401_IL GRANDE CALDO (The Big Heat); Stati Uniti, 1953. Regia di Fritz Lang.
Capolavoro assoluto del cinema, Il grande caldo rappresenta uno degli apici del periodo americano
di Fritz Lang. Nel 1953, dopo la sosta forzata per via dell’ingiusta accusa di
svolgere attività antiamericane, legata alle famose liste nere del famigerato senatore McCarthy, il geniale autore
aveva già diretto, seppur un po’ sbrigativamente, il valido Gardenia Blu. Nel film serpeggiava una
certa critica corrosiva alla società americana, forse in parte influenzata dalle
suddette traversie. E’ quindi solo con il successivo Il grande caldo che Lang può finalmente ritornare al lavoro dietro
la macchina da presa con la giusta predisposizione: per dirigere un grandissimo
noir, e questo non è certo una
novità, ma descrivendo contemporaneamente il paese che lo ospita ormai da anni,
gli Stati Uniti, con uno sguardo più lucido e implacabile del solito. Ora,
Lang, anche e soprattutto grazie alla
vicenda MaCarthy, si era potuto fare un’idea più completa, di come
funzionassero le cose in America. Certo, appena giunto dalla Germania nazista doveva
essergli sembrata una sorta di paradiso: adesso sapeva di quanto si fosse
sbagliato. Si è detto dei problemi avuti dal regista: forse in ossequio a
quelli, il suo produttore Robert Arthur gli scrisse di attenersi
scrupolosamente al codice Hays che Joseph Breen si premurava di far rispettare
rigorosamente ad Hollywood. E’ in parte a queste raccomandazioni, unite a due
fattori messi in campo dall’autore nato a Vienna, che dobbiamo come risultato
un film di una durezza spaventosa, pur in una confezione impeccabile.
Lang, in
parte preoccupato di non incorrere in nuove noie, ma presumibilmente anche
piccato da queste continue ingerenze piuttosto insulse, sfodera tutto il suo
talento per rimanere nei limiti del codice di censura ma, proprio grazie alla
sua geniale intelligenza, spinge oltre il limite la violenza intrinseca al suo
film e, in modo meno diretto, muove una pesante critica alla società americana.
Quest’operazione si traduce non solo negli atti espliciti mostrati sullo
schermo che, quando ci sono, sono formalmente contenuti, ma anche in quelli indotti
grazie alla sublime capacità comunicativa del regista. Già la prima sequenza, che
oltretutto è un passaggio da manuale, è emblematica dell’abilità di Lang di suggerire senza di fatto mostrare.
Nell’incipit del film viene lasciato intendere, senza che sia ovviamente filmato
in modo diretto, il suicidio di un sergente di polizia.
La composizione della
scena è perfetta; una lettera e il distintivo appoggiati sulla scrivania, in
breve si avrà la conferma che il poliziotto si è suicidato in preda al rimorso.
Il che sottintende, di conseguenza, che fosse corrotto. Pochi istanti, e già un
colpo assestato ad una delle istituzioni americane più rispettate, almeno al cinema.
Ma Lang non concede scampo: al colpo di pistola, sopraggiunge Bertha Duncan
(Jeanette Nolan), la moglie del sergente, che non sembra preoccuparsi troppo
del marito morto ma è piuttosto interessata alla suddetta lettera. A quel punto
la donna contatta Mike Lagana (Alexander Scourby), il mafioso della città, per
imbastire un'evidente sorta di ricatto. E anche la famiglia, tra le istituzioni
americane, si prende quindi la sua parte: Bertha tutto sembra tranne che una
vedova addolorata; e neppure ricorda una donna onesta, per la verità.
