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venerdì 27 aprile 2018

IL GRANDE RE

137_IL GRANDE RE (Der grosse konig). Germania, 1942;  Regia di Veit Harlan.

Film prodotto nella Germania nazista nel 1942, ottenne da Goebbels il riconoscimento “Film della Nazione”, mentre nell’Italia fascista vinse la Coppa Mussolini al Festival di Venezia come miglior film straniero. Questi riconoscimenti non devono pesare in modo negativo preventivamente nella valutazione dell’opera; è meglio premetterli, a scanso di equivoci, ma la pellicola ha una sua autonomia al di là della matrice propagandistica che però è comune a tantissimi film di guerra, storici o biografici. Da un punto di vista storico Il Grande Re è visto ovviamente in ottica germanica, e quindi c’è il normale accento sulle ragioni prussiane come è lecito attendersi in questi casi. La faziosità nei confronti degli austriaci, o dei russi, è però assai limitata, e non inficia lo sguardo dello spettatore neutrale. Di notevole impatto l’aspetto visivo, che conferma l’alta scuola cinematografica tedesca del periodo (il film, prodotto dalla Tobis Filmkunst, venne distribuito dalla celebre Universum Film, meglio nota come UFA). Nell’insieme la pellicola è fondamentalmente composta da scene d’interni e dalle riprese delle battaglie. Nelle prime spicca la grandissima abilità recitativa di Otto Gebhur, che interpreta Federico II di Prussia, Il grande Re del titolo dell’opera. L’attore ha interpretato già più volte Federico II, con il quale ha anche una notevole somiglianza: è forse divenuto un po’ troppo anziano per il ruolo, ma compensa con un’ottima recitazione che sfocia nell’apparente identificazione fisica e psicologica col personaggio. Da parte sua il regista Veit Harlan gestisce in modo sicuro gli elementi nelle riprese d’interni; le ricostruzioni ambientali sono accurate e d’atmosfera, la direzione degli attori puntuale. 

Uno degli aspetti migliori dell’opera sono però le scene di guerra, in particolar modo quelle iniziali della battaglia di Kunersdorf. In questi frangenti Harlan dirige un autentico kolossal bellico, con movimenti di masse di soldati e riprese panoramiche che illustrano le fasi del conflitto in modo assolutamente spettacolare. Il punto di vista sulla battaglia è simile al quadro generale dei movimenti delle truppe su una mappa, con il condottiero che manovra i movimenti dei suoi soldati dall’alto. Curiosamente questa prima battaglia è quella girata con più cura, con maggiore attenzione: curiosamente perché è la più grande disfatta subita dall’esercito prussiano. Le altre due battaglie mostrate nella pellicola (Torgau e Schweidnjtz) pur se vittoriose per Federico II, non hanno la stessa enfasi: nella prima è addirittura evidenziato un episodio fortuito che avrebbe risolto la contesa in favore dei prussiani. Come a delegittimare le capacità tattiche dello stesso Federico II, del resto già apertamente contestate dal fratello, il principe Enrico, dopo la disfatta di Kunersdorf. Ma qui l’interesse è forse posto su un altro aspetto: il sergente Treskow, disubbidendo agli ordini, aveva suonato la carica per avvertire i suoi compagni dell’arrivo degli Austriaci alle loro spalle; mossa che aveva ribaltato il prevedibile esito della battaglia consegnando la vittoria ai prussiani.


Federico II punirà il gesto indisciplinato del suo sergente, infliggendogli tre giorni legato alla ruota; solo in seguito il militare potrà venir promosso per i meriti sul campo. E’ forse questo il passaggio cruciale: l’indisciplina non è mai esente dalla giusta punizione, anche quando è a fin di bene. Ma Treskow patisce moralmente l’umiliazione ed è sul punto di disertare; da quell’atto disonorevole lo salverà la moglie Louise. Questa ragazza, una mugnaia di Kunerdorf, si era resa protagonista di una gustosa scena, non priva di significato, quando si era trovata téte-a-téte  con il re, senza averlo riconosciuto. La sera della cruenta battaglia, pur essendo sfollata, era rincasata per recuperare gli effetti personali; furibonda per la devastazione subita dalla sua abitazione e dal rogo in cui era andato distrutto il suo mulino, avendo trovato la sua casa occupata da uno stanco e male in arnese soldato, si era lasciata andare a invettive contro la politica belligerante del re, responsabile di tutte le sue disgrazie. Memorabile il “alzati, sei seduto sul mio cappotto” con cui intimava, non avendolo appunto riconosciuto, di sollevarsi dalla sedia al povero Federico II; condottiero che, dopo l’umiliante sconfitta sul campo di battaglia aveva ora, ascoltando le parole della donna, anche l’amaro riscontro di valutare in presa diretta il calo di popolarità presso la sua gente. Questi aspetti umani, lo sconforto, l’atteggiamento dolente ma indomito del re sono molto interessanti e resi in modo convincente da Otto Gebhur. Nel complesso, Federico II viene descritto da Harlan in modo tridimensionale: subisce il contraccolpo della sconfitta bruciante, ma possiede anche una ferrea volontà che lo sorregge nei momenti più disperati. 
Indubbiamente nelle vicende narrate ci si possono vedere delle analogie con la storia tedesca del XX secolo: una pesante iniziale sconfitta (Kunerdosf come la Grande Guerra), il tradimento interno (il disonore del reggimento di Bernburg, i cui soldati in rotta riportarono ferite alla schiena, come il disonore della Repubblica di Weimar, con l’accettazione passiva dei diktat del trattato di Versailles), fino alla rivalsa finale (i trionfi prussiani come l’auspicata, nel 1942, vittoria nella II Guerra Mondiale). Il riferimento a Versailles ha molteplice valenza: nel film vengono infatti citati da Federico II i trattati di Versailles, dove durante la guerra dei sette anni si sanciva l’alleanza Franco-Austriaca di matrice anti prussiana; quella stessa Versailles sede del trattato del 1919 che fu una delle ragioni della rivalsa nazista. Ma Versailles era anche luogo dell’incoronazione ad imperatore del Re Prussiano nel 1871, con la nascita del II Impero Tedesco proprio in terra francese, massimo scorno per il popolo transalpino. Questo rendeva la residenza voluta da Luigi XIII una metafora geografica che conteneva essa stessa sia i momenti critici necessari ai moti reattivi, che i successi derivanti dalla indomita capacità teutonica di reagire alla avversità con sempre rinnovato vigore. 

La valenza del lungometraggio di Veit Harlan è quindi notevole, perché non scade mai nell’apologia di Federico II o della storia germanica; ha un’ottica parziale, questo è vero, ma in modo che è abituale a questo tipo di pellicole. E, se è pur vero che contiene spunti e rimandi utilizzati dalla propaganda nazista, questo, se è criticabile in senso etico o morale, non lo è dal punto di vista cinematografico; e forse neanche storico.





Kristina Soderbaum




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