132_REBECCA, LA PRIMA MOGLIE (Rebecca). Stati Uniti, 1940; Regia di Alfred Hitchcock
Prima
opera americana del regista inglese Alfred Hitchcock, Rebecca, la prima
moglie, un po’ a sorpresa, aspira dichiaratamente ad essere in tutto e per
tutto un film inglese. Almeno stando alle ambizioni della produzione,
capeggiata da quel David O. Selznick che con Via col vento era
divenuto il re Mida di Hollywood. Proprio il successo del film di Victor
Fleming aveva infatti convinto il vulcanico produttore che, nell’adattamento di
un romanzo famoso, ci si debba attenere il più possibile ad esso. E qui
cominciano i contrasti con Hitchcock, il talentuoso regista britannico
ingaggiato per la regia, giunto ad Hollywood dopo i brillanti risultati
ottenuti in patria; risultati che ne avevano sancito uno stile assai personale
e autonomo da qualsiasi interferenza, almeno fino al precedente lungometraggio.
Perché l’impostazione generale di Rebecca- la prima moglie rivela invece
la matrice del produttore, visto che l’adattamento proposto da Hitchcock, non
troppo fedele al romanzo, era stato scartato. C’è quindi una certa analogia tra
questi presupposti e la trama del film: un elemento di novità viene introdotto
in un ambiente di rango più elevato, i cui codici e regole ne tarpano le
possibilità di espressione. Naturalmente è un caso che ci sia questa
similitudine, perché di certo il regista non si sarebbe mai visto nei panni
della Joan Fontaine protagonista di Rebecca- la prima moglie; però
è una coincidenza curiosa e, forse questa non del tutto gratuita, una certa
somiglianza tra Hollywood e Manderley si può cogliere. Il film è quindi una
riproposizione in forma cinematografica del premiato romanzo omonimo della
scrittrice Daphne du Maurier e, apparentemente, ne rimane abbastanza fedele, a
parte qualche dettaglio. Uno di questi è legato all’incidente di Rebecca, la
cui morte, pur se fortuita, nel romanzo ricadeva maggiormente sulla
responsabilità del marito, Maxim de Winter (Laurence Oliver). Se è possibile
ipotizzare che Hitchcock avrebbe volentieri eliminato l’elemento fortuito a
favore di una maggiore e più diretta responsabilità del marito, il Codice Hays costrinse
il regista a rimanere addirittura più vago, nella circostanza.
Il
prologo potrebbe sembrare una sorta di presentazione: siamo calati in un sogno
lugubre, immerso nella nebbia e nell’oscurità che sfuma nel flashback che dà
avvio alla storia. La residenza mostrata è una dimora da incubo, degna di un
film dell’orrore: ma forse si tratta di una falsa pista, visto che l’incipit
della storia vera e propria, ovvero l’incontro tra la ragazza protagonista e il
suo principe azzurro, avviene
nientemeno che a Montecarlo. Lo stacco è sfumato, in verità, perché la prima
scena della Costa Azzurra non è certo idilliaca: le rabbiose acque del Mar
Mediterraneo sembrano aver ipnotizzato e ammaliato Max de Winter che si staglia
immobile e pericolosamente quasi in bilico sul ciglio del precipizio. Comunque
sia, la prima fase, quella dell’innamoramento tra la futura Mrs. de Winter e
l’aristocratico uomo rientrerà nei ranghi di una classica storia d’amore, con
risvolti anche umoristici ai danni della Signora Van Happer, la matrona presso
la quale la ragazza era al servizio. Il dubbio che il preambolo e la scena
dell’ipotetico tentato suicidio sulla scogliera non siano attendibili tracce,
può venire, perché tutto sembra filare per il verso giusto. Eppure c’è sempre
qualcosa che stona, anche nella romantica storia d’amore: Joan Fontaine è molto
brava a suggerire i timori di una ragazza a cui capita qualcosa fuori dalla
portata dei propri sogni, e il suo volto esprime continuamente moti di
incertezza tra desiderio e timore.