Ma questo
è semplicemente l’inizio, una sorta di carica
del meccanismo che Lang arma, e che poi, quasi di inerzia, lentamente,
rilasciandosi, produce tutti gli effetti a catena che vedremo svilupparsi nel
lungometraggio. Questo preambolo permette di vedere molti dei personaggi: di
alcuni si è detto, ma poi facciamo conoscenza col gangster Vince Stone (un
allucinato Lee Marvin), il suo scagnozzo Larry Gordon (Adam William), ma
soprattutto la donna del bandito,
quella che scopriremo essere la vera protagonista del film, Debbie, (una
straordinaria Gloria Grahame). Perché in prima istanza, e anche ufficialmente, il protagonista è il
sergente Dave Bannion (Glenn Ford, in una delle sue migliori interpretazioni),
incaricato di indagare sul suicidio del collega. A quel punto, il film, sembra
quasi concedersi una sorta di pausa: Bannion indaga, sospetta, intuisce, e viene
redarguito dal suo capo, il tenente Wilks (Willis Bouchey), perché sta
curiosando troppo.
Lang approfitta di questa fase interlocutoria per dare uno
sguardo alla vita famigliare di Bannion: le innocenti schermaglie scherzose con
la dolce moglie Katie (Jocelyn Brando) o i passaggi teneri con la figlioletta.
Il regista ci mostra quindi quello che è possibile nella liberale società americana, una vita serena, felice, pacifica; a
patto di stare al tuo posto e soprattutto di stare al gioco, che tanto liberale non è. L’insoddisfazione di Bannion è via
via sempre più crescente, per via dei continui richiami dei superiori o delle
velate minacce dell’ambiente in cui si muove nella sua indagine. Nel frattempo,
visivamente, Lang alimenta la tensione sotterranea al suo film con passaggi di
grandissima efficacia. Quando viene trovata morta Lucy (Dorothy Green), non ne
viene mostrato il cadavere ma, dal dialogo, emerge che è stata torturata visto
che il corpo mostra bruciature di sigarette.
In quel momento Bannion spegne la
sua nel posacenere del tenente premendo con insistenza, veicolando l’immagine della
tortura subita dalla povera Lucy. Presto si capirà che il responsabile è Vince,
le scottature inflitte alle donne sono il suo marchio: lo vedremo spegnere il sigaro sul polso della povera Doris
(una delicata e deliziosa Carolyn Jones), in uno dei passaggi violenti mostrati
in modo esplicito; e, successivamente, farà di peggio alla povera Debbie in una
delle scene più famose della storia del cinema. Ma siamo ancora alla quiete che
precede la tempesta, quella fase in cui la violenza corre sottotraccia, è
indotta ma, a parte qualche accenno come quello allusivo delle bruciature di
sigaretta (siamo pur sempre in un crime-movie,
sarebbe quindi lecito attendersi ben di peggio) non si manifesta in modo
compiuto.
Lo stato di tensione è sostenuto a vari livelli: nel merito specifico
della storia raccontata sullo schermo con il contrasto tra l’idillio famigliare
di Bannion e l’ambiente circostante corrotto, dal lavoro alla società in
generale; in senso assoluto per il grado di immoralità diffuso, con le ragazze
marchiate a fuoco come bestiame o le autorità che si sottomettono alla
criminalità. E, contemporaneamente, da un punto di vista registico, tramite i
dialoghi, secchi, senza fronzoli, con Bannion che non dice mai una parola fuori
posto ma inchioda l’interlocutore di turno con battute senza possibilità di
replica e con tutta quanta la messa in scena complessiva: la fotografia
(Charles Lang Jr.) un bianco e nero limpido e documentaristico che lascia però
intravvedere l’eredità espressionista e le inquadrature rigorose, con una
composizione accurata di ogni minimo dettaglio della scena. Chissà che i sei
mesi in cui il giovane Fritz Lang aveva studiato architettura non abbiano
qualche eco nella sublime capacità del maestro di illustrare le ambientazioni
d’interno dei suoi lungometraggi. Il colpo di scena che spacca letteralmente in
due il film è un altro passaggio magistrale, tenuto addirittura fuori scena in
senso superficialmente letterale, ma quasi preannunciato, dalla situazione
generale e dal ricamo narrativo in cui si evidenzia l’occasionalità del fatto
che sia Katie e non il marito ad andare all’automobile.
