125_MIRACOLO A MILANO. Italia, 1951; Regia di Vittorio De Sica.
Il C’era una
volta che introduce il film, sgombra subito il campo da eventuali obiezioni
realistiche: si accetti quindi che la
vecchina che incontriamo in avvio di pellicola coltivi un campo di cavolfiori
grande abbastanza da sfamare un reggimento e che, sotto uno di questi ortaggi,
venga trovato, come da tradizione popolare, il protagonista della nostra
vicenda. Non saranno queste le cose meno credibili del film; o perlomeno non
saranno le uniche palesemente incredibili. Non che Vittorio De Sica o Cesare
Zavattini facciano qualche sforzo per renderle in qualche modo realisticamente
plausibili; mannò, la scritta all’inizio
della pellicola lo dice esplicitamente, è una favola. E come tutte le favole ha
una morale, in questo caso piuttosto facile da leggere, perché la pellicola non
usa certo un linguaggio difficile. In effetti questa è addirittura una critica
che può essere mossa, a Miracolo a Milano;
ossia di essere troppo semplicistico, troppo scontato. Ma forse gli autori
hanno scorto che il rischio maggiore nella nostra società non è il male in sé;
l’egoismo, l’arrivismo, l’invidia sono dilaganti, è vero, nella società
competitiva del dopoguerra, ma c’è qualcosa di peggio. Il rischio peggiore è
l’abitudine a questi aspetti della natura umana che la società del libero
mercato finisce per favorire; il cinismo è forse quindi il pericolo più grosso
che stiamo correndo, perché si finisce per accettare come inevitabili le scelte
ingiuste dettate dall’opportunismo o dalla speculazione. E allora questo Miracolo a Milano acquista una maggiore
dignità rispetto alla favoletta buonista che sembra essere all’apparenza. Nel
film coesistono molti elementi tra loro contrastanti, che ci permettono di fare
due tipi di confronto distinti. C’è il contrasto realistico/irrealistico, e il
contrasto ricchi/poveri: le condizioni
misere dei barboni sono mostrate in modo realistico, sfruttando a proprio
comodo la scuola neorealista; le
scene della vecchina, ma ancora di più tutta la deriva finale con gli angeli e
il volo delle scope, sono assolutamente incredibili anche per il più ben
disposto spettatore.
Si crea quindi un contrasto molto netto: tanto sono
credibili le scene di povertà, tanto non lo sono quelle fantastiche. Esistono
decine di esempi, nel genere fantastico,
appunto, in cui scene irrealistiche sono però molto credibili, perlomeno sullo
schermo: si pensi ai film coi vampiri, fantasmi, ecc. De Sica invece si rivolge
al surrealismo, più che al fantastico, proprio perché non vuole spacciare le
sue scene per credibili: sono incredibili e devono rimanerlo sempre, senza
sospensioni di incredulità temporanee. In questo senso è magistrale la scena
del venditore di palloncini, forse la migliore dell’intero film, perché
racchiude in sé il contrasto tra i due elementi: l’uomo è talmente povero da
essere così magro che se prende in mano i palloncini vola via con loro. Ma la
necessità di tenere sempre ben presente la non credibilità di certi aspetti ha
una ragione, naturalmente: serve per spiegare la metafora intrinseca al doppio
confronto presente nel film.
Perché l’altro versante dei contrasti mostrati è
quello tra poveri e ricchi: qui il paragone è tra due realtà, due condizioni
reali, l’estrema povertà e l’estrema ricchezza sono affiancate. E la sensazione
di contrasto che provocano è la stessa rispetto a quell’altro tipo di
confronto, tra realismo e surrealismo: in sostanza De Sica e Zavattini ci
dicono che è surreale che ci siano
persone tanto ricche al cospetto di persone tanto povere. E in questo senso, il
film è quindi meno scontato di quanto non possa sembrare a prima vista.
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