134_SCIUSCIA' Italia, 1946; Regia di Vittorio De Sica
Dopo I
bambini di guardano, De Sica concentra ancora l’obiettivo della sua
macchina da presa sul mondo infantile; il polivalente artista sembra quasi
avvertire la necessità di uno sguardo innocente, puro e incontaminato dalle
scorie ideologiche del periodo bellico. Non cerca, però, De Sica una fuga dalla
realtà, tutt’altro. Già il titolo lo testimonia: Sciuscià è una storpiatura del termine Shoeshine, ovvero lustrascarpe, che era poi l’unico modo che
avevano i ragazzini dell’immediato dopoguerra di fare qualche soldo, lucidando
le scarpe ai soldati alleati ancora stanziati nel nostro paese. C’è quindi un
rimando diretto e un’ambientazione fortemente attinente al drammatico periodo
storico dell’immediato dopoguerra italiano. Autore del soggetto, tra gli altri,
è Cesare Zavattini, a cui si deve lo stile della prima parte dell’opera, quella
ambientata per le vie di una Roma ancora malmessa dallo scontro bellico. La
macchina da presa di De Sica segue le vicende di due ragazzini, Pasquale
(Franco Interlenghi) e Giuseppe (Rinaldo Smordoni) con la peculiare caratteristica
del pedinamento zavattiniano. In
questo senso appare anche logica la scelta di prediligere uno sguardo infantile
per fare un bilancio sui resti dell’Italia disastrata del dopoguerra, in modo
che risulti il più possibile neutrale, mondato da qualunque giustificazione
ideologica.
L’obiettivo è centrato proprio grazie all’immersione nella vita quotidiana di questi lustrascarpe,
coi loro sogni, a volte anche assurdi (l’acquisto d’un cavallo), e le loro
difficoltà a distinguere il bene dal male, a fronte di una completa assenza
delle istituzioni in fase di ausilio o supporto dell’individuo. In merito a
tale assenza, c’è la presenza minima anche della famiglia, da sempre ritenuto
storico baluardo della società italiana: Pasquale è orfano, e la famiglia di
Giuseppe è fonte di guai (il fratello maggiore) o rimproveri (la madre), e
soltanto la sorellina è in qualche modo d’aiuto con il suo semplice ma genuino
affetto. La seconda parte del film è più cruda e drammatica, ed è ambientata in
riformatorio, dove i nostri piccoli eroi finiscono in seguito di un loro
coinvolgimento in alcuni traffici illeciti.
La vita in riformatorio è sicuramente e
prevedibilmente difficile ma, la cosa che lascia sgomenti, è l’evidente resa
della società, che in sostanza non fa nulla per recuperare i ragazzi
dell’istituto. C’è un approccio molto brutale, non nel senso delle sevizie o
percosse, che non sono, per fortuna, all’ordine del giorno: l’impressione che
si ricava è che i ragazzi, alcuni dei quali ancora molto giovani, siano
considerati già irrecuperabili, senza speranza. E questa sfiducia delle
istituzioni per soggetti ancora in tenera età, finisce per far male anche più
delle inaccettabili cinghiate che il povero Pasquale deve subire, in seguito ad
una ingiusta accusa di tentata evasione.
Il finale è tragico, il più tragico che si potesse
immaginare, perché concretizza quelle nefaste previsioni: non c’è futuro per
questi ragazzi, a cui la nostra società nega ogni speranza o fiducia. De Sica è
bravissimo, perché mette in scena questa tragedia senza scadere nel
sentimentalismo spicciolo, e se il copione paga qualche ingenuità, lo si può
perdonare in un computo generale di un’opera tanto rilevante.
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