L’esplosione dell’auto,
che entra visivamente nell’inquadratura dai vetri della finestra, arriva quasi
prevista, con il tempismo perfetto del meccanismo narrativo per cui il colpo di
scena, dopo che è avvenuto, sembrava tanto atteso da essere prevedibile. In
questo modo l’enfasi è amplificata, perché allo spavento si è sommata una
suspense crescente pur se quasi inconscia. Questo passaggio divide in due il
film: il tema della divisione interiore, della presenza di male e bene nello
stesso individuo, è centrale in Lang ma soprattutto ne Il grande caldo. D’ora in avanti Bannion getta la maschera di
persona recalcitrante ma diligente e sfodera una determinazione che lo porterà
vicino alla totale perdizione. Ma non è lui, si diceva, il vero protagonista
del film.
Perché dall’esplosione in poi tornano prepotentemente al centro della
scena i criminali della storia e, totalmente in modo inaspettato, a prendersi
gli onori di vera protagonista è Debbie, la pupattola
senza cervello di Vince. Donna effettivamente frivola, affascinata dalla
brutalità del suo macho, rimane
colpita quando questi abbassa le penne
e se la fila di fronte ad un Bannion ormai senza controllo. Il suo interesse
per il sergente sembra in parte della stessa natura di quello che la lega a
Vince: alla fine è stato uno scontro di forza tra i due uomini, e il vincente è
stato Bannion. Ma è anche vero che il poliziotto è entrato in azione quando il
gangster se l’è presa con la povera Doris.
Qualcosa, e la Grahame è strepitosa in
questo senso, sembra cominciare a mulinare nella graziosa testolina di Debbie:
non è che sia un genio, ma forse è la prima volta che vede qualcuno fare
qualcosa di giusto, e trova così una
sorta di conferma ai propri mal di
stomaco, che le procura vivere con una bestia come Vince. Il passo decisivo
la induce a farlo proprio il criminale, nella scena più famosa del film, quella
del caffè bollente sul viso della ragazza: scena che doppia, ribadendo il tema
speculare dell’opera, il significato del titolo. The Big Heat è un termine gergale della malavita, per intendere un
elevarsi del grado di attenzione da parte della polizia nei confronti della
criminalità, ma qui è chiaro anche un riferimento al passaggio cruciale del lungometraggio.
Perché l’ustione ai danni di Debbie è una svolta, che doppia quella
dell’esplosione dell’auto di Bannion, un ulteriore momento caldo, ancora una volta tenuto fuori dallo schermo e ancora più
importante del precedente. Perché se il primo passaggio aveva spinto il
sergente oltre il limite, sul punto di uccidere a sangue freddo una donna, la
vedova Duncan, sarà solo grazie al secondo che Debbie deciderà di porre rimedio
alla propria frivola condotta, addossandosi le responsabilità delle azioni
necessarie e salvando, di conseguenza, la moralità di Bannion. E’ chiaro, c’è
un nesso tra la svolta morale di Debbie e la perdita della bellezza: ora che è
una donna sfregiata, non può più essere la pupa del gangster, e quindi ecco un
concreto incentivo alla sua redenzione.
Ma non ci si può certo aspettare che
proprio Lang bari su questo terreno: solo il dolore, la disperazione, la
perdita della bellezza, la rabbia, la voglia di vendicarsi, possono essere il
combustibile che Debbie trasforma in un’azione moralmente giusta, anche se estrema. Di fatto, nella migliore scena del film
(costituito, come intuibile, da un succedersi continuo di sequenze d’alta
scuola) Debbie si presenta a tu per tu con la vedova Duncan. Il confronto tra
le due donne è il vero punto nevralgico ma, prima di arrivarci, vale la pena
soffermarsi sulla sublime capacità di Lang di preparare in modo sottile le
svolte decisive del suo racconto. Il maestro non si limita a mostrare le
immagini del suo film ma, giocando in anticipo con l’immaginazione dello
spettatore, può alimentare ora la suspense ora la sorpresa degli avvenimenti.
