137_IL GRANDE RE (Der grosse konig). Germania, 1942; Regia di Veit Harlan.
Film prodotto nella Germania nazista nel 1942,
ottenne da Goebbels il riconoscimento “Film
della Nazione”, mentre nell’Italia fascista vinse la Coppa Mussolini al Festival
di Venezia come miglior film straniero. Questi riconoscimenti non devono pesare
in modo negativo preventivamente nella valutazione dell’opera; è meglio
premetterli, a scanso di equivoci, ma la pellicola ha una sua autonomia al di
là della matrice propagandistica che però è comune a tantissimi film di guerra,
storici o biografici. Da un punto di vista storico Il Grande Re è visto ovviamente in ottica germanica, e quindi c’è
il normale accento sulle ragioni prussiane come è lecito attendersi in questi
casi. La faziosità nei confronti degli austriaci, o dei russi, è però assai
limitata, e non inficia lo sguardo dello spettatore neutrale. Di notevole
impatto l’aspetto visivo, che conferma l’alta scuola cinematografica tedesca
del periodo (il film, prodotto dalla Tobis Filmkunst, venne distribuito dalla
celebre Universum Film, meglio nota come UFA). Nell’insieme la pellicola è
fondamentalmente composta da scene d’interni e dalle riprese delle battaglie.
Nelle prime spicca la grandissima abilità recitativa di Otto Gebhur, che
interpreta Federico II di Prussia, Il grande
Re del titolo dell’opera. L’attore ha interpretato già più volte Federico
II, con il quale ha anche una notevole somiglianza: è forse divenuto un po’
troppo anziano per il ruolo, ma compensa con un’ottima recitazione che sfocia nell’apparente
identificazione fisica e psicologica col personaggio. Da parte sua il regista
Veit Harlan gestisce in modo sicuro gli elementi nelle riprese d’interni; le
ricostruzioni ambientali sono accurate e d’atmosfera, la direzione degli attori
puntuale.
Uno degli aspetti migliori dell’opera sono però le
scene di guerra, in particolar modo quelle iniziali della battaglia di
Kunersdorf. In questi frangenti Harlan dirige un autentico kolossal bellico,
con movimenti di masse di soldati e riprese panoramiche che illustrano le fasi
del conflitto in modo assolutamente spettacolare. Il punto di vista sulla
battaglia è simile al quadro generale dei movimenti delle truppe su una mappa, con
il condottiero che manovra i movimenti dei suoi soldati dall’alto. Curiosamente
questa prima battaglia è quella girata con più cura, con maggiore attenzione:
curiosamente perché è la più grande disfatta subita dall’esercito prussiano. Le
altre due battaglie mostrate nella pellicola (Torgau e Schweidnjtz) pur se
vittoriose per Federico II, non hanno la stessa enfasi: nella prima è
addirittura evidenziato un episodio fortuito che avrebbe risolto la contesa in
favore dei prussiani. Come a delegittimare le capacità tattiche dello stesso
Federico II, del resto già apertamente contestate dal fratello, il principe
Enrico, dopo la disfatta di Kunersdorf. Ma qui l’interesse è forse posto su un
altro aspetto: il sergente Treskow, disubbidendo agli ordini, aveva suonato la
carica per avvertire i suoi compagni dell’arrivo degli Austriaci alle loro spalle;
mossa che aveva ribaltato il prevedibile esito della battaglia consegnando la
vittoria ai prussiani.
Federico II punirà il gesto indisciplinato del suo
sergente, infliggendogli tre giorni legato alla ruota; solo in seguito il
militare potrà venir promosso per i meriti sul campo. E’ forse questo il
passaggio cruciale: l’indisciplina non è mai esente dalla giusta punizione,
anche quando è a fin di bene. Ma Treskow patisce moralmente l’umiliazione ed è
sul punto di disertare; da quell’atto disonorevole lo salverà la moglie Louise.
Questa ragazza, una mugnaia di Kunerdorf, si era resa protagonista di una
gustosa scena, non priva di significato, quando si era trovata téte-a-téte con il re, senza averlo riconosciuto. La sera
della cruenta battaglia, pur essendo sfollata, era rincasata per recuperare gli
effetti personali; furibonda per la devastazione subita dalla sua abitazione e
dal rogo in cui era andato distrutto il suo mulino, avendo trovato la sua casa
occupata da uno stanco e male in arnese soldato, si era lasciata andare a
invettive contro la politica belligerante del re, responsabile di tutte le sue
disgrazie. Memorabile il “alzati, sei
seduto sul mio cappotto” con cui intimava, non avendolo appunto
riconosciuto, di sollevarsi dalla sedia al povero Federico II; condottiero che, dopo l’umiliante sconfitta sul campo di battaglia aveva ora, ascoltando le
parole della donna, anche l’amaro riscontro di valutare in presa diretta il
calo di popolarità presso la sua gente. Questi aspetti umani, lo sconforto,
l’atteggiamento dolente ma indomito del re sono molto interessanti e resi in
modo convincente da Otto Gebhur. Nel complesso, Federico II viene descritto da
Harlan in modo tridimensionale: subisce il contraccolpo della sconfitta
bruciante, ma possiede anche una ferrea volontà che lo sorregge nei
momenti più disperati.
Indubbiamente nelle vicende narrate ci si possono
vedere delle analogie con la storia tedesca del XX secolo: una pesante iniziale
sconfitta (Kunerdosf come la Grande Guerra ),
il tradimento interno (il disonore del reggimento di Bernburg, i cui soldati in
rotta riportarono ferite alla schiena, come il disonore della Repubblica di
Weimar, con l’accettazione passiva dei diktat del trattato di Versailles), fino
alla rivalsa finale (i trionfi prussiani come l’auspicata, nel 1942, vittoria
nella II Guerra Mondiale). Il riferimento a Versailles ha molteplice valenza:
nel film vengono infatti citati da Federico II i trattati di Versailles, dove
durante la guerra dei sette anni si
sanciva l’alleanza Franco-Austriaca di matrice anti prussiana; quella stessa
Versailles sede del trattato del 1919 che fu una delle ragioni della rivalsa
nazista. Ma Versailles era anche luogo dell’incoronazione ad imperatore del Re
Prussiano nel 1871, con la nascita del II Impero Tedesco proprio in terra
francese, massimo scorno per il popolo transalpino. Questo rendeva la residenza
voluta da Luigi XIII una metafora geografica che conteneva essa stessa sia i
momenti critici necessari ai moti reattivi, che i successi derivanti dalla
indomita capacità teutonica di reagire alla avversità con sempre rinnovato
vigore.
La valenza del lungometraggio di Veit Harlan è
quindi notevole, perché non scade mai nell’apologia di Federico II o della
storia germanica; ha un’ottica parziale, questo è vero, ma in modo che è
abituale a questo tipo di pellicole. E, se è pur vero che contiene spunti e rimandi
utilizzati dalla propaganda nazista, questo, se è criticabile in senso etico
o morale, non lo è dal punto di vista cinematografico; e forse neanche storico.
Kristina Soderbaum
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