Dicevamo
come curiosamente della ragazza da lei interpretata non si faccia mai il nome:
come dire che non è nessuno; di contraltare, la presenza di Rebecca sarà
opprimente per il riflesso in ogni dettaglio, ogni ricordo, ma nel film non vi
sarà mai un’immagine che ne mostrerà le sembianze fisiche. D’altra parte
abbiamo detto essere una sorta di fantasma, e i fantasmi si sa, sono
incorporei. Beh, non è del tutto vero; è così nella tradizione, e Rebecca
esprime l’ideale di fantasma, beninteso come presenza incombente. Ma Hitchcock
ci regala un altro fantasma, di natura più cinematografica e quindi fisica,
solida, filmabile insomma. E’ la governante, la terrorizzante Mrs. Danvers che
nel film appare e scompare silenziosa; si muove, ma quasi senza camminare, come
fosse una presenza sovrannaturale. Forte di questa sua aurea maligna arriva
quasi fino ad indurre la nuova padrona di casa al suicidio. Se Manderley è un
santuario, Rebecca ne è la divinità e la Danvers il sommo
sacerdote. A fronte di una simile triplice alleanza, la situazione per la nuova
Mrs. de Winter appare disperata, e anche il periodo felice prima dell’arrivo a
Manderley finisce per apparire flebile come il filmino della loro luna di miele
che in effetti si rompe durante la proiezione. Ma la ragazza è
insospettabilmente tenace, non si perde d’animo e prova il tutto per tutto per
prendersi Manderley: il tranello della Danvers manderà all’aria i suoi piani,
nel modo più subdolo, ma un ulteriore colpo di scena rimescolerà di nuovo le
carte, che a quel punto sarebbero state assai brutte per la nostra giovine
eroina. Ci si trova così nella parte finale della storia, quella con l’indagine
di tipo investigativo con tanto di una sorta di processo.
Ora il
dubbio assale non solo la nostra povera ragazza ma anche lo spettatore: è
colpevole Maxim de Winter oppure no? Nel racconto che l’uomo fa alla moglie,
dovremmo dedurre di no, e così in effetti sarà; ma Hitchcock gioca non solo con
gli spettatori, ma anche con i censori del codice Hays e li tiene sulla corda… che
l’uomo abbia mentito e sia caduto vittima dell’ultima crudele trappola di
Rebecca? La questione è infatti importante non solo per soddisfare la curiosità
dello spettatore, ma anche perché da un piccolo particolare (Rebecca è caduta e
ha battuto la testa, o è stata spinta da Max?) dipende anche il quadro morale
dell’intero film. Oltre due ore di pellicola, appese a questo dettaglio: e
mentre ci si interroga, ci si scopre a fare il tifo per quello che potrebbe
essere un assassino, nello scontro finale che a Maxim oppone Jack Favell
(Geroge Sanders), suo accusatore, nonché suo tentato ricattatore e, in
precedenza, amante (e cugino) di Rebecca. Un individuo simpatico ma al contempo
viscido, che per alcuni momenti, assume ipoteticamente un ruolo più onesto di de Winter: le sue colpe sono
lievi al confronto di un omicidio e, se non altro, Favell non si spaccia per
galantuomo, dimostrando maggior coerenza del rivale.
Questa
terza parte assume così una funzione di valutazione finale dell’opera, quasi
fosse un commento essa stessa al film, più che il suo epilogo. L’ambiguità di
Maxim, che sa di essere innocente ma teme di essere colpevole, o comunque
condannato, ha la stessa matrice dei timori della seconda signora de Winter al
cospetto con Manderley. Il lieto fine sembra dirci che l’unico modo per uscirne
è affrontare ma soprattutto superare il passato, che sia un cadavere che
torna a galla o un’accusa di omicidio. Ma tutta la pellicola precedente ci ha
diffidato dal fidarci delle apparenze. A partire da quelle più legate alla
storia: Maxim sembrava adorasse Rebecca, invece la odiava; Rebecca veniva
descritta come impeccabile invece era una donna immorale; la storia d’amore del
film sembrava la fiaba di Cenerentola, ma si era trasformata in un incubo; si
pensava che Rebecca fosse incinta, e invece aveva un cancro.
E lo
stesso potrebbe dirsi rimanendo su temi più generici: il mare, abitualmente
simbolo di vita, diveniva in questa storia minaccioso custode della morte e la
casa, da sempre rifugio sicuro, ora si presentava come luogo angosciante e
terrorizzante. Sulla stessa falsariga potremmo valutare quindi il verdetto
finale nei confronti di Maxim: un primo ribaltamento c’era già stato quando,
ritenuto innocente, era sembrato colpevole dopo il ritrovamento del vero corpo
di Rebecca. Il successivo contro ribaltamento, grazie alle parole del dottore
sulla malattia di Rebecca, rimetteva l’uomo in bilico: era caduto nella
trappola della diabolica donna, o ci era andato solo vicino e poi era soggiunta
la sorte? Se in questa storia l’inganno era sempre in agguato dietro
l’apparente certezza, qui era ancora più difficile capire dove potesse
trovarsi, perché era già ambiguo ciò che si palesava come certo. Ma lo
scartamento provocato dalle rivelazioni finali era altrove, e non nella
colpevolezza o innocenza di Maxim; l’immagine di perfezione di Rebecca ora era
davvero perduta, e a Mrs. Danvers non rimaneva che distruggerne Manderley, il
santuario a lei dedicato.
Il rogo
purificatore della residenza finiva così per benedire l’unione dei de Winter,
con Maxim abbracciato alla sua giovane sposa, aggrappato a quella innocente
ingenuità.
Già, l’ingenuità:
l’unica forza in grado di superare tutte le meschinità e bassezze di Manderley.
Joan Fontaine
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