Bannion è appena andato a trovare la sua bambina, sorvegliata dal cognato e da
alcuni ex commilitoni; sul portone incontra il tenente Wilks e il collega Gus
(Robert Burton), che offrono la loro collaborazione nella protezione della
piccola. Prima di congedarsi chiedono al sergente se ha bisogno di compagnia:
Bannion rifiuta, e allo spettatore non può non venire in mente che, nella
camera accanto a quella del poliziotto, ha trovato rifugio la povera Debbie,
dopo lo sfregio subito. Bannion ha già compagnia. Poi Gus arriva al dunque: al
comando devono aver saputo che Bannion ha quasi strozzato a mani nude la
signora Duncan: l’uomo chiede al collega se intende tornare dalla vedova.
Bannion risponde di no. Stacco, un campanello suona, una donna in pelliccia di
visone (Debbie?) scende da una scalinata di quella che sembra essere casa
Duncan: ma cosa ci fa Debbie a casa della vedova?
Calma, quella che scende
dalle scale impellicciata non è Debbie, ma appunto la signora Duncan, che si
reca alla porta, dove stanno suonando. E’ Debbie. Le due donne, evocate dal
dialogo precedente, si ritrovano ora specularmente faccia a faccia, vestite in
modo uguale; la cosa è anche notata dall’ex ragazza del gangster. Sono davvero
una lo specchio dell’altra: la vedova rispettabile, è moralmente corrotta; la
poco di buono, è ora decisa a riscattare la propria coscienza. Uguali e
contrarie. Il passaggio in cui Debbie uccide a sangue freddo la vedova è un po’
forte, è vero, e certamente eticamente condannabile. Ma, sembra dirci Lang, è
l’unico modo per cui il marcio non prevalga: difficile essere d’accordo alla lettera su questo passaggio, ma
sembra piuttosto essere l’espiazione di Debbie che accetta di assumersi questo
compito ingrato, diventare un’assassina, pur di non vederlo ricadere sull’eroe
onesto della storia, Bannion.
Per comprendere bene questa delicata svolta
narrativa può aiutare il costatare che nel film non c’è una storia d’amore tra Debbie
e Bannion. La ragazza non si innamora del poliziotto, non compie il suo gesto
per amore; il suo è un gesto morale,
Debbie vuole riscattare la sua vita evitando che quella di Bannion venga
rovinata da un gesto tanto condannabile. L’attenzione di Debbie non è più si di
sé, lei sa bene di essere rovinata, e lo sfregio sul viso ne è solo la
manifestazione esteriore, ma è affascinata dalla vita normale, onesta, di Bannion. Per questo chiede insistentemente
della moglie Katie al poliziotto: quello che l’affascina non è l’uomo, ma
l’amore che quest’uomo provava per la moglie, un sentimento che nessuno ha mai
provato per lei.
In questo elogio alla normalità della vita famigliare
americana, ci si potrebbe leggere una luce positiva, nel film di Lang, se non fosse
che è uno sguardo al passato, a qualcosa che non c’è più, (la moglie morta) e
che non può accadere tra i due personaggi principali del film, Bannion e
Debbie. Inoltre, la critica alla società americana è enorme, sebbene poi ci sia
qualche buffetto positivo, come i due poliziotti che solidarizzano con Bannion
nel finale: il commissario di polizia (Howard Wendell) asservito alla mala, il
sergente suicida in preda ai rimorsi, la vedova che approfitta della situazione
per ricattare Lagana, lo stesso Lagana che è un personaggio rispettabile; in
effetti è solo con un colpo di pistola ben assestato che tutto il castello di
corruzione può cadere. E il fatto che il confronto decisivo sia risolto da
donna a donna, sebbene risolto nella maniera più maschile possibile, ossia
con una sorta di duello western, è forse l’intuizione che alimenta le speranze
che possa cambiare qualcosa nella società americana. L’assunzione cioè di una
maggior importanza della figura femminile; evoluzione cominciata concretamente
durante la guerra e, negli anni 50, ancora in pieno divenire. Il genio di Lang sembra dunque lasciarci qualche speranza, (il
riscatto di Debbie, la fine dell’impero di Lagana), ma sappiamo quanto al
maestro piaccia prepararsi il terreno. Che futuro può esserci, passando
attraverso l’omicidio, la violenza? Forse, il riscatto di Debbie è in realtà il
sipario definitivo sul futuro morale dell’America.
Gloria Grahame
Gtandissimo
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