forte, è vero, e certamente eticamente condannabile. Ma, sembra dirci Lang, è l’unico modo per cui il marcio non prevalga: difficile essere d’accordo alla lettera su questo passaggio, ma sembra piuttosto essere l’espiazione di Debbie che accetta di assumersi questo compito ingrato, diventare un’assassina, pur di non vederlo ricadere sull’eroe onesto della storia, Bannion. 


Per comprendere bene questa delicata svolta narrativa può aiutare il costatare che nel film non c’è una storia d’amore tra Debbie e Bannion. La ragazza non si innamora del poliziotto, non compie il suo gesto per amore; il suo è un gesto morale, Debbie vuole riscattare la sua vita evitando che quella di Bannion venga rovinata da un gesto tanto condannabile. L’attenzione di Debbie non è più si di sé, lei sa bene di essere rovinata, e lo sfregio sul viso ne è solo la manifestazione esteriore, ma è affascinata dalla vita normale, onesta, di Bannion. Per questo chiede insistentemente della moglie Katie al poliziotto: quello che l’affascina non è l’uomo, ma l’amore che quest’uomo provava per la moglie, un sentimento che nessuno ha mai provato per lei. 
In questo elogio alla normalità della vita famigliare americana, ci si potrebbe leggere una luce positiva, nel film di Lang, se non fosse che è uno sguardo al passato, a qualcosa che non c’è più, (la moglie morta) e che non può accadere tra i due personaggi principali del film, Bannion e Debbie. Inoltre, la critica alla società americana è enorme, sebbene poi ci sia qualche buffetto positivo, come i due poliziotti che solidarizzano con Bannion nel finale: il commissario di polizia (Howard Wendell) asservito alla mala, il sergente suicida in preda ai rimorsi, la vedova che approfitta della situazione per ricattare Lagana, lo stesso Lagana che è un personaggio rispettabile; in effetti è solo con un colpo di pistola ben assestato che tutto il castello di corruzione può cadere. E il fatto che il confronto decisivo sia risolto da donna a donna, sebbene risolto nella maniera più maschile possibile, ossia con una sorta di duello western, è forse l’intuizione che alimenta le speranze che possa cambiare qualcosa nella società americana. L’assunzione cioè di una maggior importanza della figura femminile; evoluzione cominciata concretamente durante la guerra e, negli anni 50, ancora in pieno divenire. Il genio di Lang sembra dunque lasciarci qualche speranza, (il riscatto di Debbie, la fine dell’impero di Lagana), ma sappiamo quanto al maestro piaccia prepararsi il terreno. Che futuro può esserci, passando attraverso l’omicidio, la violenza? Forse, il riscatto di Debbie è in realtà il sipario definitivo sul futuro morale dell’America. 








Gloria Grahame






     

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